Torquato Tasso - Opera Omnia >>  Aminta




 

iltasso testo integrale, brano completo, citazione delle fonti, commedie opere storiche opere letterarie in prosa e in versi, operaomnia #


INTERLOCUTORI

*

AMORE, che fa il prologo
DAFNE
SILVIA
AMINTA
TIRSI
ELPINO
SATIRO
NERINA
ERGASTO
CORO DE' PASTORI
VENERE, che fa l'epilogo




PROLOGO

AMORE (in abito pastorale)


Chi crederia che sotto umane forme
e sotto queste pastorali spoglie
fosse nascosto un dio? non mica un dio
selvaggio o de la plebe de gli dèi,
ma tra' grandi e celesti il più potente,
che fa spesso cader di mano a Marte
la sanguinosa spada, ed a Nettuno
scotitor de la terra il gran tridente,
e le folgori eterne a 'l sommo Giove.
In questo aspetto, certo, e in questi panni
non riconoscerà sì di leggiero
Venere madre me suo figlio Amore.
Io da lei son constretto di fuggire
e celarmi da lei, perch'ella vuole
ch'io di me stesso e de le mie saette
faccia a suo senno; e qual femina, e quale
vana ed ambiziosa, mi rispinge
pur tra le corti e tra corone e scettri,
e quivi vuol che impieghi ogni mia prova;
e solo a 'l volgo de' ministri miei,
miei minori fratelli, ella consente
l'albergar tra le selve ed oprar l'armi
ne' rozzi petti. Io, che non son fanciullo,
se ben ho volto fanciullesco ed atti,
voglio dispor di me come a me piace:
ché a me fu, non a lei, concessa in sorte
la face onnipotente e l'arco d'oro.
Però spesso celandomi, e fuggendo
l'imperio no, ché in me non l'ha, ma i preghi,
c'han forza porti da importuna madre,
ricovero ne' boschi e ne le case
de le genti minute. Ella mi segue,
dar promettendo a chi m'insegna a lei,
o dolci baci o cosa altra più cara:
quasi io di dare in cambio non sia buono,
a chi mi tace o mi nasconde a lei,
o dolci baci o cosa altra più cara:
questo io so certo almen, che i baci miei
saran sempre più cari a le fanciulle,
se io, che son l'Amor, d'amor m'intendo;
onde sovente ella mi cerca in vano,
ché rivelarmi altri non vuole e tace.
Ma per istarne anco più occulto, ond'ella
ritrovar non mi possa a i contrasegni,
deposto ho l'ali, la faretra e l'arco.
Non però disarmato io qui ne vengo,
ché questa, che par verga, è la mia face
(così l'ho trasformata), e tutta spira
d'invisibili fiamme; e questo dardo,
se bene egli non ha la punta d'oro,
è di tempre divine, e imprime amore
dovunque fiede. Io voglio oggi con questo
far cupa e immedicabile ferita
ne 'l duro sen de la più cruda ninfa
che mai seguisse il coro di Diana.
Né la piaga di Silvia fia minore
(ché questo è 'l nome de l'alpestre ninfa)
che fosse quella che pur feci io stesso
ne 'l molle sen d'Aminta, or son molt'anni,
quando lei tenerella ei tenerello
seguiva ne le caccie e ne i diporti.
E perché il colpo mio più in lei s'interni,
aspetterò che la pietà mollisca
quel duro gelo che d'intorno a 'l cuore
le ha ristretto il rigor de l'onestate
e del virginal fasto; ed in quel punto
ch'ei fia più molle, lancerogli il dardo.
E per far sì bell'opra a mio grand'agio,
io ne vo a mescolarmi in fra la turba
de' pastori festanti e coronati,
che già qui s'è inviata, ove a diporto
si sta ne' dì solenni, esser fingendo
uno di loro schiera: e in questo luogo,
in questo luogo a punto io farò il colpo,
che veder non potrallo occhio mortale.
Queste selve oggi ragionar d'Amore
s'udranno in nuova guisa: e ben parrassi
che la mia deità sia qui presente
in se medesma e non ne' suoi ministri.
Spirerò nobil sensi a' rozzi petti,
raddolcirò de le lor lingue il suono,
perché, ovunque i' mi sia, io sono Amore,
ne' pastori non men che ne gli eroi,
e la disagguaglianza de' soggetti,
come a me piace agguaglio. E questa è pure
suprema gloria e gran miracol mio,
render simili a le più dotte cetre
le rustiche sampogne: e se mia madre,
che si sdegna vedermi errar fra' boschi,
ciò non conosce, è cieca ella, e non io,
cui cieco a torto il cieco vulgo appella.



SCENA I

Dafne e Silvia.

Dafne - Vorrai dunque pur, Silvia,
da i piaceri di Venere lontana
menarne tu questa tua giovanezza?
Né 'l dolce nome di madre udirai,
né intorno ti vedrai vezzosamente
scherzar i figli pargoletti? Ah cangia,
cangia, prego, consiglio,
pazzarella che sei.

Silvia - Altri segua i diletti de l'amore,
se pur v'è ne l'amor alcun diletto:
me questa vita giova; e 'l mio trastullo
è la cura de l'arco e de gli strali,
seguir le fere fugaci, e le forti
atterrar combattendo; e se non mancano
saette a la faretra, o fere a 'l bosco,
non tem'io che a me manchino diporti.

Dafne - Insipidi diporti veramente,
ed insipida vita: e s'a te piace,
è sol perché non hai provata l'altra.
Così la gente prima, che già visse
nel mondo ancora semplice ed infante,
stimò dolce bevanda e dolce cibo
l'acqua e le ghiande: ed or l'acqua e le ghiande
sono cibo e bevanda d'animali,
poi che s'è posto in uso il grano e l'uva.
Forse, se tu gustassi anco una volta
la millesima parte de le gioie
che gusta un cor amato riamando,
diresti ripentita, sospirando:
« perduto è tutto il tempo
che in amar non si spende:
o mia fuggita etate,
quante vedove notti,
quanti dì solitari
ho consumati indarno,
che si poteano impiegar in quest'uso,
il qual più replicato è più soave! »
Cangia, cangia consiglio,
pazzarella che sei:
ché 'l pentirsi da sezzo nulla giova.

Silvia - Quando io dirò pentita sospirando
queste parole che tu fingi ed orni
come a te piace, torneranno i fiumi,
a le lor fonti, e i lupi fuggiranno
da gli agni, e 'l veltro le timide lepri,
amerà l'orso il mare, e 'l delfin l'alpe.

Dafne - Conosco la ritrosa fanciullezza:
qual tu sei, tal io fui; così portava
la vita e 'l volto, e così biondo il crine,
e così vermigliuzza avea la bocca,
e così mista co 'l candor la rosa
ne le guance pienotte e delicate.
Era il mio sommo gusto (or me n'avveggio,
gusto di sciocca) sol tender le reti,
ed invescar le panie, ed aguzzare
il dardo ad una cote, e spiar l'orme
e 'l covil de le fere; e se talora
vedea guatarmi da cupido amante,
chinava gli occhi rustica e selvaggia,
piena di sdegno e di vergogna; e m'era
mal grata la mia grazia, e dispiacente
quanto di me piaceva altrui: pur come
fosse mia colpa e mia onta e mio scorno
l'esser guardata, amata e desiata.
Ma che non puote il tempo? e che non puote,
servendo, meritando, supplicando,
fare un fedele ed importuno amante?
Fui vinta, io te 'l confesso: e furon l'armi
del vincitore umiltà, sofferenza,
pianti, sospiri e dimandar mercede.
Mostrommi l'ombra d'una breve notte
allora quel che 'l lungo corso e 'l lume
di mille giorni non m'avea mostrato.
Ripresi allor me stessa e la mia cieca
simplicitate e dissi sospirando:
« eccoti, Cinzia, il corno, eccoti l'arco,
ch'io rinunzio i tuoi strali e la tua vita ».
Così spero veder ch'anco il tuo Aminta
pur un giorno dimestichi la tua
rozza salvatichezza ed ammollisca
questo tuo cor di ferro e di macigno.
Forse ch'ei non è bello? o ch'ei non t'ama?
o ch'altri lui non ama? o ch'ei si cambia
per l'amor d'altri? over per l'odio tuo?
forse ch'in gentilezza egli ti cede?
Se tu sei figlia di Cidippe a cui
fu padre il dio di questo nobil fiume,
ed egli è figlio di Silvano a cui
Pane fu padre, il gran dio de' pastori.
Non è men di te bella, se ti guardi
dentro lo specchio mai d'alcuna fonte,
la candida Amarilli: e pur ei sprezza
le sue dolci losinghe e segue i tuoi
dispettosi fastidi. Or fingi (e voglia
pur dio che questo fingere sia vano)
ch'egli, teco sdegnato, alfin procuri
ch'a lui piaccia colei cui tanto ei piace:
qual animo fia il tuo? o con quali occhi
il vedrai fatto altrui? fatto felice
ne l'altrui braccia e te schernir ridendo?

Silvia - Faccia Aminta di sé e de' suoi amori
quel ch'a lui piace: a me nulla ne cale,
e, pur che non sia mio, sia di chi vuole:
ma esser non può mio s'io lui non voglio;
né s'anco egli mio fosse, io sarei sua.

Dafne - Onde nasce il tuo odio?

Silvia - Dal suo amore.

Dafne - Piacevol padre di figlio crudele.
Ma quando mai dai mansueti agnelli
nacquer le tigri? o dai bei cigni i corvi?
o me inganni o te stessa.

Silvia - Odio il suo amore,
ch'odia la mia onestate, ed amai lui,
mentr'ei volse di me quel ch'io voleva.

Dafne - Tu volevi il tuo peggio: egli a te brama
quel ch'a sé brama.

Silvia - Dafne, o taci o parla
d'altro, se vuoi risposta.

Dafne - Or guata modi!
Guata che dispettosa giovinetta!
Or rispondimi almen: s'altri t'amasse,
gradiresti il suo amore in questa guisa?

Silvia - In questa guisa gradirei ciascuno
insidiator di mia virginitate,
che tu dimandi amante ed io nimico.

Dafne - Stimi dunque nimico
il monton de l'agnella?
de la giovenca il toro?
Stimi dunque nimico
il tortore a la fida tortorella?
Stimi dunque stagione
di nimicizia e d'ira
la dolce primavera,
ch'or allegra e ridente
riconsiglia ad amare
il mondo e gli animali
e gli uomini e le donne? E non t'accorgi
come tutte le cose
or sono innamorate
d'un amor pien di gioia e di salute?
Mira là quel colombo
con che dolce susurro lusingando
bacia la sua compagna;
odi quel lusignuolo
che va di ramo in ramo
cantando: Io amo, io amo; e se no 'l sai,
la biscia lascia il suo veleno e corre
cupida a 'l suo amatore;
van le tigri in amore,
ama il leon superbo; e tu sol, fera
più che tutte le fere,
albergo gli dineghi ne 'l tuo petto.
Ma che dico leoni e tigri e serpi
che pur han sentimento? amano ancora
gli alberi. Veder puoi con quanto affetto
e con quanti iterati abbracciamenti
la vite s'avviticchia a 'l suo marito;
l'abete ama l'abete, il pino il pino,
l'orno per l'orno e per la salce il salce
e l'un per l'altro faggio arde e sospira.
Quella quercia che pare
sì ruvida e selvaggia,
sent'anch'ella il potere
de l'amoroso foco: e se tu avessi
spirto e senso d'amore, intenderesti
i suoi muti sospiri. Or tu da meno
esser vuoi de le piante,
per non esser amante?
Cangia, cangia consiglio,
pazzarella che sei.

Silvia - Orsù, quando i sospiri
udirò de le piante,
io son contenta allor d'essere amante.

Dafne - Tu prendi a gabbo i miei fidi consigli
e burli mie ragioni, o in amore
sorda non men che sciocca! Ma va' pure,
ché verrà tempo che ti pentirai
non averli seguiti. E già non dico
allor che fuggirai le fonti ov'ora
spesso ti specchi e forse ti vagheggi,
allor che fuggirai le fonti, solo
per tema di vederti crespa e brutta:
questo averratti ben; ma non t'annunzio
già questo solo che, ben ch'è gran male,
è però mal comune. Or non rammenti
ciò che l'altr'ieri Elpino raccontava,
il saggio Elpino a la bella Licori,
Licori che in Elpin puote con gli occhi
quel ch'ei potere in lei dovria co 'l canto,
se 'l dovere in amor si ritrovasse?
e 'l raccontava udendo Batto e Tirsi
gran maestri d'amore, e 'l raccontava
ne l'antro de l'Aurora, ove su l'uscio
è scritto: Lungi, ah lungi ite, profani.
Diceva egli, e diceva che glie 'l disse
quel Grande che cantò l'armi e gli amori
ch'a lui lasciò la fistola morendo,
che là giù ne lo 'nferno è un nero speco,
là dove essala un fumo pien di puzza
da le triste fornaci d'Acheronte,
e che quivi punite eternamente
in tormenti di tenebre e di pianto
son le femine ingrate e sconoscenti.
Quivi aspetta ch'albergo s'apparecchi
a la tua feritate:
e dritto è ben ch'il fumo
tragga mai sempre il pianto da quegli occhi
onde trarlo giammai
non poté la pietate.
Segui, segui tuo stile,
ostinata che sei.

Silvia - Ma che fe' allor Licori? e com' rispose
a queste cose?

Dafne - Tu de' fatti propri
nulla ti curi, e vuoi saper gli altrui.
Con gli occhi gli rispose.

Silvia - Come risponder sol poté con gli occhi?

Dafne - Risposer questi con dolce sorriso,
volti ad Elpino: -- Il core e noi siam tuoi:
tu bramar più non déi: costei non puote
più darti. -- E tanto solo basterebbe
per intiera mercede a 'l casto amante,
se stimasse veraci come belli
quegli occhi e lor prestasse intera fede.

Silvia - E perché lor non crede?

Dafne - Or tu non sai
ciò che Tirsi ne scrisse, allor ch'ardendo
forsennato egli errò per le foreste,
sì ch'insieme movea pietate e riso
ne le vezzose ninfe e ne' pastori?
Né già cose scrivea degne di riso,
se ben cose facea degne di riso.
Lo scrisse in mille piante, e con le piante
crebbero i versi; e così lessi in una:
Specchi del cor, fallaci infidi lumi,
Ben riconosco in voi gli inganni vostri:
Ma che pro', se schivarli Amor mi toglie?

Silvia - Io qui trapasso il tempo ragionando,
né mi sovviene ch'oggi è 'l dì prescritto
ch'andar si deve a la caccia ordinata
ne l'Eliceto. Or, se ti pare, aspetta
ch'io pria deponga nel solito fonte
il sudore e la polve ond'ier mi sparsi
seguendo in caccia una damma veloce
ch'al fin giunsi ed uccisi.

Dafne - Aspetterotti,
e forse anch'io mi bagnerò ne 'l fonte.
Ma sino a le mie case ir prima voglio,
ché l'ora non è tarda come pare.
Tu ne le tue m'aspetta ch'a te venga,
e pensa in tanto pur quel che più importa
de la caccia e del fonte: e se non sai,
credi di non saper, e credi a' savi.



SCENA II

Aminta e Tirsi.

Aminta - Ho visto a 'l pianto mio
risponder per pietate i sassi e l'onde,
e sospirar le fronde
ho visto a 'l pianto mio;
ma non ho visto mai
né spero di vedere
compassion ne la crudele e bella
che non so s'io mi chiami o donna o fera:
ma niega d'esser donna,
poi che niega pietate
a chi non la negaro
le cose inanimate.

Tirsi - Pasce l'agna l'erbette, il lupo l'agne,
ma il crudo Amor di lagrime si pasce,
né se ne mostra mai satollo.

Aminta - Ahi, lasso!
ch'Amor satollo è del mio pianto omai
e solo ha sete de 'l mio sangue; e tosto
voglio ch'egli e quest'empia il sangue mio
bevan con gli occhi.

Tirsi - Ahi, Aminta! ahi, Aminta!
che parli? o che vaneggi? Or ti conforta
ch'un'altra troverai, se ti disprezza
questa crudele.

Aminta - Ohimè! come poss'io
altri trovar se me trovar non posso?
Se perduto ho me stesso, quale acquisto
farò mai che mi piaccia?

Tirsi - O miserello,
non disperar, ch'acquisterai costei.
La lunga etate insegna a l'uom di porre
freno a i leoni ed a le tigri ircane.

Aminta - Ma il misero non puote a la sua morte
indugio sostener di lungo tempo.

Tirsi - Sarà corto l'indugio: in breve spazio
s'adira e in breve spazio anco si placa
femina, cosa mobil per natura
più che fraschetta a 'l vento e più che cima
di pieghevole spica. Ma ti prego,
fa' ch'io sappia più a dentro de la tua
dura condizione e de l'amore;
ché se ben confessato m'hai più volte
d'amare, mi tacesti però dove
fosse posto l'amore: ed è ben degna
la fedele amicizia ed il commune
studio de le Muse ch'a me scuopra
ciò ch'a gli altri si cela.

Aminta - Io son contento,
Tirsi, a te dir ciò che le selve e i monti
e i fiumi sanno, e gli uomini non sanno:
ch'io sono omai sì prossimo a la morte,
ch'è ben ragion ch'io lasci chi ridica
la cagion del morire e che l'incida
ne la scorza d'un faggio, presso il luogo
dove sarà sepolto il corpo esangue;
sì che talor passandovi quell'empia
si goda di calcar l'ossa infelici
co 'l piè superbo e tra sé dica: « È questo
pur mio trionfo »; e goda di vedere
che nota sia la sua vittoria a tutti
li pastori paesani e pellegrini
che quivi il caso guidi. E forse (ahi spero
troppo alte cose) un giorno esser potrebbe
ch'ella, commossa da tarda pietate
piangesse morto chi già vivo uccise,
dicendo: « Oh pur qui fosse, e fosse mio! »
Or odi.

Tirsi - Segui pur, ch'io ben t'ascolto,
e forse a miglior fin che tu non pensi.

Aminta - Essendo io fanciulletto, sì che a pena
giunger potea con la man pargoletta
a côrre i frutti dai piegati rami
degli arboscelli, intrinseco divenni
de la più vaga e cara verginella
che mai spiegasse al vento chioma d'oro.
La figliuola conosci di Cidippe
e di Montan, ricchissimo d'armenti,
Silvia, onor de le selve, ardor de l'alme?
Di questa parlo, ahi lasso! Vissi a questa
così unito alcun tempo, che fra due
tortorelle più fida compagnia
non sarà mai né fue.
Congiunti eran gli alberghi,
ma più congiunti i cori:
conforme era l'etate,
ma 'l pensier più conforme:
seco tendeva insidie con le reti
a i pesci ed a gli augelli, e seguitava
i cervi seco e le veloci damme:
e 'l diletto e la preda era commune.
Ma mentre io fea rapina d'animali,
fui, non so come, a me stesso rapito.
A poco a poco nacque ne 'l mio petto,
non so da qual radice,
com'erba suol che per se stessa germini,
un incognito affetto,
che mi fea desiare
d'esser sempre presente
a la mia bella Silvia;
e bevea da' suoi lumi
un'estranea dolcezza
che lasciava nel fine
un non so che d'amaro:
sospirava sovente, e non sapeva
la cagion de' sospiri.
Così fui prima amante ch'intendessi
che cosa fosse amore.
Ben me n'accorsi al fin: ed in qual modo,
ora m'ascolta e nota.

Tirsi - È da notare.

Aminta - A l'ombra d'un bel faggio Silvia e Filli
sedean un giorno ed io con loro insieme,
quando un'ape ingegnosa che cogliendo
se 'n giva il mèl per que' prati fioriti,
a le guance di Fillide volando,
a le guance vermiglie come rosa,
le morse e le rimorse avidamente:
ch'a la similitudine ingannata
forse un fior le credette. Allora Filli
cominciò lamentarsi, impaziente
de l'acuta puntura:
ma la mia bella Silvia disse: -- Taci,
taci, non ti lagnar, Filli: perch'io
con parole d'incanti leverotti
il dolor de la picciola ferita.
A me insegnò già questo secreto
la saggia Aresia, e n'ebbe per mercede
quel mio corno d'avolio ornato d'oro. --
Così dicendo, avvicinò le labra
de la sua bella e dolcissima bocca
a la guancia rimorsa, e con soave
susurro mormorò non so che versi.
Oh mirabili effetti! Sentì tosto
cessar la doglia: o fosse la virtute
di que' magici detti o, com'io credo,
la virtù de la bocca,
che sana ciò che tocca.
Io che sino a quel punto altro non volsi
che 'l soave splendor de gli occhi belli,
e le dolci parole, assai più dolci
che 'l mormorar d'un lento fiumicello
che rompa 'l corso fra minuti sassi
o che 'l garrir de l'aura in fra le frondi,
allor sentii ne 'l cor novo desire
d'appressare a la sua questa mia bocca:
e fatto, non so come, astuto e scaltro
più de l'usato (guarda quanto Amore
aguzza l'intelletto!), mi sovvenne
d'un inganno gentile co 'l qual io
recar potessi a fine il mio talento;
ché fingendo ch'un'ape avesse morso
il mio labro di sotto, incominciai
a lamentarmi di cotal maniera
che quella medicina che la lingua
non richiedeva il volto richiedeva.
La semplicetta Silvia,
pietosa del mio male,
s'offrì di dar aita
a la finta ferita, ahi lasso!, e fece
più cupa e più mortale
la mia piaga verace,
quando le labra sue
giunse a le labra mie.
Né l'api d'alcun fiore
còglion sì dolce il mel ch'allora io colsi
da quelle fresche rose;
se ben gli ardenti baci
che spingeva il desire a inumidirsi,
raffrenò la temenza
e la vergogna, o felli
più lenti e meno audaci.
Ma mentre a 'l cor scendeva
quella dolcezza mista
d'un secreto veleno,
tal diletto n'avea
che, fingendo ch'ancor non mi passasse
il dolor di quel morso,
fei sì ch'ella più volte
vi replicò l'incanto.
Da indi in qua andò in guisa crescendo
il desire e l'affanno impaziente
che non potendo più capir ne 'l petto,
fu forza che scoppiasse: ed una volta
che in cerchio sedevam ninfe e pastori
e facevamo alcuni nostri giuochi,
ché ciascun ne l'orecchio del vicino
mormorando diceva un suo secreto,
-- Silvia, -- le dissi -- io per te ardo, e certo
morrò, se non m'aiti. -- A quel parlare
chinò ella il bel volto, e fuor le venne
un improvviso insolito rossore
che diede segno di vergogna e d'ira:
né ebbi altra risposta che un silenzio,
un silenzio turbato e pien di dure
minaccie. Indi si tolse e più non volle
né vedermi né udirmi. E già tre volte
ha il nudo mietitor tronche le spighe
ed altretante il verno ha scossi i boschi
de le lor verdi chiome: ed ogni cosa
tentata ho per placarla, fuor che morte.
Mi resta sol che per placarla io mora:
e morrò volontier, pur ch'io sia certo
ch'ella o se ne compiaccia, o se ne doglia;
né so di tai due cose qual più brami.
Ben fôra la pietà premio maggiore
a la mia fede e maggior ricompensa
a la mia morte, ma bramar non deggio
cosa che turbi il bel lume sereno
a gli occhi cari e affanni quel bel petto.

Tirsi - È possibil però che s'ella un giorno
udisse tai parole, non t'amasse?

Aminta - Non so, né 'l credo; ma fugge i miei detti
come l'aspe l'incanto.

Tirsi - Or ti confida,
ch'a me dà il cuor di far ch'ella t'ascolti.

Aminta - O nulla impetrerai o, se tu impetri
ch'io parli, io nulla impetrerò parlando.

Tirsi - Perché disperi sì?

Aminta - Giusta cagione
ho del mio disperar; che il saggio Mopso
mi predisse la mia cruda ventura:
Mopso ch'intende il parlar de gli augelli
e la virtù de l'erbe e de le fonti.

Tirsi - Di qual Mopso tu dici? di quel Mopso
c'ha ne la lingua melate parole
e ne le labra un amichevol ghigno,
e la fraude ne 'l seno ed il rasoio
tien sotto il manto? Or su, sta' di bon core,
ché i sciaurati pronostichi infelici
ch'ei vende a' malaccorti con quel grave
suo supercilio non han mai effetto:
e per prova so io ciò che ti dico;
anzi da questo sol ch'ei t'ha predetto
mi giova di sperar felice fine
a l'amor tuo.

Aminta - Se sai cosa per prova
che conforti mia speme, non tacerla.

Tirsi - Dirolla volontieri. Allor che prima
mia sorte mi condusse in queste selve,
costui conobbi: e lo stimava io tale
qual tu lo stimi. Intanto un dì mi venne
e bisogno e talento d'irne dove
siede la gran cittade in ripa al fiume,
ed a costui ne feci motto; ed egli
così mi disse: -- Andrai ne la gran terra,
ove gli astuti e scaltri cittadini
e i cortigian malvagi molte volte
prendonsi a gabbo e fanno brutti scherni
di noi rustici incauti. Però, figlio,
va' su l'avviso, e non t'appressar troppo
ove sian drappi colorati e d'oro
e pennacchi e divise e foggie nove;
ma sopra tutto guarda che mal fato
o giovanil vaghezza non ti meni
al magazzino de le ciancie: ah! fuggi,
fuggi quell'incantato alloggiamento. --
-- Che luogo è questo? -- io chiesi; ed ei soggiunse:
-- Quivi abitan le maghe che incantando
fan traveder e traudir ciascuno.
Ciò che diamante sembra ed oro fino
è vetro e rame; e quelle arche d'argento,
che stimeresti piene di tesoro,
sporte son piene di vesciche buge.
Quivi le mura son fatte con arte,
che parlano e rispondono a i parlanti:
né già rispondon la parola mozza,
com'Eco suole ne le nostre selve,
ma la replican tutta intiera intiera
con giunta anco di quel ch'altri non disse.
I trespidi, le tavole e le panche,
le scranne, le lettiere, le cortine
e gli arnesi di camera e di sala
han tutti lingua e voce e gridan sempre.
Quivi le ciance in forma di bambine
vanno trescando: e se un muto v'entrasse,
un muto ciancerebbe a suo dispetto.
Ma questo è il minor mal che ti potesse
incontrar: tu potresti indi restarne
converso in selce, in fera, in acqua o in foco:
acqua di pianto, e foco di sospiri. --
Così diss'egli, ed io n'andai con questo
fallace antiveder ne la cittade;
e, come volse il Ciel benigno, a caso
passai per là dov'è 'l felice albergo.
Quindi uscian fuor voci canore e dolci
e di cigni e di ninfe e di sirene,
di sirene celesti; e n'uscian suoni
soavi e chiari e tanto altro diletto
ch'attonito, godendo ed ammirando,
mi fermai buona pezza. Era su l'uscio,
quasi per guardia de le cose belle,
uom d'aspetto magnanimo e robusto,
di cui, per quanto intesi, in dubbio stassi
s'egli sia miglior duce o cavaliero,
che con fronte benigna insieme e grave,
con regal cortesia invitò dentro,
ei grande e 'n pregio, me negletto e basso.
Oh che sentii? che vidi allora? I' vidi
celesti dee, ninfe leggiadre e belle,
nuovi Lini ed Orfei, ed oltre ancora
senza vel, senza nube, e quale e quanta
a gl' immortali appar vergine Aurora
sparger d'argento e d'or rugiade e raggi;
e fecondando illuminar d'intorno
vidi Febo e le Muse, e fra le Muse
Elpin seder accolto; ed in quel punto
sentii me far di me stesso maggiore,
pien di nuova virtù, pieno di nuova
deitade, e cantai guerre ed eroi
sdegnando pastoral ruvido carme.
E se ben poi, come altrui piacque, feci
ritorno a queste selve, io pur ritenni
parte di quello spirto: né già suona
la mia sampogna umìl, come soleva,
ma di voce più altèra e più sonora,
emula de le trombe, empie le selve.
Udimmi Mopso poscia, e con maligno
guardo mirando affascinommi; ond'io
roco divenni e poi gran tempo tacqui,
quando i pastor credean ch'io fossi stato
visto dal lupo, e 'l lupo era costui.
Questo t'ho detto, acciò che sappi quanto
il parlar di costui di fede è degno:
e dei bene sperar sol perch'ei vuole
che nulla speri.

Aminta - Piacemi d'udire
quanto mi narri. A te dunque rimetto
la cura di mia vita.

Tirsi - Io n'avrò cura.
Tu fra mezz'ora qui trovar ti lassa.


CORO

O bella età de l'oro,
non già perché di latte
se 'n corse il fiume e stillò mele il bosco:
non perché i frutti loro
dier da l'aratro intatte
le terre e gli angui errâr senz'ira o tosco:
non perché nuvol fosco
non spiegò allor suo velo,
ma in primavera eterna,
ch'ora s'accende e verna,
rise di luce e di sereno il cielo;
né portò peregrino
o guerra o merce a gli altrui lidi il pino.
Ma sol perché quel vano
nome senza soggetto,
quell'idolo d'errori, idol d'inganno,
quel che da 'l volgo insano
Onor poscia fu detto,
che di nostra natura il feo tiranno,
non mischiava il suo affanno
fra le liete dolcezze
de l'amoroso gregge;
né fu sua dura legge
nota a quell'alme in libertate avezze,
ma legge aurea e felice
che Natura scolpì: S'ei piace, ei lice.
Allor tra fiori e linfe
traen dolci carole
gli Amoretti senz'archi e senza faci;
sedean pastori e ninfe
meschiando a le parole
vezzi e susurri ed a i susurri i baci
strettamente tenaci;
la verginella ignude
scopria sue fresche rose
ch'or tien ne 'l velo ascose,
e le poma de 'l seno acerbe e crude;
e spesso in fonte o in lago
scherzar si vide con l'amata il vago.
Tu prima, Onor, velasti
la fonte de i diletti,
negando l'onde a l'amorosa sete:
tu a' begli occhi insegnasti
di starne in sé ristretti,
e tener lor bellezze altrui secrete:
tu raccogliesti in rete
le chiome a l'aura sparte:
tu i dolci atti lascivi
festi ritrosi e schivi,
a i detti il fren ponesti, a i passi l'arte;
opra è tua sola, o Onore,
che furto sia quel che fu don d'Amore.
E son tuoi fatti egregi
le pene e i pianti nostri.
Ma tu, d'Amore e di Natura donno,
tu domator de' regi,
che fai tra questi chiostri
che la grandezza tua capir non ponno?
Vattene e turba il sonno
a gl'illustri e potenti:
noi qui negletta e bassa
turba, senza te lassa
viver ne l'uso de l'antiche genti.
Amiam, ché non ha tregua
con gli anni umana vita e si dilegua.
Amiam, ché 'l Sol si muore e poi rinasce:
a noi sua breve luce
s'asconde, e 'l sonno eterna notte adduce.



ATTO SECONDO

SCENA I

Satiro.

Satiro - Picciola è l'ape, e fa co 'l picciol morso
pur gravi e pur moleste le ferite;
ma qual cosa è più picciola d'Amore,
se in ogni breve spazio entra, e s'asconde
in ogni breve spazio? or sotto a l'ombra
de le palpebre, or tra' minuti rivi
d'un biondo crine, or dentro le pozzette
che forma un dolce riso in bella guancia:
e pur fa tanto grandi e sì mortali
e così immedicabili le piaghe.
Oimè! che tutte piaga e tutte sangue
son le viscere mie, e mille spiedi
ha ne gli occhi di Silvia il crudo Amore.
Crudel Amor! Silvia crudele ed empia
più che le selve! Oh come a te confassi
tal nome, e quanto vide chi te 'l pose!
Celan le selve angui, leoni ed orsi
dentro il lor verde; e tu dentro a 'l bel petto
nascondi odio, disdegno ed impietate,
fere peggior ch'angui, leoni ed orsi:
ché si placano quei, questi placarsi
non possono per prego né per dono.
Oimè! quand'io ti porto i fior novelli,
tu li ricusi, ritrosetta, forse
perché fior via più belli hai ne 'l bel volto.
Oimè! quando io ti porgo i vaghi pomi,
tu li rifiuti, disdegnosa, forse
perché pomi più vaghi hai ne 'l bel seno.
Lasso! quand'io t'offrisco il dolce mele,
tu lo disprezzi, dispettosa, forse
perché mel via più dolce hai ne le labra.
Ma se mia povertà non può donarti
cosa ch'in te non sia più bella e dolce,
me medesmo ti dono. Or perché, iniqua,
scherni ed aborri il dono? Non son io
da disprezzar, se ben me stesso vidi
ne 'l liquido de 'l mar, quando l'altr'ieri
taceano i venti ed ei giacea senz'onda.
Questa mia faccia di color sanguigno,
queste mie spalle larghe, e queste braccia
torose e nerborute, e questo petto
setoso, e queste mie velate coscie
son di virilità, di robustezza
indizio: e, se no 'l credi, fanne prova.
Che vuoi tu far di questi tenerelli
che di molle lanugine fiorite
hanno a pena le guance? e che con arte
dispongono i capelli in ordinanza?
Femine ne 'l sembiante e ne le forze
sono costoro. Or di' ch'alcun ti segua
per le selve e ne i monti, e 'ncontra gli orsi
ed incontra i cinghiai per te combatta.
Non sono io brutto, no: né tu mi sprezzi
perché sì fatto io sia, ma solamente
perché povero sono. Ahi, che le ville
seguon l'esempio de le gran cittadi!
E veramente il secol d'oro è questo,
poi che sol vince l'oro e regna l'oro.
O chiunque tu fosti che insegnasti
primo a vender l'amor, sia maledetto
il tuo cener sepolto e l'ossa fredde,
e non si trovi mai pastore o ninfa
che lor dica passando: « Abbiate pace »;
ma le bagni la pioggia e mova il vento,
e con piè immondo la greggia il calpesti
e 'l peregrin. Tu prima svergognasti
la nobiltà d'amor, tu le sue liete
dolcezze inamaristi. Amor venale,
Amor servo de l'oro è il maggior mostro
ed il più abominevole e il più sozzo
che produca la terra o 'l mar fra l'onde.
Ma perché in van mi lagno? Usa ciascuno
quell'arme che gli ha date la natura
per sua salute: il cervo adopra il corso,
il leone gli artigli, ed il bavoso
cinghiale il dente; e son potenza ed armi
de la donna bellezza e leggiadria.
Io perché non per mia salute adopro
la violenza, se mi fe' natura
atto a far violenze ed a rapire?
Sforzerò, rapirò quel che costei
mi niega, ingrata, in merto de l'amore:
ché, per quanto un caprar testé mi ha detto
ch'osservato ha suo stile, ella ha per uso
d'andar sovente a rinfrescarsi a un fonte,
e mostrato m'ha il loco. Ivi io disegno
tra i cespugli appiattarmi e tra gli arbusti,
ed aspettar fin che vi venga; e come
veggia l'occasion, correrle a dosso.
Qual contrasto co 'l corso o con le braccia
potrà fare una tenera fanciulla
contra me sì veloce e sì possente?
Pianga e sospiri pure, usi ogni sforzo
di pietà, di bellezza: ché s'io posso
questa mano ravvolgerle ne 'l crine,
indi non partirà ch'io pria non tinga
l'armi mie per vendetta ne 'l suo sangue.



SCENA II

Dafne e Tirsi.

Dafne - Tirsi, com'io t'ho detto, io m'era accorta
ch'Aminta amava Silvia; e Dio sa quanti
buoni offici n'ho fatto, e son per farli
tanto più volentier quant'or vi aggiungi
le tue preghiere: ma torrei piuttosto
a domare un giovenco, un orso, un tigre,
che a domare una semplice fanciulla:
fanciulla tanto sciocca quanto bella,
che non s'avveggia ancor come sian calde
l'arme di sua bellezza e come acute,
ma ridendo e piangendo uccida altrui,
e l'uccida e non sappia di ferire.

Tirsi - Ma quale è così semplice fanciulla
che uscita da le fasce non apprenda
l'arte de 'l parer bella e de 'l piacere,
de l'uccider piacendo, e de 'l sapere
qual arma fera e qual dia morte e quale
sani e ritorni in vita!

Dafne - Chi è il mastro
di cotant'arte?

Tirsi - Tu fingi e mi tenti:
quel che insegna agli augelli il canto e 'l volo,
a' pesci il nuoto ed a' montoni il cozzo,
a 'l toro usar il corno ed a 'l pavone
spiegar la pompa de l'occhiute piume.

Dafne - Come ha nome 'l gran mastro?

Tirsi - Dafne ha nome.

Dafne - Lingua bugiarda.

Tirsi - E perché? tu non sei
atta a tener mille fanciulle a scuola?
Ben che, per dir il ver, non han bisogno
di maestro: maestra è la natura,
ma la madre e la balia anco v'han parte.

Dafne - In somma, tu sei goffo insieme e tristo.
Ora, per dirti il ver, non mi risolvo
se Silvia è semplicetta, come pare
a le parole, a gli atti. Ier vidi un segno
che me ne mette in dubbio. Io la trovai
là presso la cittade in quei gran prati
ove fra stagni giace un'isoletta,
sovr'esso un lago limpido e tranquillo
tutta pendente, in atto che parea
vagheggiar se medesma e 'nsieme insieme
chieder consiglio a l'acque in qual maniera
dispor dovesse in su la fronte i crini,
e sovra i crini il velo e sovra 'l velo
i fior che tenea in grembo; e spesso spesso
or prendeva un lingustro or una rosa
e l'accostava al bel candido collo,
a le guance vermiglie, e de' colori
fea paragone; e poi sì come lieta
de la vittoria, lampeggiava un riso
che parea che dicesse: « Io pur vi vinco;
né porto voi per ornamento mio,
ma porto voi sol per vergogna vostra,
perché si veggia quanto mi cedete ».
Ma mentre ella s'ornava e vagheggiava,
rivolse gli occhi a caso e si fu accorta
ch'io di lei m'era accorta: e vergognando
rizzossi tosto e i fior lasciò cadere.
Intanto io più ridea de 'l suo rossore,
ella più s'arrossia de 'l riso mio.
Ma perché accolta una parte de' crini
e l'altra aveva sparsa, una o due volte
con gli occhi a 'l lago consiglier ricorse,
e si mirò quasi di furto, pure
temendo ch'io ne 'l suo guatar guatassi;
ed incolta si vide e si compiacque,
perché bella si vide ancor che incolta.
Io me n'avvidi e tacqui.

Tirsi - Tu mi narri
quel ch'io credeva a punto: Oor non m'apposi?

Dafne - Ben t'apponesti. Ma pur odo dire
che non erano già le pastorelle
né le ninfe sì accorte, né io tale
fui in mia fanciullezza. Il mondo invecchia,
e invecchiando intristisce.

Tirsi - Forse allora
non usavan sì spesso i cittadini
ne le selve e ne i campi, né sì spesso
le nostre forosette aveano in uso
d'andare a la cittade. Or son mischiate
schiatte e costumi. Ma lasciam da parte
questi discorsi: or non farai ch'un giorno
Silvia contenta sia che le ragioni
Aminta, o solo o almeno in tua presenza?

Dafne - Non so: Silvia è ritrosa fuor di modo.

Tirsi - E costui rispettoso è fuor di modo.

Dafne - È spacciato un amante rispettoso:
consiglia 'l pur che faccia altro mestiero,
poi ch'egli è tal. Chi imparar vuol d'amare,
disimpari il rispetto: osi, domandi,
solleciti, importuni, al fine involi;
e se questo non basta, anco rapisca.
Or non sai tu com'è fatta la donna?
Fugge e fuggendo vuol ch'altri la giunga;
niega e niegando vuol ch'altri si toglia;
pugna e pugnando vuol ch'altri la vinca.
Ve' Tirsi, io parlo teco in confidenza:
non ridir ch'io ciò dica, e sovra tutto
non porlo in rime. Tu sai s'io saprei
renderti poi per versi altro che versi.

Tirsi - Non hai cagion di sospettar ch'io dica
cosa giammai che sia contra tuo grado:
ma ti prego, o mia Dafne, per la dolce
memoria di tua fresca giovanezza,
che tu m'aiti ad aitare Aminta,
miserel, che si muore.

Dafne - Oh che gentile
scongiuro ha ritrovato questo sciocco
di rammentarmi la mia giovanezza,
il ben passato e la presente noia!
Ma che vuoi tu ch'io faccia?

Tirsi - A te non manca
né saper né consiglio: basta sol che
ti disponga a voler.

Dafne - Or su, dirotti:
debbiamo in breve andare Silvia ed io
a 'l fonte che s'appella di Diana,
là dove a le dolci acque fa dolce ombra
quel platano ch'invita a 'l fresco seggio
le ninfe cacciatrici. Ivi so certo
che tufferà le belle membra ignude.

Tirsi - Ma che però?

Dafne - Ma che però? Da poco
intenditor: s'hai senno, tanto basti.

Tirsi - Intendo; ma non so s'egli avrà tanto
d'ardir.

Dafne - S'ei non l'avrà, stiasi ed aspetti
ch'altri lui cerchi.

Tirsi - Egli è ben tal che 'l merta.

Dafne - Ma non vogliamo noi parlar alquanto
di te medesmo? Or su, Tirsi, non vuoi
tu inamorarti? sei giovane ancora,
né passi di quattr'anni il quinto lustro,
se ben sovviemmi quando eri fanciullo.
Vuoi viver neghittoso e senza gioia?
Ché sol amando uom sa che sia diletto.

Tirsi - I diletti di Venere non lascia
l'uom che schiva l'amor, ma coglie e gusta
le dolcezze d'amor senza l'amaro.

Dafne - Insipido è quel dolce che condito
non è di qualche amaro, e tosto sazia.

Tirsi - È meglio saziarsi ch'esser sempre
famelico ne 'l cibo e dopo 'l cibo.

Dafne - Ma non se 'l cibo si possiede e piace,
e gustato a gustar sempre n'invoglia.

Tirsi - Ma chi possiede sì quel che gli piace
che l'abbia sempre presto a la sua fame?

Dafne - Ma chi ritrova il ben s'egli no 'l cerca?

Tirsi - Periglioso è cercar quel che trovato
trastulla sì, ma più tormenta assai
non ritrovato. Allor vedrassi amante
Tirsi mai più, ch'Amor nel seggio suo
non avrà più né pianti né sospiri.
A bastanza ho già pianto e sospirato:
faccia altri la sua parte.

Dafne - Ma non hai
già goduto a bastanza.

Tirsi - Né desio
goder, se così caro egli si compra.

Dafne - Sarà forza l'amar, se non fia voglia.

Tirsi - Ma non si può sforzar chi sta lontano.

Dafne - Ma chi lunge è d'Amor?

Tirsi - Chi teme e fugge.

Dafne - E che giova fuggir da lui c'ha l'ale?

Tirsi - Amor nascente ha corte l'ale: a pena
può su tenerle, e non le spiega a volo.

Dafne - Pur non s'accorge l'uom quand'egli nasce:
e quando uom se n'accorge, è grande e vola.

Tirsi - Non, s'altra volta nascer non l'ha visto.

Dafne - Vedrem, Tirsi, s'avrai la fuga e gli occhi,
come tu dici. Io ti protesto, poi
che fai de 'l corridore e de 'l cerviero,
ch, quando ti vedrò chieder aita,
non moverei, per aiutarti, un passo,
un dito, un detto, una palpebra sola.

Tirsi - Crudel, daratti il cor vedermi morto?
Se vuoi pur ch'ami, ama tu me: facciamo
l'amor d'accordo.

Dafne - Tu mi scherni, e forse
non merti amante così fatta. Ahi quanti
n'inganna il viso colorito e liscio!

Tirsi - Non burlo io, no; ma tu con tal pretesto
non accetti il mio amor, pur come è l'uso
di tutte quante. Ma se non mi vuoi,
viverò senza amor.

Dafne - Contento vivi
più che mai fossi, o Tirsi: in ozio vivi,
e ne l'ozio l'amor sempre germoglia.

Tirsi - O Dafne, a me quest'ozio ha fatto dio:
colui che dio qui può stimarsi, a cui
si pascon gli ampi armenti e l'ampie greggie
da l'uno a l'altro mare, e per li lieti
colti di fecondissime campagne,
e per gli alpestri dossi d'Apennino.
Egli mi disse, allor che suo mi fece:
-- Tirsi, altri scacci i lupi e i ladri, e guardi
i miei murati ovili; altri comparta
le pene e i premi a' miei ministri; ed altri
pasca e curi le greggie; altri conservi
le lane e 'l latte, ed altri le dispensi:
tu canta, or che se' in ozio. -- Ond'è ben giusto
che non gli scherzi di terreno amore,
ma canti gli avi de 'l mio vivo e vero
non so s'io lui mi chiami Apollo o Giove:
ché ne l'opre e ne 'l volto ambi somiglia
gli avi più degni di Saturno o Celo.
Agreste Musa a regal merto: e pure,
chiara o roca che suoni, ei non la sprezza.
Non canto lui però, che lui non posso
degnamente onorar se non tacendo
e riverendo; ma non fian giammai
gli altari suoi senza i miei fiori, e senza
soave fumo d'odorati incensi:
ed allor questa semplice e devota
religion mi si torrà da 'l core,
che d'aria pasceransi in aria i cervi
e che, mutando i fiumi e letto e corso,
il Perso bea la Sona, il Gallo il Tigre.

Dafne - Oh, tu vai alto!, orsù, discendi un poco
a 'l proposito nostro.

Tirsi - Il punto è questo:
che tu in andando a 'l fonte con colei
cerchi d'intenerirla: ed io fra tanto
procurerò ch'Aminta là ne venga;
né la mia forse men difficil cura
sarà di questa tua. Or vanne.

Dafne - Io vado:
ma il proposito nostro altro intendeva.

Tirsi - Se ben ravviso di lontan la faccia,
Aminta è quel che di là spunta. È desso.



SCENA III

Aminta e Tirsi.

Aminta - Vorrò veder ciò che Tirsi avrà fatto;
e s'avrà fatto nulla,
prima ch'io vada in nulla,
uccider vo' me stesso innanzi a gli occhi
de la crudel fanciulla.
A lei cui tanto spiace
la piaga de 'l mio core,
colpo de' suoi begli occhi,
altrettanto piacer devrà per certo
la piaga de 'l mio petto,
colpo de la mia mano.

Tirsi - Nuove, Aminta, t'annunzio di conforto:
lascia omai questo tanto lamentarti.

Aminta - Oimè! che di'? che porte?
o la vita o la morte?

Tirsi - Porto salute e vita, s'ardirai
di farti loro in contra: ma fa d'uopo
d'essere un uomo, Aminta, un uomo ardito.

Aminta - Qual ardir mi bisogna e 'n contra a cui?

Tirsi - Se la tua donna fosse in mezz'un bosco
che, cinto intorno d'altissime rupi,
desse albergo a le tigri ed a' leoni,
v'andresti tu?

Aminta - V'andrei sicuro e baldo
più che di festa villanella a 'l ballo.

Tirsi - E s'ella fosse tra ladroni ed arme,
v'andresti tu?

Aminta - V'andrei più lieto e pronto
che l'assetato cervo a la fontana.

Tirsi - Bisogna a maggior prova ardir più grande.

Aminta - Andrò per mezzo i rapidi torrenti
quando la neve si discioglie e gonfi
li manda a 'l mare; andrò per mezzo 'l foco
e ne l'inferno, quando ella vi sia,
s'esser può inferno ov'è cosa sì bella.
Orsù, scoprimi il tutto.

Tirsi - Odi.

Aminta - Di' tosto.

Tirsi - Silvia t'attende a un fonte, ignuda e sola.
Ardirai tu d'andarvi?

Aminta - Oh, che mi dici?
Silvia m'attende, ignuda e sola?

Tirsi - Sola:
se non quanto v'è Dafne ch'è per noi.

Aminta - Ignuda ella m'aspetta?

Tirsi - Ignuda: ma...!

Aminta - Oimè! che ma? Tu taci; tu m'uccidi.

Tirsi - Ma non sa già che tu v'abbi d'andare.

Aminta - Dura conclusion che tutte attosca
le dolcezze passate. Or con qual arte,
crudel, tu mi tormenti?
Poco dunque ti pare
che infelice io sia,
che a crescer vieni la miseria mia?

Tirsi - S'a mio senno farai, sarai felice.

Aminta - E che consigli?

Tirsi - Che tu prenda quello
che la fortuna amica t'appresenta.

Aminta - Tolga Dio che mai faccia
cosa che le dispiaccia.
Cosa io non feci mai che le spiacesse,
fuor che l'amarla: e questo a me fu forza,
forza di sua bellezza, e non mia colpa.
Non sarà dunque ver ch'in quanto io posso
non cerchi compiacerla.

Tirsi - Or mi rispondi:
se fosse in tuo poter di non amarla,
lasciaresti d'amarla per piacerle?

Aminta - Né questo mi consente Amor ch'io dica
né ch'imagini pur d'aver giammai
a lasciare il suo amor, ben ch'io potessi.

Tirsi - Dunque tu l'ameresti al suo dispetto,
quando potessi far di non amarla.

Aminta - Al suo dispetto, no: ma l'amerei.

Tirsi - Dunque fuor di sua voglia.

Aminta - Sì per certo.

Tirsi - Perché dunque non osi oltra sua voglia
prenderne quel che, se ben grava in prima,
al fin al fin le sarà caro e dolce
che l'abbi preso?

Aminta - Ahi, Tirsi, Amor risponda
per me; ché quanto a mezzo 'l cor mi parla
non so ridir. Tu troppo scaltro sei
già per lungo uso a ragionar d'amore:
a me lega la lingua
quel che mi lega il core.

Tirsi - Dunque andar non vogliamo?

Aminta - Andare io voglio:
ma non dove tu stimi.

Tirsi - E dove?

Aminta - A morte,
s'altro in mio pro non hai fatto che quanto
ora mi narri.

Tirsi - E poco parti questo?
Credi tu dunque, sciocco, che mai Dafne
consigliasse l'andar, se non vedesse
in parte il cor di Silvia? E forse ch'ella
il sa, né però vuol ch'altri risappia
ch'ella ciò sappia. Or se 'l consenso espresso
cerchi di lei, non vedi che tu cerchi
quel che più le dispiace? Or dov'è dunque
questo tuo desiderio di piacerle?
E s'ella vuol che 'l tuo diletto sia
tuo furto o tua rapina, e non suo dono
né sua mercede, a te, folle, che importa
più l'un modo che l'altro?

Aminta - E chi m'accerta
che il suo desir sia tale?

Tirsi - O mentecatto!
ecco, tu chiedi pur quella certezza
ch'a lei dispiace e che spiacer le deve
dirittamente, e tu cercar non dei.
Ma chi t'accerta ancor che non sia tale?
Or s'ella fosse tale, e non v'andassi?
eguale è il dubbio e 'l rischio. Ahi, pur è meglio
come ardito morir che come vile.
Tu taci: tu sei vinto. Ora confessa
questa perdita tua che fia cagione
di vittoria maggiore. Andianne.

Aminta - Aspetta.

Tirsi - Che aspetta? non sai tu se 'l tempo fugge?

Aminta - Deh, pensiam pria se ciò dee farsi e come.

Tirsi - Per strada penserem ciò che vi resta:
ma nulla fa chi troppe cose pensa.


CORO

Amore, in quale scola,
da qual mastro s'apprende
la tua sì lunga e dubbia arte d'amare?
Chi n'insegna a spiegare
ciò che la mente intende,
mentre con l'ali tue sovra il ciel vola?
Non già la dotta Atene,
non Liceo ne 'l dimostra,
non Febo in Elicona,
che sì d'Amor ragiona
come colà s'impara:
freddo ne parla e poco;
non ha voce di foco,
come a te si conviene;
non alza i suoi pensieri
a par de' tuoi misteri.
Amor, degno maestro
sol tu sei di te stesso,
e sol tu sei da te medesmo espresso.
Tu di lèggere insegni
a i più rustici ingegni
quelle mirabil cose
che con lettre amorose
scrivi di propria man ne gli occhi altrui.
Tu in bei facondi detti
sciogli la lingua de' fedeli tui;
e spesso (oh strana e nova
eloquenza d'Amore!),
spesso in un dir confuso
e 'n parole interrotte
meglio si esprime il core
e più par che si mova
che non si fa con voci adorne e dotte:
e 'l silenzio ancor suole
aver prieghi e parole.
Amor, leggan pur gli altri
le socratiche carte,
ch'io in due begli occhi apprenderò quest'arte:
e perderan le rime
de le penne più sagge
appo le mie selvagge,
che rozza mano in rozza scorza imprime.



ATTO TERZO

SCENA I

Tirsi e Coro.

Tirsi - O crudeltate estrema! o ingrato core!
o donna ingrata, o tre fiate e quattro
ingratissimo sesso! E tu, Natura,
negligente maestra, perché solo
a le donne ne 'l volto e in quel di fuori
ponesti quanto in loro è di gentile,
di mansueto e di cortese, e tutte
l'altre parti obliasti? Ahi, miserello!
Forse ha se stesso ucciso: ei non appare.
Io l'ho cerco e ricerco omai tre ore
ne 'l loco ov'io il lasciai e ne i contorni,
né trovo lui né orme de' suoi passi.
Ahi, che s'è certo ucciso! Io vo' novella
chiederne a que' pastor che colà veggio.
Amici, avete visto Aminta o inteso
novella di lui forse?

Coro - Tu mi pari
così turbato: e qual cagion t'affanna?
Ond'è questo sudore e questo ansare?
Avvi nulla di mal? fa' che 'l sappiamo.

Tirsi - Temo del mal d'Aminta: avete'l visto?

Coro - Noi visto non l'abbiam da poi che teco,
buona pezza, partì: ma che ne temi?

Tirsi - Ch'egli non s'abbia ucciso di sua mano.

Coro - Ucciso di sua mano? or perché questo?
che ne stimi cagione?

Tirsi - Odio ed Amore.

Coro - Duo potenti inimici, insieme aggiunti,
che far non ponno? Ma parla più chiaro.

Tirsi - L'amar troppo una ninfa e l'esser troppo
odiato da lei.

Coro - Deh, narra il tutto.
Questo è luogo di passo, e forse in tanto
alcun verrà che nuova di lui rechi:
forse arrivar potrebbe egli medesmo.

Tirsi - Dirollo volontier; ché non è giusto
che tanta ingratitudine e sì strana
senza l'infamia debita si resti.
Presentito avea Aminta (ed io fui, lasso!
colui che riferillo e che 'l condussi:
or me ne pento) che Silvia dovea
con Dafne ire a lavarsi ad una fonte.
Là dunque s'inviò dubbio ed incerto,
mosso non da 'l suo cor ma sol da 'l mio
stimolar importuno; e spesso in forse
fu di tornare in dietro, ed io 'l sospinsi,
pur mal suo grado, innanzi. Or quando omai
c'era il fonte vicino, ecco, sentiamo
un feminil lamento e quasi a un tempo
Dafne veggiam che battea palma a palma.
La qual come ci vide, alzò la voce:
-- Ah, correte, -- gridò -- Silvia è sforzata. --
L'innamorato Aminta che ciò intese,
si spiccò come un pardo, ed io segui'lo.
Ecco miriamo a un arbore legata
la giovinetta ignuda come nacque;
ed a legarla fune era il suo crine.
Il suo crine medesmo in mille nodi
a la pianta era avvolto: e 'l suo bel cinto,
che de 'l sen virginal fu pria custode,
di quello stupro era ministro, ed ambe
le mani a 'l duro tronco le stringea;
e la pianta medesma avea prestati
legami contra lei, ch'una ritorta
d'un pieghevole ramo avea a ciascuna
de le tenere gambe. A fronte a fronte
un satiro villan noi le vedemmo,
che di legarla pur allor finia.
Ella quanto potea faceva schermo:
ma che potuto avrebbe a lungo andare?
Aminta, con un dardo che tenea
ne la man destra, a 'l satiro avventossi
come un leone, ed io frattanto pieno
m'avea di sassi il grembo: onde fuggissi.
Come la fuga de l'altro concesse
spazio a lui di mirare, egli rivolse
i cupidi occhi in quelle membra belle,
che, come suole tremolare il latte
ne' giunchi, sì parean morbide e bianche;
e tutto 'l vidi sfavillar ne 'l viso.
Poscia accostossi pianamente a lei
tutto modesto e disse: -- O bella Silvia,
perdona a queste man, se troppo ardire
è l'appressarsi a le tue dolci membra,
perché necessità dura le sforza,
necessità di scioglier questi nodi:
né questa grazia che fortuna vuole
conceder loro, tuo mal grado sia. --

Coro - Parole d'ammollir un cor di sasso.
Ma che rispose allor?

Tirsi - Nulla rispose;
ma disdegnosa e vergognosa a terra
chinava il viso, e 'l delicato seno
quanto potea torcendosi celava.
Egli, fattosi inanzi, il biondo crine
cominciò a sviluppare, e disse intanto:
-- Già di nodi sì bei non era degno
così ruvido tronco: or che vantaggio
hanno i servi d'Amor, se lor comune
è con le piante il prezioso laccio?
Pianta crudel, potesti quel bel crine
offender tu ch'a te feo tanto onore? --
Quinci con le sue man le man le sciolse
in modo tal che parea che temesse
pur di toccarle e desiasse insieme.
Si chinò poi per islegarle i piedi:
ma come Silvia in libertà le mani
si vide, disse in atto dispettoso:
-- Pastor, non mi toccar: son di Diana.
Per me stessa saprò sciogliermi i piedi. --

Coro - Or tanto orgoglio alberga in cor di ninfa?
Ahi d'opra graziosa ingrato merto!

Tirsi - Ei si trasse in disparte riverente,
non alzando pur gli occhi per mirarla,
negando a se medesmo il suo piacere
per tôrre a lei fatica di negarlo.
Io che m'era nascoso e vedea tutto
ed udia il tutto, allor fui per gridare;
pur mi ritenni. Or odi strana cosa.
Dopo molta fatica ella si sciolse:
e sciolta a pena, senza dire -- A dio --,
a fuggir cominciò com'una cerva:
e pur nulla cagione avea di tema,
ché l'era noto il rispetto d'Aminta.

Coro - Perché dunque fuggissi?

Tirsi - A la sua fuga
volse l'obbligo aver, non a l'altrui
modesto amore.

Coro - Ed in quest'anco è ingrata.
Ma che fe' 'l miserello allor? che disse?

Tirsi - No 'l so; ch'io pien di mal talento corsi
per arrivarla e ritenerla, e 'nvano,
ch'io la smarrii; e poi tornando dove
lasciai Aminta a 'l fonte, no 'l trovai.
Ma presago è il mio cor di qualche male:
so ch'egli era disposto di morire,
prima che ciò avvenisse.

Coro - È uso ed arte
di ciascun ch'ama minacciarsi morte:
ma rade volte poi segue l'effetto.

Tirsi - Dio faccia ch'ei non sia tra questi rari.

Coro - Non sarà, no.

Tirsi - Io voglio irmene a l'antro
de 'l saggio Elpino: ivi, s'è vivo, forse
sarà ridotto, ove sovente suole
raddolcir gli amarissimi martiri
a 'l dolce suon de la sampogna chiara,
ch'ad udir trae da gli alti monti i sassi
e correr fa di puro latte i fiumi
e stillar mele da le dure scorze.



SCENA II

Aminta, Dafne e Nerina.

Aminta - Dispietata pietate
fu la tua veramente, o Dafne, allora
che ritenesti il dardo:
però che 'l mio morire
più amaro sarà, quanto più tardo.
Ed or perché m'avvolgi
per sì diverse strade e per sì varii
ragionamenti in vano? di che temi?
ch'io non m'uccida? Temi de 'l mio bene.

Dafne - Non disperare, Aminta:
ché s'io lei ben conosco,
sola vergogna fu, non crudeltate,
quella che mosse Silvia a fuggir via.

Aminta - Oimè, che mia salute
sarebbe il disperare,
poiché sol la speranza
è stata mia rovina; ed anco, ahi lasso,
tenta di germogliar dentro a 'l mio petto
sol perché io viva: e quale è maggior male
de la vita d'un misero com'io?

Dafne - Vivi, misero, vivi
ne la miseria tua; e questo stato
sopporta sol per divenir felice
quando che sia. Fia premio de la speme,
se vivendo e sperando ti mantieni,
quel che vedesti ne la bella ignuda.

Aminta - Non pareva ad Amore e a mia fortuna
ch'a pien misero fossi, s'anco a pieno
non m'era dimostrato
quel che m'era negato.

Nerina - Dunque a me pur convien esser sinistra
còrnice d'amarissima novella.
Oh per mai sempre misero Montano,
qual animo fia 'l tuo quando udirai
de l'unica tua Silvia il duro caso?
Padre vecchio, orbo padre: ahi, non più padre!

Dafne - Odo una mesta voce.

Aminta - Io odo 'l nome
di Silvia che gli orecchi e 'l cor mi fere.
Ma chi è che la noma?

Dafne - Ella è Nerina,
ninfa gentil che tanto a Cintia è cara,
c'ha sì begli occhi e così belle mani
e modi sì avvenenti e graziosi.

Nerina - E pur voglio che 'l sappia e che procuri
di ritrovar le reliquie infelici,
se nulla ve ne resta. Ahi, Silvia! ahi, dura
infelice tua sorte!

Aminta - Oimè! che fia che costei dice?

Nerina - O Dafne!

Dafne - Che parli fra te stessa? e perché nomi
tu Silvia e poi sospiri?

Nerina - Ahi, ch'a ragione
Sospiro l'aspro caso!

Aminta - Ahi! di qual caso
può ragionar costei? Io sento, io sento
che mi s'agghiaccia il core e mi si chiude
lo spirto. È viva?

Dafne - Narra qual aspro caso è quel che dici?

Nerina - O Dio, perché son io
la messaggera? E pur convien narrarlo.
Venne Silvia al mio albergo, ignuda, e quale
fosse l'occasion saper la dei:
poi rivestita mi pregò che seco
ir volessi a la caccia che ordinata
era ne 'l bosco c'ha nome da l'elci.
Io la compiacqui. Andammo e ritrovammo
molte ninfe ridotte; ed indi a poco
ecco, di non so donde, un lupo sbuca,
grande fuor di misura, e da le labbra
gocciolava una bava sanguinosa.
Silvia un quadrello adatta su la corda
d'un arco ch'io le diedi, e tira e 'l coglie
a sommo 'l capo: ei si rinselva, ed ella
vibrando un dardo, dentro 'l bosco il segue.

Aminta - Oh dolente principio! oimè qual fine
già mi s'annuncia?

Nerina - Io con un altro dardo
seguo la traccia, ma lontana assai,
ché più tarda mi mossi. Come furo
dentro a la selva più non li rividi:
ma pur per l'orme lor tanto m'avvolsi
che giunsi ne 'l più folto e più diserto.
Quivi il dardo di Silvia in terra scorsi,
né molto indi lontano un bianco velo
ch'io stessa le ravvolsi a 'l crine: e mentre
mi guardo intorno, vidi sette lupi
che leccavan di terra alquanto sangue
sparso intorno a cert'ossa affatto nude:
e fu mia sorte ch'io non fui veduta
da loro, tanto intenti erano al pasto;
tal che piena di téma e di pietate,
indietro ritornai. E questo è quanto
posso dirvi di Silvia; ed ecco 'l velo.

Aminta - Poco pàrti aver detto? oh velo, oh sangue!
Oh Silvia, tu se' morta!

Dafne - Oh miserello!
Tramortito è d'affanno e forse morto!

Nerina - Egli respira pure: questo fia
un breve svenimento. Ecco, rinviene.

Aminta - Dolor che sì mi cruci,
ché non m'uccidi omai? tu sei pur lento!
Forse lasci l'officio a la mia mano.
Io sono, io son contento
ch'ella prenda tal cura,
poi che tu la ricusi o che non puoi.
Oimè! se nulla manca
a la certezza omai
e nulla manca a 'l colmo
de la miseria mia,
che bado? che più aspetto? Oh Dafne, oh Dafne,
a questo amaro fin tu mi salvasti,
a questo fine amaro!
Bello e dolce morir fu certo allora
che uccidere io mi volsi.
Tu me 'l negasti, e 'l cielo a cui parea
ch'io precorressi co 'l morir la noia
ch'apprestata m'avea.
Or che fatt'ha l'estremo
de la sua crudeltate,
ben soffrirà ch'io moia,
e tu soffrir lo dei.

Dafne - Aspetta a la tua morte,
sin che 'l ver meglio intenda.

Aminta - Oimè, che vuoi ch'attenda?
Oimè, che troppo ho atteso e troppo inteso.

Nerina - Deh, foss'io stata muta!

Aminta - Ninfa, dammi, ti prego,
quel velo ch'è di lei
solo e misero avanzo,
sì ch'egli m'accompagne
per questo breve spazio
e di via e di vita che mi resta,
e con la sua presenza
accresca quel martire,
ch'è ben picciol martire,
s'ho bisogno d'aiuto a 'l mio morire.

Nerina - Debbo darlo o negarlo?
La cagion per che 'l chiedi
fa ch'io debba negarlo.

Aminta - Crudel! sì picciol dono
mi nieghi a 'l punto estremo?
E 'n questo anco maligno
mi si mostra il mio fato. Io cedo, io cedo:
a te si resti. E voi restate ancora,
ch'io vo' per non tornare.

Dafne - Aminta, aspetta, ascolta!
Oimè! con quanta furia egli si parte!

Nerina - Egli va sì veloce
che fia vano il seguirlo, ond'è pur meglio
ch'io segua il mio viaggio: e forse è meglio
ch'io taccia e nulla conti
a 'l misero Montano.


CORO

Non bisogna la morte:
ché a stringer core a core
bastò prima la fede e poi l'amore.
Né quella che si cerca
è sì difficil fama
seguendo chi ben ama:
ché amore è merce e con amar si merca:
e cercando l'amor si trova spesso
gloria immortale appresso.



ATTO QUARTO

SCENA I

Dafne, Silvia e Coro.

Dafne - Ne porti il vento, con la ria novella,
che s'era di te sparta, ogni tuo male
e presente e futuro. Tu sei viva
e sana, Dio lodato; ed io per morta
pur ora ti teneva: in tal maniera
m'avea Nerina il tuo caso dipinto.
Ahi, fosse stata muta od altri sordo!

Silvia - Certo 'l rischio fu grande, ed ella avea
giusta cagion di sospettarmi morta.

Dafne - Ma non giusta cagione avea di dirlo.
Or narra tu qual fosse 'l rischio e come
tu lo fuggisti.

Silvia - Io seguitando un lupo,
mi rinselvai ne 'l più profondo bosco
tanto ch'io ne perdei la traccia. Or mentre
cerco di ritornare onde mi tolsi,
il vidi e riconobbi a un stral che fitto
gli aveva di mia man presso un orecchio:
il vidi con molt'altri intorno a un corpo
d'un animal ch'avea di fresco ucciso,
ma non distinsi ben la forma. Il lupo
ferito, credo, mi conobbe e 'n contra
mi venne con la bocca sanguinosa.
Io l'aspettava ardita e con la destra
vibrava un dardo. Tu sai ben s'io sono
maestra di ferire e se mai soglio
far colpo in fallo. Or quando il vidi tanto
vicin che giusto spazio mi parea
a la percossa, lanciai un dardo, e 'n vano:
ché, colpa di fortuna o pur mia colpa,
in vece sua colsi una pianta. Allora
più ingordo in contra ei mi veniva, ed io
che 'l vidi sì vicin che stimai vano
l'uso de l'arco, non avendo altr'armi,
a la fuga ricorsi. Io fuggo ed egli
non resta di seguirmi. Or odi caso:
un velo, ch'avea avvolto intorno a 'l crine,
si spiegò in parte e giva ventilando
sì ch'ad un ramo avviluppossi. Io sento
che non so chi mi tiene e mi ritarda.
Io, per la tema de 'l morir, raddoppio
la forza a 'l corso, e d'altra parte il ramo
non cede e non mi lascia; a 'l fin mi svolgo
da 'l velo e alquanto de' miei crini ancora
lascio svelti co 'l velo; e cotant'ale
m'impennò la paura a i piè fugaci
ch'ei non mi giunse, e salva uscii de 'l bosco.
Poi tornando a 'l mio albergo, io t'incontrai
tutta turbata e mi stupii vedendo
stupirti a 'l mio apparire.

Dafne - Oimè! tu vivi,
altri non già.

Silvia - Che dici? Ti rincresce
forse ch'io viva sia? m'odii tu tanto?

Dafne - Mi piace di tua vita, ma mi duole
de l'altrui morte.

Silvia - E di qual morte intendi?

Dafne - De la morte d'Aminta.

Silvia - Ahi! com'è morto?

Dafne - Il come non so dir, né so dir anco
s'è ver l'effetto: ma per certo il credo.

Silvia - Ch'è ciò che tu mi dici? Ed a chi rechi
la cagion di sua morte?

Dafne - A la tua morte.

Silvia - Io non t'intendo.

Dafne - La dura novella
de la tua morte ch'egli udì e credette,
avrà porto a 'l meschino il laccio o 'l ferro
od altra cosa tal che l'avrà ucciso.

Silvia - Vano il sospetto in te de la sua morte
sarà, come fu van de la mia morte:
ch'ognuno a suo poter salva la vita.

Dafne - O Silvia, Silvia, tu non sai né credi
quanto 'l foco d'amor possa in un petto,
che petto sia di carne e non di pietra
com'è cotesto tuo: ché se creduto
l'avessi, avresti amato chi t'amava
più che le care pupille de gli occhi,
più che lo spirto de la vita sua.
Il credo io ben, anzi l'ho visto e sollo:
il vidi, quando tu fuggisti, o fera
più che tigre crudel, ed in quel punto
ch'abbracciar lo dovevi, il vidi un dardo
rivolgere in se stesso e quello a 'l petto
premersi disperato, né pentirsi
poscia ne 'l fatto, ché le vesti ed anco
la pelle trapassossi e ne 'l suo sangue
lo tinse: e 'l ferro saria giunto a dentro
e passato quel cor che tu passasti
più duramente, se non ch'io gli tenni
il braccio e gl'impedii ch'altro non fesse.
Ahi lassa! e forse quella breve piaga
solo una prova fu de 'l suo furore
e de la disperata sua costanza,
e mostrò quella strada a 'l ferro audace
che correr poi dovea liberamente.

Silvia - Oh, che mi narri?

Dafne - Il vidi poscia, allora
ch'intese l'amarissima novella
de la tua morte, tramortir d'affanno,
e poi partirsi furioso in fretta
per uccider se stesso; e s'avrà ucciso
veramente.

Silvia - E tu ciò per fermo tieni?

Dafne - Io non v'ho dubbio.

Silvia - Oimè! tu no 'l seguisti
per impedirlo? Oimè, cerchiamlo, andiamo:
ché poi ch'egli moria per la mia morte,
de' per la vita mia restar in vita.

Dafne - Io lo seguii, ma correa sì veloce
che mi sparì tosto dinanzi, e 'ndarno
poi mi girai per le sue orme. Or dove
vuoi tu cercar, se non n'hai traccia alcuna?

Silvia - Egli morrà, se no 'l troviamo, ahi lassa!
e sarà l'omicida ei di se stesso.

Dafne - Crudel, forse t'incresce che a te tolga
la gloria di quest'atto? Esser tu dunque
l'omicida vorresti? E non ti pare
che la sua cruda morte esser debb'opra
d'altri che di tua mano? Or ti consola,
ché, comunque egli muoia, per te muore,
e tu sei che l'uccidi.

Silvia - Oimè, che tu m'accori!, e quel cordoglio
ch'io sento de 'l suo caso inacerbisci
con l'acerba memoria
de la mia crudeltate,
ch'io chiamava onestate: e ben fu tale,
ma fu troppo severa e rigorosa.
Or me n'accorgo e pento.

Dafne - Oh quel ch'io odo!
Tu sei pietosa, tu? tu senti a 'l core
spirto alcun di pietate? Oh, che vegg'io?
tu piangi, tu, superba? oh maraviglia!
che pianto è questo tuo? pianto d'amore?

Silvia - Pianto d'amor non già, ma di pietate.

Dafne - La pietà messaggiera è de l'amore
come 'l lampo del tuono.

Coro - Anzi sovente,
quando egli vuol ne' petti virginelli
occulto entrare onde fu prima escluso
da severa onestà, l'abito prende,
prende l'aspetto de la sua ministra
e sua nuncia, pietate: e con tai larve
le semplici ingannando, è dentro accolto.

Dafne - Questo è pianto d'amor, ché troppo abonda.
Tu taci? Ami tu, Silvia? ami, ma in vano.
Oh potenza d'Amor, giusto castigo
manda sovra costei. Misero Aminta!
Tu in guisa d'ape che ferendo muore
e ne le piaghe altrui lascia la vita,
con la tua morte hai pur trafitto a 'l fine
quel duro cor, che non potesti mai
punger vivendo. Or se tu, spirto errante,
sì come io credo, e de le membra ignudo,
qui intorno sei, mira il suo pianto e godi!
Amante in vita, amato in morte: e s'era
ur tuo destin che tu fossi in morte amato
e se questa crudel volea l'amore
venderti sol con prezzo così caro,
desti quel prezzo tu ch'ella richiese
e l'amor suo co 'l tuo morir comprasti.

Coro - Caro prezzo a chi 'l diede; a chi 'l riceve
prezzo inutile e infame.

Silvia - Oh potess'io
con l'amor mio comprar la vita sua,
anzi pur con la mia la vita sua,
s'egli è pur morto!

Dafne - Oh, tardi saggia e tardi
pietosa, quando ciò nulla rileva!



SCENA II

Ergasto, Coro, Silvia e Dafne.

Ergasto - Io ho sì pieno il petto di pietate
e sì pieno d'orror che non rimiro
né odo alcuna cosa, ond'io mi volga,
la qual non mi spaventi e non m'affanni.

Coro - Or ch'apporta costui,
ch'è sì turbato in vista ed in favella?

Ergasto - Porto l'aspra novella
de la morte d'Aminta.

Silvia - Oimè! che dice?

Ergasto - Il più nobil pastor di queste selve,
che fu così gentil, così leggiadro,
così caro a le ninfe ed a le Muse:
ed è morto fanciullo, ahi, di che morte!

Coro - Contane, prego, il tutto, a ciò che teco
pianger possiam la sua sciagura e nostra.

Silvia - Oimè, ch'io non ardisco
appressarmi ad udire
quel ch'è pur forza udire! Empio mio core,
mio duro alpestre core,
di che, di che paventi?
Vattene in contra pure
a quei coltei pungenti
che costui porta ne la lingua, e quivi
mostra la tua fierezza.
Pastore, io vengo a parte
di quel dolor che tu prometti altrui:
ché a me ben si conviene
più che forse non pensi, ed io 'l ricevo
come dovuta cosa. Or tu di lui
non mi sii dunque scarso.

Ergasto - Ninfa, io ti credo bene,
ch'io sentii quel meschino in su la morte
finir la vita sua
co 'l chiamar il tuo nome.

Dafne - Ora comincia omai
questa dolente istoria.

Ergasto - Io era a mezzo 'l colle ove avea tese
certe mie reti, quando assai vicino
vidi passar Aminta, in volto e in atti
troppo mutato da quel ch'ei soleva,
troppo turbato e scuro. Io sorsi e corsi
tanto che 'l giunsi e lo fermai; ed egli
mi disse: -- Ergasto, io vo' che tu mi faccia
un gran piacere: quest'è, che tu ne venga
meco per testimonio d'un mio fatto;
ma pria voglio da te che tu mi leghi
di stretto giuramento la tua fede
di startene in disparte e non por mano
per impedirmi in quel che son per fare. --
Io (chi pensato avria caso sì strano,
e sì pazzo furor?), com'egli volse,
feci scongiuri orribili, chiamando
e Pane e Pale e Priapo e Pomona,
ed Ecate notturna. Indi si mosse,
e mi condusse ov'è scosceso il colle
e u' per balzi e per dirupi incolti,
strada non già, ché non v'è strada alcuna,
ma cala un precipizio in una valle.
Qui ci fermammo. Io rimirando a basso,
tutto sentii raccapricciarmi e 'ndietro
tosto mi trassi; ed egli un cotal poco
parve ridesse e serenossi in viso:
onde quell'atto più rassicurommi.
Indi parlommi sì: -- Fa' che tu conti
a le ninfe e a i pastor ciò che vedrai. --
Poi disse, in giù guardando:
-- Se presti a mio volere
così aver io potessi
la gola e i denti de gli avidi lupi,
com'ho questi dirupi,
sol vorrei far la morte
che fece la mia vita:
vorrei che queste mie membra meschine
sì fosser lacerate,
oimè, come già fôro
quelle sue delicate.
Poi che non posso e 'l cielo
dinega a 'l mio desire
gli animali voraci
che ben verriano a tempo, io prender voglio
altra strada a 'l morire:
prenderò quella via
che, se non la dovuta,
almen fia la più breve.
Silvia, io ti seguo: io vengo
a farti compagnia,
se non la sdegnerai.
E morirei contento,
s'io fossi certo almeno
che 'l mio venirti dietro
turbar non ti dovesse,
e che fosse finita
l'ira tua con la vita.
Silvia, io ti seguo, io vengo. -- Così detto
precipitossi d'alto
co 'l capo in giuso: ed io restai di ghiaccio.

Dafne - Misero Aminta!

Silvia - Oimè!

Coro - Perché non l'impedisti?
Forse ti fu ritegno a ritenerlo
il fatto giuramento?

Ergasto - Questo no: ché sprezzando i giuramenti,
vani forse in tal caso,
quand'io m'accorsi del suo pazzo ed empio
proponimento, con la man vi corsi
e, come volse la sua dura sorte,
lo presi in questa fascia di zendado
che lo cingeva; la qual non potendo
l'impeto e il peso sostener del corpo,
che s'era tutto abbandonato, in mano
spezzata mi rimase.

Coro - E che divenne
de l'infelice corpo?

Ergasto - Io no 'l so dire:
ch'era sì pien d'orrore e di pietate,
che non mi diede il cor di rimirarvi,
per non vederlo in pezzi.

Coro - Oh strano caso!

Silvia - Oimè! ben son di sasso,
poi che questa novella non m'uccide.
Ahi! se la falsa morte
di chi tanto l'odiava
a lui tolse la vita,
ben sarebbe ragione
che la verace morte
di chi tanto m'amava
togliesse a me la vita.
E vo' che la mi tolga,
se non potrò co 'l duolo, almen co 'l ferro;
o pur con questa fascia
che non senza cagione
non seguì le ruine
de 'l suo dolce signore,
ma restò sol per far in me vendetta
de l'empio mio rigore
e de 'l suo amaro fine.
Cinto infelice, cinto
di signor più infelice,
non ti spiaccia restare
in sì odioso albergo,
ché tu vi resti sol per instrumento
di vendetta e di pena.
Dovea certo, io dovea
esser compagna a 'l mondo
de l'infelice Aminta:
poscia ch'allor non volsi,
sarò per opra tua
sua compagna a l'inferno.

Coro - Consòlati, meschina,
che questo è di fortuna e non tua colpa.

Silvia - Pastor, di chi piangete?
Se piangete il mio affanno,
io non merto pietate,
ché non la seppi usare:
se piangete il morire
de 'l misero innocente,
questo è picciolo segno
a sì alta cagione. E tu rasciuga,
Dafne, queste tue lagrime, per Dio.
Se cagion ne son io,
ben ti voglio pregare,
non per pietà di me, ma per pietate
di chi degno ne fue,
che m'aiuti a cercare
l'infelici sue membra e a sepellirle.
Questo sol mi ritiene
ch'or ora non m'uccida:
pagar vo' questo ufficio,
poi ch'altro non m'avanza,
a l'amor ch'ei portommi.
E se bene quest'empia
mano contaminare
potesse la pietà de l'opra, pure
so che gli sarà cara
l'opra di questa mano:
ché so certo ch'ei m'ama
come mostrò morendo.

Dafne - Son contenta aiutarti in quest'ufficio:
ma tu già non pensare
d'aver poscia a morire.

Silvia - Sin qui vissi a me stessa,
a la mia feritate; or quel ch'avanza
viver voglio ad Aminta:
e se non posso a lui,
viverò a 'l freddo suo
cadavero infelice.
Tanto, e non più, mi lice
restar ne 'l mondo e poi finire a un punto
e l'esequie e la vita.
Pastor, ma quale strada
ci conduce a la valle ove il dirupo
va a terminare?

Ergasto - Questa vi conduce;
e quinci poco spazio ella è lontana.

Dafne - Andiam, che verrò teco e guiderotti,
ché ben rammento il luogo.

Silvia - A dio, pastori;
piagge, a dio; a dio, selve, e fiumi, a dio.

Ergasto - Costei parla di modo che dimostra
d'esser disposta a l'ultima partita.


CORO

Ciò che Morte rallenta, Amor, ristringi,
amico tu di pace, ella di guerra,
e de 'l suo trionfar trionfi e regni;
e mentre due bell'alme annodi e cingi,
così rendi sembiante a 'l ciel la terra
che d'abitarla tu non fuggi o sdegni.
Non sono ire là su: gli umani ingegni
tu placidi ne rendi, e l'odio interno
sgombri, signor, da' mansueti cori,
sgombri mille furori;
e quasi fai co 'l tuo valor superno
de le cose mortali un giro eterno.



ATTO QUINTO

SCENA UNICA

Elpino e Coro.

Elpino - Veramente la legge con che Amore
il suo imperio governa eternamente
non è dura né obliqua: e l'opre sue,
piene di provvidenza e di misterio,
altri a torto condanna. Oh con quant'arte
e per che ignote strade egli conduce
l'uom ad esser beato, e fra le gioie
de 'l suo amoroso paradiso il pone,
quando ei più crede a 'l fondo esser de' mali!
Ecco, precipitando, Aminta ascende
a 'l colmo, a 'l sommo d'ogni contentezza.
Oh fortunato Aminta! oh te felice
tanto più, quanto misero più fosti!
Or co 'l tuo esempio a me lice sperare,
quando che sia, che quella bella ed empia,
che sotto il riso di pietà ricuopre
il mortal ferro di sua feritate,
sani le piaghe mie con pietà vera,
che con finta pietate a 'l cor mi fece.

Coro - Quel che qui viene è il saggio Elpino e parla
così d'Aminta come vivo ei fosse,
chiamandolo felice e fortunato.
Dura condizione degli amanti!
Forse egli stima fortunato amante
chi muore, e morto a 'l fin pietà ritrova
ne 'l cor de la sua ninfa; e questo chiama
paradiso d'Amore, e questo spera.
Di che lieve mercé l'alato Dio
i suoi servi contenta! Elpin, tu dunque
in sì misero stato sei che chiami
fortunata la morte miserabile
de l'infelice Aminta? E un simil fine
sortir vorresti?

Elpino - Amici, state allegri,
ché falso è quel romor che a voi pervenne
de la sua morte.

Coro - Oh che ci narri! oh quanto
ci racconsoli! E' non è dunque il vero
che si precipitasse?

Elpino - Anzi è pur vero,
ma fu felice il precipizio, e sotto
una dolente imagine di morte
gli recò vita e gioia. Egli or si giace
ne 'l seno accolto de l'amata ninfa,
quanto spietata già, tanto or pietosa:
e le rasciuga da' begli occhi il pianto
con la sua bocca. Io a trovar ne vado
Montano, di lei padre, ed a condurlo
colà dov'essi stanno: e solo il suo
volere è quel che manca e che prolunga
il concorde voler d'ambidue loro.

Coro - Pari è l'età, la gentilezza è pari
e concorde il desio: e 'l buon Montano
vago è d'aver nipoti e di munire
di sì dolce presidio la vecchiaia,
sì che farà del lor volere il suo.
Ma tu, deh, Elpin, narra qual dio, qual sorte
ne 'l periglioso precipizio Aminta
abbia salvato.

Elpino - Io son contento. Udite,
udite quel che con quest'occhi ho visto.
Io era anzi 'l mio speco che si giace
presso la valle e quasi a piè de 'l colle,
dove la costa face di sé grembo:
quivi con Tirsi ragionando andava
pur di colei che ne l'istessa rete
lui prima e me da poi ravvolse e strinse,
e proponendo a la sua fuga, a 'l suo
libero stato, il mio dolce servaggio;
quando ci trasse gli occhi ad alto un grido:
e 'l veder rovinare un uom da 'l sommo
e 'l vederlo cader sovra una macchia
fu tutto un punto. Sporgea fuor de 'l colle,
poco di sopra a noi, d'erbe e di spini
e d'altri rami strettamente giunti
e quasi in un tessuti, un fascio grande.
Quivi, prima che urtasse in altro luogo,
a cader venne: e ben ch'egli co 'l peso
lo sfondasse e più in giuso indi cadesse
quasi su' nostri piedi, quel ritegno
tanto d'impeto tolse a la caduta
ch'ella non fu mortal; fu nondimeno
grave così ch'ei giacque un'ora e piue
stordito affatto e di se stesso fuori.
Noi muti di pietate e di stupore
restammo a lo spettacolo improvviso,
riconoscendo lui: ma conoscendo
ch'egli morto non era e che non era
per morir forse, mitighiam l'affanno.
Allor Tirsi mi diè notizia intera
de' suoi secreti ed angosciosi amori.
Ma mentre procuriam di ravvivarlo
con diversi argomenti, avendo in tanto
già mandato a chiamar Alfesibèo
a cui Febo insegnò la medic'arte,
allor che diede a me la cetra e 'l plettro,
sopraggiunsero insieme Dafne e Silvia,
che, come intesi poi, givan cercando
quel corpo che credean di vita privo.
Ma come Silvia il riconobbe, e vide
le belle guance tenere d'Aminta
iscolorite in sì leggiadri modi
che viola non è che impallidisca
sì dolcemente, e lui languir sì fatto
che parea già ne gli ultimi sospiri
esalar l'alma, in guisa di baccante
gridando e percuotendosi il bel petto,
lasciò cadersi in su 'l giacente corpo
e giunse viso a viso e bocca a bocca.

Coro - Or non ritenne adunque la vergogna
lei, ch'è tanto severa e schiva tanto?

Elpino - La vergogna ritien debile amore,
ma debil freno è di potente amore.
Poi sì come ne gli occhi avesse un fonte,
inaffiar cominciò co 'l pianto suo
il colui freddo viso; e fu quell'acqua
di cotanta virtù ch'egli rivenne;
e gli occhi aprendo un doloroso oimè
spinse dal petto interno.
Ma quell'oimè ch'amaro
così dal cor partissi,
s'incontrò ne lo spirto
de la sua cara Silvia e fu raccolto
da la soave bocca, e tutto quivi
subito raddolcissi.
Or chi potrebbe dir come in quel punto
rimanessero entrambi, fatto certo
ciascun de l'altrui vita, e fatto certo
Aminta de l'amor de la sua ninfa,
e vistosi con lei congiunto e stretto?
Chi è servo d'Amor, per sé lo stimi.
Ma non si può stimar, non che ridire.

Coro - Aminta è sano sì ch'egli fia fuori
de 'l rischio de la vita?

Elpino - Aminta è sano,
se non ch'alquanto pur graffiato ha il viso
ed alquanto dirotta la persona;
ma sarà nulla, ed ei per nulla il tiene.
Felice lui, che sì gran segno ha dato
d'amore e de l'amore il dolce or gusta,
a cui gli affanni scorsi ed i perigli
fanno soave e dolce condimento!
Ma restate con Dio, ch'io vo' seguire
il mio viaggio e ritrovar Montano.


CORO

Non so se il molto amaro
che provato ha costui servendo, amando,
piangendo e disperando,
raddolcito esser puote pienamente
d'alcun dolce presente.
Ma se più caro viene
e più si gusta dopo 'l male il bene,
io non ti chieggio, Amore,
questa beatitudine maggiore.
Bea pur gli altri in tal guisa:
me la mia ninfa accoglia
dopo brevi preghiere e servir breve:
e siano i condimenti
de le nostre dolcezze
non sì gravi tormenti,
ma soavi disdegni
e soavi ripulse,
risse e guerre cui segua,
reintegrando i cori, o pace o tregua.



INTERMEDI



I

Proteo son io che trasmutar sembianti
e forme soglio variar sì spesso,
e trovai l'arte onde notturna scena
cangia l'aspetto, e quinci Amore istesso
trasforma in tante guise i vaghi amanti,
com'ogni carme ed ogni storia è piena.
Ne la notte serena,
ne l'amico silenzio e ne l'orrore,
sacro marin pastore
vi mostra questo coro e questa pompa,
né vien chi l'interrompa
e turbi i nostri giuochi e i nostri canti.


II

Sante leggi d'Amore e di Natura,
sacro laccio ch'ordio
fede sì pura di sì bel desio,
tenace nodo e forti e cari stami:
soave giogo e dilettevol salma
che fai l'umana compagnia gradita,
per cui regge due corpi un core, un'alma,
e per cui sempre si gioisca ed ami
sino a l'amara ed ultima partita:
gioia, conforto e pace
de la via fugace,
de' l mal dolce ristoro ed alto oblio:
chi più di voi ne riconduce a Dio?


III

Divi noi siam che ne 'l sereno eterno
fra celesti zaffiri e bei cristalli
meniam perpetui balli,
dove non è giamai state né verno:
ed or grazia immortale, alta ventura
qua giù ne tragge, in questa bella imago
de 'l teatro de' l mondo;
dove facciamo a tondo
un ballo novo e dilettoso e vago,
fra tanti lumi de la notte oscura
a la chiara armonia de 'l suono alterno.


IV

Itene, o mesti amanti, o donne liete,
ch'è tempo omai di placida quiete:
itene co 'l silenzio, ite co' l sonno,
mentre versa papaveri e viole
la Notte e fugge il Sole.
E se i pensieri in voi dormir non ponno,
sian gli affanni amorosi
in vece a voi di pacidi riposi,
né miri il vostro pianto aurora o luna.
Il gran Pan vi licenzia: omai tacete,
alme serve d'Amor, fide e segrete.



AMORE FUGGITIVO



VENERE

Scesa da 'l terzo cielo,
io che sono di lui reina e dea,
cerco il mio figlio fuggitivo Amore.
Quest'ier mentre sedea
ne 'l mio grembo scherzando,
o fosse elezione o fosse errore,
con un suo strale aurato
mi punse il manco lato,
e poi fuggì da me ratto volando
per non esser punito:
né so dove sia gito.
Io che madre pur sono,
e son tenera e molle,
volta l'ira in pietate,
usat'ho poi per trovarlo ed uso ogn'arte.
Cerc'ho tutto il mio cielo di parte in parte
e la sfera di Marte, e l'altre rote
e correnti ed immote;
né lá suso ne' cieli
è loco alcuno ov'ei s'asconda o celi.
Tal ch'ora tra voi discendo,
mansueti mortali,
dove so che sovente ei fa soggiorno,
per aver da voi nova
se 'l fuggitivo mio qua giù si trova.
Né già trovarlo spero
tra voi, donne leggiadre,
perché se ben d'intorno
a 'l volto ed a le chiome
spesso vi scherza e vola,
e se ben spesso fiede
le porte di pietate
ed albergo vi chiede,
non è alcuno di voi che ne 'l suo petto
dar gli voglia ricetto,
ove sol feritate e sdegno siede.
Ma ben averlo spero
ne gli uomini cortesi
de' quai nessun si sdegna
raccorlo in sua magione:
ed a voi mi rivolgo, amica schiera.
Ditemi, ov'è il mio figlio?
Chi di voi me l'insegna,
vo' che per guiderdone
da queste labra ei prenda
un bacio quanto posso
condirlo più soave.
Ma chi me 'l riconduce
dal volontario essiglio,
altro premio n'attenda,
di cui non può maggiore
darvi, la mia potenza,
se ben in don gli desse
tutto il regno d'Amore:
e per Istige i' giuro
che ferme serverò l'alte promesse.
Ditemi, ov'è il mio figlio?
Ma non risponde alcun? ciascun si tace?
Non l'avete veduto?
Fors'egli qi tra voi
dimora sconosciuto
e da gli omeri suoi
spiccate aver dé' l'ali
e deposto gli strali,
e la faretra ancor deposta e l'arco
onde sempre va carco,
e gli altri arnesi alteri e trionfali.
Ma vi darò tai segni
che conoscere ad essi
facilmente il potrete,
ancor che di celarsi a voi s'ingegni.
Egli, ben che sia vecchio
e d'astuzia e d'etate,
picciolo è sì che ancor fanciullo sembra
a 'l volto ed a le membra,
e 'n guisa di fanciullo
sempre instabil si move
né par che loco trove in cui s'appaghi,
ed ha gioia e trastullo
de' puerili scherzi;
ma il suo scherzar è pieno
di periglio e di danno.
Facilmente s'adira,
facilmente si placa; e ne 'l suo viso
vedi quasi in un punto
e le lagrime e 'l riso.
Crespe ha le chiome e d'oro,
e 'n quella guisa a punto
che Fortuna si pinge
ha lunghi e folti in su la fronte i crini:
ma nuda ha poi la testa
a gli opposti confini.
Il color de 'l suo volto
più che foco è vivace;
ne la fronte dimostra
una lascivia audace;
gli occhi infiammati e pieni
d'un ingannevol riso
volge sovente in biechi; e pur sott'occhio
quasi di furto mira,
né mai con dritto guardo i lumi gira.
Con lingua che da 'l latte
par che si discompagni,
dolcemente favella, ed i suoi detti
forma tronchi e imperfetti:
di lusinghe e di vezzi
è pieno il suo parlare
e son le voci sue sottili e chiare.
Ha spesso in bocca il ghigno,
e gl'inganni e la frode
sotto quel ghigno asconde,
come tra fiori e fronde angue maligno.
Questi da prima altrui,
tutto cortese e umile
a i sembianti ed a 'l volto,
qual pover peregrin albergo chiede
per grazia e per mercede:
ma poi che dentro è accolto,
a poco a poco insuperbisce e fassi
oltra modo insolente:
egli sol vuol le chiavi
tener de l'altrui core,
egli scacciarne fuore
gli antichi albergatori e 'n quella vece
ricever nova gente;
ei far la ragion serva
e dar legge a la mente:
cosi divien tiranno,
d'ospite mansueto,
e persegue ed ancide
chi gli s'oppone e chi gli fa divieto.
Or ch'io v'ho dato i segni
e de gli atti e de 'l viso
e de' costumi suoi,
s'egli è pur qui tra voi
datemi, prego, del mio figlio aviso.
Ma voi non rispondete?
Forse tenerlo ascoso a me volete?
Volete, ah folli, ah sciocchi,
tenere ascoso Amore?
Ma tosto uscirà fuore
da la lingua e da gli occhi
per mille indizi aperti:
tal, io vi rendo certi,
ch'averrà quello a voi che avvenir suole
a colui che ne 'l seno
crede nasconder l'angue,
che co' gridi e co 'l sangue al fin lo scopre.
Ma, poi che qui no 'l trovo,
prima ch'al ciel ritorni
andrò cercando in terra altri soggiorni.


EDIZIONE DI RIFERIMENTO: "Torquato Tasso - Poesie", a cura di Francesco Flora, Riccardo Ricciardi editore, Milano - Napoli, 1952







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