Torquato Tasso - Opera Omnia >>  Discorsi del poema eroico




 

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DISCORSI DEL POEMA EROICO

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A L'ILLUSTRISSIMO E REVERENDISSIMO
SIGNOR CARDINALE ALDOBRANDINO


Io non dubito di dedicare a V. S. illustrissima questa mia opera del Poema eroico, benché ella sia più tosto riguardevole per artificio che per grandezza; anzi ho deliberato d'appoggiarla a l'autorità di V. S. illustrissima, come a saldissima pietra. Laonde potrà di lei avvenire quel che avviene de le picciole statue, le quali, collocate in altissima parte, non sono occulte, paiono assai minori nondimeno a' risguardanti; ma la picciolezza de l'opera può essere compensata non solamente da la mia devozione e da la servitù, la quale ho con lei e con tutta la sua illustrissima casa, ma da la sua grazia parimente. V. S. illustrissima ha l'animo eguale al giudicio, e l'uno e l'altro maggiore de la sua propria fortuna, ma non de la sua cortesia, con la quale ha sempre riguardato me e le cose mie assai benignamente: però m'assicuro che ne le picciole opere ancora debba esser la mia servitù di qualche considerazione; e le bacio umilissimamente la mano.
Di V. S. illustris. e reverendis.
servitore
TORQUATO TASSO.



LIBRO PRIMO


I poemi eroici, e i discorsi intorno a l'arte, e il modo del comporli a niuno ragionevolmente dovrebbono esser più cari che a coloro i quali leggono volentieri azioni somiglianti a le proprie operazioni ed a quelle de' lor maggiori: perciò che si veggono messa innanzi quasi un'imagine di quella gloria per la quale essi sono stimati a gli altri superiori; e riconoscendo le virtù del padre e de gli avi, se non più belle, almeno più ornate con varii e diversi lumi de la poesia, cercano di conformar l'animo loro a quello esempio; e l'intelletto loro medesimo è il pittore che va dipingendo ne l'anima a quella similitudine le forme de la fortezza, de la temperanza, de la prudenza, de la giustizia, de la fede, e de la pietà, e de la religione, e d'ogni altra virtù, la quale o sia acquistata per lunga esercitazione o infusa per grazia divina. Avendo dunque io proposto di correggere e pubblicar quel che io, già molti anni sono, scrissi in quattro libri, ne' quali mostrai quasi l'idea del poema eroico, ho voluto fare l'elezione de la persona di V. S. illustrissima a cui dovessi dedicarli, perciò che ella è nata di progenie a cui questo nome si può attribuire, non meno che ad alcuno altro de' moderni secoli e de gli antichi; e molti sono stati ne la sua nobilissima stirpe veramente eroi e veramente dotati di fortezza e d'ogni altra virtù eroica. Ma questo non è luogo proprio de le sue lodi, ma de le ragioni che si possono rendere e de l'arteficio dei poema epico, il quale, tutto che fosse occulto, sarebbe conosciuto da V. S. illustrissima. Ma essendo dimostrato da gli argomenti e da l'autorità e da gli esempi, non può trovar meglior giudice, né più giusto estimatore; né la benevolenza o l'amicizia possono impedire in lei il conoscimento: perché l'una virtù non impedisce le operazioni d'un'altra, ma più tosto suole agevolarla. V. S. illustrissima suole adoperare quel ch'adopera con tutte le virtù insieme. Laonde in una sola azione mostra molte perfezioni, e merita molte lodi unitamente, come in un solo cielo risplendono molte stelle. Non dubito dunque che 'l suo giudizio debbia diminuir la sua cortesia, o la sua cortesia far minore il suo giudizio; ma la prego che si degni di legger questi brevi Discorsi, e d'accettarli quasi veri testimonii de la mia antica servitù. Ed acciò che sia più facilmente da lei riconosciuta, non ho voluto fare in loro molte mutazioni né molto accrescimento, quantunque con gli anni sogliono crescere quelle cose che non hanno ancora ricevuto la loro perfezione. Oltre a ciò, ho dubitato che altri non potesse credere ch'io volessi attribuirmi l'opinione d'alcuni: però de le molte cose che io ho dopoi lette e considerate in questa materia, ho aggiunte solamente quelle de le quali aveva ragionato publicamente in Bologna, o privatamente in Ferrara e in altre parti con molti amici miei. Per niuna cagione adunque deve esser rifiutato il testimonio di questa piccola opera, la quale io composi in pochi giorni e molti anni prima ch'io ripigliassi il poema tralasciato nel terzo o nel quarto canto. Ma, benché si prestasse fede a l'anteriorità, non si dee negare a le ragioni; ed io ho scelte alcune di quelle ch'in questa materia possono essere scritte con acconcio modo, perciò che non apportano seco necessità senza persuasione, né fanno violenza a l'animo di chi legge, ma lasciano libero il giudizio de l'approvare.

Dico adunque che in tutte le cose si dee riguardare a l'ultimo, come dice Aristotele ne la Topica; ma l'ultimo è uno, laonde non si può ritrovare unitamente in molti particolari; ma considerando le bontà ne l'eccelenze che sono divise fra molti, si forma l'idea de la bontà e de l'eccelenza, come formò Zeusi quella de la bellezza quando volle dipingere Elena in Crotone; e questa differenza è peraventura fra l'idee de le cose naturali che sono ne la mente divina, e quella de l'artificiali, de le quali si figura e quasi dipinge l'intelletto umano: ché ne l'una l'universale è innanzi le cose stesse, ne l'altro da poi le cose naturali. L'idea dunque de le cose artificiali è formata dopo la considerazione di molte opere fatte artificiosamente, ne le quali tuttavolta non è l'ottimo, ma quella è migliore che più gli s'avvicina. Dovendo dunque io mostrar l'idea de l'eccelentissimo poema eroico, non debbo proporre per esempio un poema solo, benché egli fosse più bello de gli altri; ma, raccogliendo le bellezze e le perfezioni di ciascuno, insegnare come egli si possa fare bellissimo e perfettissimo insieme.

Ma prima debbiamo peraventura ricercare quel che sia il poema eroico, o pur quel che sia il poema che è il suo genere; e dopoi considerare l'idea, perché da l'idea si conosce, come dice Aristotele nel medesimo libro de la Topica, se la definizione sia vera e propria, e benché in alcune cose non convenga a fatto, in questa di cui parliamo sicuramente possiamo considerare l'una e l'altra insieme. Oltre a ciò, se per abondare d'argumenti debbiamo rimirare ne l'esemplare, rimiriamo ne l'idea, perché l'idea è 'l vero esemplare e 'l vero esempio, se così vogliamo dire più tosto: anzi possiamo usare la perfetta definizione in vece di regola e d'esempio, come insegna Alessandro Afrodiseo, esponendo Aristotele nel medesimo luogo. Ricerchiamo dunque prima quel che sia il poema o la poesia in generale; e poi troveremo la definizione di questa specie, io dico del poema eroico o epico che sia chiamato.

La poesia ha molte spezie; e l'una e l'epopeia, l'altre la tragedia, la commedia, e quelle che si cantano con la cetera e con le pive o con le sampogne o con altri instrumenti pastorali, le quali tutte convengono ne l'imitare. Laonde possiamo affermare senza dubbio che la poesia altro non sia ch'imitazione. Ma imitano anco la pittura e la scoltura, e molte arti oltre queste. Però è necessario che s'aggiunga qualche differenza che la separi da l'altre arti imitatrici. Né già paiono diverse per la diversità de le cose imitate, perché il medesimo argomento de la guerra di Troia o de gli errori di Ulisse potrà esser preso dal pittore e dal poeta: dunque la differenza de le azioni rassomigliate non gli fa differenti; ma l'uno ne l'imitare adopera i colori, l'altro le parole, o sciolte o più tosto legate con qualche certo numero. È dunque la poesia imitazione fatta in versi. Ma imitazione di che? De le azioni umane e divine, dissero gli Stoici. Dunque coloro che non cantano l'azioni umane o divine non sono poeti. Non fu dunque poeta Omero, quando egli descrisse la battaglia fra le rane e fra' topi; né poeta Virgilio de scrivendoci i costumi e le leggi e le guerre de l'api. Da l'altra parte chi descriverà le azioni divine sarà poeta. Poeta fu dunque Empedocle, insegnandoci come l'amore e la discordia corrompano questo mondo sensibile e generino l'altro intelligibile; o poeta Platone quando introduce Timeo a narrare come Iddio padre, chiamando gli altri iddii minori, creasse il mondo; e se non fu poeta intieramente perché gli manca il verso, almeno e dignissimo di questo nome in quello che appertiene a le cose imitate. Ma se questo è vero, essendo tutte l'azioni de la natura amministrate con divina provvidenza, chi scrive l'azioni de la natura par che sia poeta. Né credo già che gli eroici poeti avessero escluso Omero o Empedocle o Parmenide o vero Oppiano, o altro sì fatto il quale prendesse il verso in presto da' veri poeti a guisa d'un carro, come dice Plutarco; forse averebbono scacciato da questo numero poetico Lucrezio, perché egli scaccia quella loro antichissima pronoia là onde la creazione del mondo per suo aviso non fu divina azione, ma fatta a caso; e l'azioni somiglianti non sono, per opinione di Aristotele, convenevole soggetto de la poesia. Ma peraventura alcuno potrebbe desiderare di sapere la ragione per la quale l'azioni divine ed umane solamente siano soggetto de la poesia, e l'azioni de gli elementi e l'altre naturali non siano. Ma se tutte l'azioni possono essere imitate, essendo molte le spezie de l'azioni, molte saranno le spezie de' poemi; e perché in questo genere equivoco, come dice Simplicio ne' Predicamenti, la prima spezie è la contemplazione, la quale è azione de l'intelletto, la contemplazione ancora potrà essere imitata dal poeta; e, come pare ad alcuni, il poema di Dante ha per soggetto la contemplazione, perché quello suo andare a l'inferno ed al purgatorio altro non significa che le speculazioni del suo intelletto. Altri vogliono che 'l soggetto sia un sogno, come è quello de' Trionfi del Petrarca, e l'Amorosa visione del Boccaccio; ma coloro che tengono questa opinione il fanno soggetto a maggiore opposizione che non è, secondo Platone, l'imitatore medesimo, perché nel primo grado de la verità è l'idea, nel secondo la forma naturale e la cosa istessa, nel terzo la sua imitazione o l'imagine. Ma l'imitatore il quale rassomiglia non una azione vera, ma un sogno, l'imagine de la azione essendo più lontana da la verità, sarebbe per conseguente più imperfetto; né si può concludere altro con la dottrina di Platone, quantunque Sinesio scrivesse che le favole hanno avuto principio da' sogni, e che non sia inconveniente che il sogno sia fine de la favola, com'è principio; ma col parer d'Aristotele, dicendo egli che Empedocle e più tosto fisico che poeta, non si può concludere assolutamente ch'egli non sia poeta in modo alcuno; ma s'egli pur è poeta, le azioni de gli elementi ancora che sono ne l'infimo grado saran soggetto de la poesia. Dunque poeta è similmente Lucrezio e 'l Pontano e gli altri ch'in versi hanno scritte le cose de la natura; e se questa definizione è vera, non si dee diffinir la poesia imitazione de le azioni umane e divine, perché se ne escluderebbono quelle de gli elementi e l'altre naturali e quelle de gli animali. Laonde sarebbono cacciati da questo numero non solo i poemi d'Empedocle e di Lucrezio e d'Oppiano, ma alcuno di quelli di Omero medesimo. Da l'altra parte a me non pare che sia imitata alcuna azione divina in quanto divina, perché in quanto tale peraventura non si può imitare con alcuno di quegli instrumenti che sono propri de la poesia: però che scrisse Aristotele nel primo de la Politica che molti fingono le vite de gli iddii, come le figure e l'imagini, a somiglianza di quelle de gli uomini; ed Isocrate, che la poesia d'Omero e le prime tragedie sono degne di maraviglia, perché, avendo considerato la natura de l'ingegno umano, usiamo impropriamente l'una e l'altra forma, altri trattando falsamente le guerre e le battaglie de' semidei, altri supponendo le favole a gli occhi. E Marco Tullio disse che Omero aveva trasportate le cose umane a le divine, « mallem divina ad nos » : volendoci dare a divedere ch'egli aveva descritti gl'iddii come uomini, e le passioni umane come divine, perché il parlare e 'l consigliarsi sono umane azioni, e l'adirarsi e 'l muoversi a compassione passioni de gli uomini. Atanasio ancora (per aggiongere uno scrittore sacro a tanti profani) nel libro Contra i gentili lasciò scritto ch'Iddio adorato da' gentili è quasi un composto di ragionevole e d'irragionevole: però ne la sua imagine si congiunge l'una e l'altra forma, cioè l'umana e quella di bestia, come appresso gli Egizi Cinocefalo e Anubi; e l'azioni ancora furono attribuite a' loro iddii quasi ferine. Laonde se il pittore, quantunque dipinga Giove e Marte, Iside ed Osiri, non è pittore d'altra forma che de l'umana o di quella di fiera, perché la divinità non può da lui essere imitata, così il poeta di queste forme e di queste azioni non è imitatore, ma de l'umane principalmente o propriamente. Tanta è dunque la diversità fra l'imitatore de le cose divine e de le cose umane, quanta fra quelle che sono propriamente idee e queste che chiamiamo imagini e simolacri. Ma ne l'idee ancora (come piace ad Aristotele nel primo de la Metafisica, e ad Alessandro suo comentatore) è questa differenza di ragionevole e d'irragionevole, o cosa che con questa abbia proporzione; non è dunque maraviglia se i simolacri siano stati formati in questa guisa. Ma tornando ad Omero, dico che s'egli imita gli iddii sotto questa considerazione quasi contraria de le forme, de l'azioni e de le passioni de' mortali, si può affermare che egli sia imitatore de l'elezioni umane e de gl'iddii in quanto uomini. Parimente ne la battaglia fra le rane e i topi sono trasferite ne gli animali le parole e gli affetti ed i costumi che sono propri de gli uomini. Laonde io direi più tosto che la poesia altro non fosse che imitazione de l'azioni umane, le quali propriamente sono azioni imitabili; e le altre non fossero imitate per sé, ma per accidente, o non come parte principale, ma come accessoria; ed in questa guisa ancora si possono imitare non solo le azioni de le bestie, come la battaglia del liocorno co 'l leofante o del cigno con l'aquila; ma le naturali, come le tempeste maritime, le pestilenze, i diluvi, gl'incendi, i terremoti e le altre sì fatte. Oltre acciò, dovendo, come abbiamo detto, ciascuna definizione risguardare a l'ottimo, debbiamo ne la definizione de la poesia preporci un ottimo fine; ma l'ottimo fine è quello di giovare a gli uomini con l'esempio de l'azioni umane, perché l'esempio de le bestie non può giovare egualmente, e quel de le divine non e nostro proprio: dunque a questo deve esser dirizzata. La poesia è dunque imitazione de l'azioni umane, fatta per ammaestramento de la vita. E perché ogni azione si fa con qualche consiglio e qualch'elezione, si tratterà del costume e de la sentenzia per conseguente, la quale da' Greci è detta dianoia; e benché, facendosi questa imitazione, si dia grandissimo diletto, non si può dire che duo sian i fini, l'uno del diletto, l'altro del giovamento, come pare che accennasse Orazio in quel verso:

Aut prodesse volunt aut delectare poetae:

perché un'arte sola non può aver due fini, l'uno de' quali a l'altro non sia subordinato; ma o si dee lasciare da parte il giovamento de l'ammonire e del consigliare (come dice Isocrate), e co l'esempio di Omero e de' tragici rivolger tutto lo sforzo de l'orazione al dilettare; o volendo ritener il giovamento, si dee dirizzar il piacere a questo fine; e peraventura il diletto è fine de la poesia, e fine ordinato al giovamento. Però si legge ne la seconda orazione del medesimo Isocrate che gli antichi poeti lasciarono ammaestramenti de la vita, per li quali gli uomini divennero migliori; e nel Panatenaico, che la poesia ci divertisce da molti delitti. Però null'altro esercizio più conviene a la giovenezza. Ma il giovamento è considerato principalmente da quell'arte che è quasi architetto di tutte l'altre. Però al politico s'appartiene di considerare quale poesia debba esser proibita e qual diletto, acciò che il piacere, il quale dee esser in vece di quel mele di cui s'unge il vaso quando si dà la medicina a' fanciulli, non facesse effetto di pestifero veleno, o non tenesse occupati gli animi in vana lezione. Non dee dunque il poeta preporsi per fine il piacere, come peraventura credeva Eratostene, ripreso da Strabone che difende Omero da l'imputazioni, ma 'l giovamento: perché la poesia, come estima il medesimo autore, seguendo l'opinione de gli antichi, è una prima filosofia, la qual sin da la tenera età ci ammaestra ne' costumi e ne le ragioni de la vita. Ma quei che seguirono poi portarono opinione che solo il poeta fosse sapiente. Almeno si dee credere che non ogni piacere sia il fine de la poesia, ma quel solamente il quale è congiunto con l'onestà: perché sì come il diletto, il quale nasce dal leggere l'azioni brutte e disoneste, è indignissimo del buon poeta, così il piacere d'imparar molte cose congiunto con l'onestà è suo proprio. Laonde peraventura questo fine non è così da sprezzare come parve al Fracastoro nel suo Dialogo de la poesia; anzi paragonandolo a l'utile, è più nobil fine quel del piacere, perciò ch'egli è desiderato per se stesso, e l'altre cose per lui sono desiderate. Laonde in ciò è tanto simile a la felicità, la quale è il fine de l'uomo civile, che niuna cosa si può trovar più somigliante; oltre acciò è amico de la virtù, perché egli fa magnifica la natura de gli uomini, come si legge in Ateneo; onde coloro che amano il piacere e magnanimi e splendidi sogliono divenire. Ma l'utile non si ricerca per se stesso, ma per altro: per questa cagione è men nobil fine del piacere, ed ha minor somiglianza con quello che è l'ultimo fine. Se 'l poeta dunque in quanto poeta ha questo fine, non errerà lontano da quel segno al quale egli dee dirizzare tutti i suoi pensieri, come arciero le saette; ma in quanto è uomo civile e parte de la città, o almeno in quanto la sua arte è sottordinata a quella ch'è regina de l'altre, si propone il giovamento, il quale è onesto più tosto che utile. De' due fini dunque i quali si prepone il poeta, l'uno è proprio de l'arte sua, l'altro de l'arte superiore; ma riguardando in quel che è suo proprio, dee guardarsi di non traboccare nel contrario, perché gli onesti piaceri sono contrari a' disonesti. Laonde non meritano lode alcuna coloro che hanno descritti gli abbracciamenti amorosi in quella guisa che l'Ariosto descrisse quel di Ruggiero con Alcina o di Ricciardetto con Fiordispina; e peraventura il Trissino ancora avrebbe potuto tacere molte cose, quando ci pone quasi innanzi a gli occhi l'amoroso diletto che prese l'imperator Giustiniano de la moglie; ma egli volle imitare Omero, il quale finge che Giunone e Giove in cima del monte Ida fossero coperti da una nuvola: invenzione leggiadramente trasportata dal Tasso nell' Amadigi, quand'egli descrive l'abbracciamento di Mirinda e di Alidoro, quasi volendoci accennare che l'altre cose deono essere ricoperte sotto le tenebre del silenzio, oltre tutte l'altre. Ma Virgilio ne gli amori d'Enea con Didone fu modestissimo, e accenna con brevi parole quel che seguisse dopo la pioggia mandata da Giunone:

Speluncam Dido, dux et trojanus eandem deveniunt etc..

È dunque, come abbiamo detto, la poesia imitazione de l'azioni umane, a fine di giovare dilettando: è il poeta uno imitator sì fatto, il quale con l'arte sua potrebbe dilettare altrimente, come hanno dilettato molti senza giovamento; ma non facendolo, è buon poeta, e peraventura è in ciò simile a l'oratore, il quale si considera, come parve ad Aristotele, non solamente da la scienza, ma da la volontà, a differenza del dialettico che si stima non per l'animo, ma per la facoltà. E quinci avviene che alcuna volta ne le diffinizioni non si diffinisce la cosa ignuda, ma la cosa ben disposta e perfetta, come dice il medesimo Aristotele ne la Topica: nel qual genere di definizione è quella de l'oratore, perciò che l'oratore è colui che può conoscere tutto ciò che è degno di fede in qualunque cosa e non ne tralascia alcuna: è buono oratore senza fallo. Da le quali parole peraventura fu mosso prima Strabone a dire che la virtù del poeta sia congiunta con quella de l'uomo, e che non possa esser buon poeta chi non è uomo da bene; e poi Quintiliano a definir l'oratore uomo da bene ed ammaestrato nel parlare, non pensando le parole d'Aristotele, ne le quali non lo chiama uomo da bene, ma buon oratore. Ma non so se questa definizione di Quintiliano meriti d'esser ripresa dal Cavalcante: perciò che l'oratore ben disposto e perfetto non poteva peraventura essere altrimenti definito, quantunque la bontà non sia parte del suo artificio, ma perfezione de la natura e de l'abito; ma s'ella è pur sottoposta a qualche reprensione, a niuna altra è più soggetta che a quella datale da Alessandro Afrodiseo, il quale dice che ne le definizioni sì fatte non si diffinisce il tutto, ma la parte. E forse non volle Quintiliano che la definizione de l'oratore convenisse a tutti gli oratori, ma al perfetto solamente. Così ancora ne la definizione del poeta, chi dirà che il poeta sia uomo da bene e buono imitatore de le azioni e de' costumi de gli uomini a fine di giovar co 'l diletto, non darà peraventura definizione la quale convenga a tutti i poeti: definirà nondimeno l'ottimo ed eccelentissimo poeta. Dunque se il poeta è imitatore de le azioni e de' costumi umani, la poesia sarà imitazione de l'istesse cose; e s'egli è buono imitatore, la poesia sarà una imitazione sì fatta. Ma alcuni hanno voluto che il poeta non riguardi tanto a la bontà, quanto a le bellezze de le cose: fra' quali è il Navagerio, appresso il Fracastoro, là dove prova che il fine del poeta sia di riguardare ne l'idea del bello, quasi volendo contradire a l'opinione che mostrò Aristotele d'aver ne' libri morali, ne' quali dice che l'idea non giova cosa alcuna ne l'operazione; ma qualunque fosse il giudizio d'Aristotele in quel luogo e dichiarato dal greco espositore, a me non può dispiacere in alcun modo che il poeta rimiri ne l'idea de la bellezza; ma se più sono l'idee ne le quali suol drizzar gli occhi l'oratore, com'è piaciuto ad Ermogene, non so perché il poeta debba considerare solamente quella de la bellezza, e non l'altre sei similmente. Ma peraventura parve al Navagerio che ne la forma de la bellezza fossero comprese tutte le altre, o che il bello fosse in tutte: perciò che ne la chiarezza, ne la grandezza, ne la velocità, ne l'affetto, ne la gravità e ne la verità è il bello; e se non m'inganno, il Navagerio desiderava che la chiarezza non fosse chiara solamente, ma chiara e bella similmente, e così tutte l'altre forme. Ma perché questa parte appertiene particolarmente a l'elocuzione, sarà da me considerata quando io discorrerò de l'artificio del parlare.

Ora non mi pare che debba essere disprezzata l'opinione di Massimo Tirio, il quale volle che la filosofia e la poesia fossero una cosa doppia di nome, ma di semplice sostanza, come è la luce per rispetto del sole; e però definisce la poesia una filosofia antica di tempo, di suono numerosa, d'argomenti favolosa; ma la filosofia è, com'a lui pare, una poesia giovene d'età, e più sciolta di numeri, e ne le ragioni più aperta. Ma io estimo che 'l modo di considerare le cose faccia l'una da l'altra differente, perciò che la poesia le considera in quanto belle, e la filosofia in quanto buone, come accenna il medesimo autore in un altro luogo, dicendo ch'Omero ebbe da far due cose, l'una appertenente a la filosofia, l'altra a la poesia; ed in quella ebbe risguardo a la virtù, in questa a l'effigie de la favola. È dunque la poesia investigatrice e quasi vagheggiatrice de la bellezza, e in duo modi cerca di mostrarla e di porcela davanti a gli occhi: l'uno è la narrazione, l'altro la rappresentazione; e l'uno e l'altro è contenuto sotto la imitazione, come sotto suo genere; ma alcuna volta si denomina da una particolar maniera d'imitare. Coloro adunque i quali hanno definito la poesia narrazione d'azione umana memorevole e possibile ad avenire, non hanno data definizione che convenga a tutte le spezie de la poesia, ma al poema epico solamente, o eroico che vogliam dirlo, ed hanno esclusa la tragedia e la comedia, se pure in questo nome di narrazione non è alcuna doppiezza di significato, la qual potea da loro esser meglio distinta e dichiarata con l'autorità d'Aristotele medesimo, com'io feci alcuna volta, e poi gli altri han fatto più perfettamente. Diremo adunque che il narrare sia proprio del poema epico, perché con questo nome sono chiamati coloro che scrivono le cose fatte da gli eroi, per testimonio di Cicerone e d'Eustazio comentatore d'Omero. Un'altra differenza ancora, oltre il modo, è tra l'epopeia e la tragedia; e questa nasce da la diversità de le cose con le quali imitano o da gl'instrumenti, perché la tragedia, oltre il verso, adopera per purgar gli animi il ritmo e l'armonia. In due condizioni dunque sono differente: ne le cose con le quali s'imita, e nel modo de l'imitare; in una concorde, ne le cose imitate, perché la tragedia ancora, come dice Aristotele ne' Problemi, simula le azioni de gli eroi. Ma da la comedia il poema eroico in tutto è differente, perché è diverso ancora ne le cose e ne le persone imitate. Ma lasciamo la tragedia e la comedia da parte, ed una specie di poesia narrativa, la quale in comparazione de la comedia è come l'Iliade paragonata a la tragedia, perché in lei s'imitano le cose brutte, come fece Omero nel Margite, ad imitazione del quale fu peraventura da' nostri poeti formato il Margut: perché di queste e de l'altre specie non è mia principale intenzione di ragionare.

Io dico che il poema eroico è una imitazione d'azione illustre, grande e perfetta, fatta narrando con altissimo verso, a fine di giovar dilettando, cioè a fine che 'l diletto sia cagione ch'altri leggendo più volentieri non escluda il giovamento. Ma 'l giovar dilettando è peraventura di tutte le poesie: perché giova dilettando la tragedia, e giova dilettando la comedia. Ma il fine di ciascuna dovrebbe esser proprio, perché sì come altro fine ha l'arte de' freni, altro quella del far l'alabarde (tutto che l'una e l'altra sia subordinata a l'arte de la guerra e dirizzata a quel fine ch'ella si propone), così altro fine dovrebbe aver la tragedia, altro la comedia, altro la epopeia, o altra operazione. Perché la forma di ciascuna cosa si distingue per la propria operazione; ma l'operazione de la tragedia è di purgar gli animi co 'l terrore e con la compassione, e quella de la comedia di muovere riso de le cose brutte (come dichiara il Maggi in quel suo libro De' ridicoli ch'egli compose separatamente) e da questa operazione de la comedia nasce il giovamento, perché noi ridendoci de la bruttezza che veggiamo ne gli altri, ci vergogniamo di far cose che siano brutte egualmente. Dee dunque ancora l'epopeia aver il suo proprio diletto co la sua propria operazione; e questa peraventura e il mover maraviglia, la quale non pare propriissima de la epopeia, perché muove maraviglia la tragedia, come si raccoglie da quelle parole d'Isocrate ch'io addussi pur dianzi. Però sono degni d'ammirazione la poesia d'Omero e coloro che prima ritrovarono le tragedie. Ma di ciò si potrebbe nondimeno dubitare, perché se la maraviglia è de le cose nuove, poteva parer meravigliosa la poesia d'Omero, ma non quelle tragedie le quali dopo tanti anni trattarono de le medesime cose già divolgate per la Grecia, e fatte famigliari a ciascuno: se forse non le fece parer meravigliose un nuovo moda di trattarle, il quale, come invecchiato con l'uso, non parve poi meraviglioso ne' tragici che seguirono. Da molti detti ancora d'Aristotele ne la Poetica si può raccogliere che le tragedie debbano muover meraviglia, e particolarmente da quelle: epei de ou monon teleias esti praxeos he mimesis, alla kai phoberon kai eleeinon. Tauta de ghinetai malista toiauta, kai mallon hotan ghenetai para ten doxan di' allela; to gar thaumaston houtos hexei mallon e ei apo tou automatou kai tes tuches ecc.: anzi i casi meravigliosi sono cagione che più agevolmente s'induca l'orribile e 'l miserabile. Muove ancora maraviglia la comedia, non bastando la bruttezza sola senza la maraviglia a far ch'altri rida de le cose che ci paiono brutte: laonde cessata la maraviglia o la novità, cessa il riso. Nondimeno a niuna altra specie di poesia tanto conviene il muover maraviglia quanto a la epopeia; e ce l'insegna Aristotele ed Omero istesso ne la fuga d'Ettore: perché quella maraviglia che ci rende quasi attoniti di veder ch'un uomo solo con le minacce e co' cenni sbigottisca tutto l'esercito, non converrebbe a la tragedia; tuttavolta rende mirabile il poema eroico: né converrebbono ne la scena la morte d'Ettore, o l'altre: le quali, come racconta Filostrato nella Vita di Apollonio, furono proibite da Eschilo chiamato padre de la tragedia, perché molto mitigò la sua crudeltà. Non sarebbe ancora convenevole ne la scena la trasmutazione di Cadmo in serpente, la quale convenevolmente fu narrata da Ovidio; non quella di Aretusa; non quella de le ninfe converse in navi, la quale si legge appresso Virgilio; non quella di Proteo in tante sembianze descritta nella Georgica, e prima nell'Odissea; non quella nel cerchio de' ladroni, de la quale Dante si vanta con queste parole:

Taccia di Cadmo e d'Aretusa Ovidio,
ché se quello in serpente e quella in fonte
converte poetando, i' non l'invidio;

non quella di Fileno in fonte appresso il Boccaccio, o del mago in tante forme appresso il Boiardo, o d'Astolfo in mirto appresso l'Ariosto; non tante altre che si leggono con maraviglia in tanti altri poeti moderni e antichi; non tante maraviglie le quali nel teatro sarebbono peraventura sconvenevoli, e ne l'epopeia sono lette volentieri, sì perché sono sue proprie, si perché il lettore consente a molte cose, a le quali nega il consentimento colui che risguarda. Laonde le machine rade volte si lodano ne la tragedia; ma ne l'epopeia spesso scendono dal cielo gl'iddii e gli angeli, e s'interpongono ne l'operazioni de gli uomini, dando consiglio ed aiuto, come fanno Apollo e Minerva ne l'Iliade e ne l'Odissea d'Omero e ne l'Ercole del Giraldi; e Venere ne l'Eneide di Virgilio e nel Bolognetto; e tanti altri iddii in questi ed in altri poemi. In questo medesimo modo scende l'angel Michele nel Furioso, e l'angel Palladio e l'angel Nettunio ne l'Italia liberata. Laonde tutti questi poemi paiono quasi fatti e condotti a fine da la previdenza, a la quale a pena si lascia luogo ne la tragedia, per ché l'averebbe ancora in lei l'indegnazione, a cui Aristotele non la concedeva: però non deveva il Giraldo e gli altri introdurre Nemesi ne la scena. Oltre a ciò, gli altri poemi muovono maraviglia per muover riso o compassione o altro affetto. Ma 'l poeta epico non ha altro fine; ed a l'incontro muove compassione per muover maraviglia; però la muove molto maggiore e più spesso. Diremo dunque ch'il poema eroico sia imitazione d'azione illustre, grande e perfetta, fatta narrando con altissimo verso, a fine di muover gli animi con la maraviglia, e di giovare in questa guisa.

Ha il poema epico le sue parti, come ogn'altra cosa che sia tutta; e quattro sono senza dubbio quelle che chiamano di qualità: la favola, la quale è definita da Aristotele imitazione dell'azione, e per lei massimamente di coloro che fanno l'azione: questa è da lui chiamata principio ed anima del poema; la seconda parte è il costume de le persone introdotte ne la favola; la terza, la sentenza; l'ultima è l'elocuzione. Ma quelle de la quantità è maggior dubbio quante elle siano; ma peraventura si possono dividere in altre quattro: perciò che ne la prima parte, la qual corrisponde al prologo de la tragedia, il poeta propone e narra e dichiara lo stato de le cose e dà alcuna notizia de le passate, come fa Omero in tutti i suoi poemi, e particolarmente ne l'Odissea; ne la seconda si turbano le cose; ne la terza cominciano a rivolgersi; ne la quarta hanno il loro fine e quasi la perfezione loro; e volendo nominarle con proprio nome, si possono chiamare l'introduzione, la perturbazione, il rivolgimento ed il fine: fra le quali io non ho numerato l'episodio, benché questa parte sia propria al tragico ed a l'epico, anzi più convenevole a l'epico, perciò che nel poema eroico non ha alcun luogo determinato, come deono avere le parti de la quantità. Si potrebbono ancora le parti de la quantità dividere in tre solamente, e chiamarle principio, mezzo e fine, come le chiama Aristotele ne la definizione del tutto; ma questa divisione è più conveniente a' poemi che non hanno la favola inviluppata, ma semplice. Le parti poi de la favola sono tre: il rivolgimento, che peripezia prima dissero i Greci, la quale e una mutazione da la buona ne la rea fortuna, o da la rea ne la buona; ma nel poema eroico è doppia, perché alcuni passano da la prospera a l'avversa fortuna, ed altri da questa a quella; e dee esser sempre in meglio, perché il fine più felice è quello ch'è più conforme a questo poema. Laonde non merita molta lode il Pulci, il quale finì con la morte d'Orlando e d'altri paladini. L'altra parte de la favola è l'agnizione, cioè un passar da l'ignoranza a la notizia di persone prima conosciute e poi dimenticate, o sia semplice come quello d'Ulisse, o scambievole come tra Ifigenia ed Oreste; ma questo passaggio dee esser cagione di felicità o di miseria. E la passione è la terza, cioè la perturbazione dolorosa e piena d'affanni, come sono le morti e le ferite e i lamenti e i rammarichi che possono mover a pietà; e questa parte si può considerare ne l'ultimo de l'Iliade.

Ora, conosciuta la natura di questo nobilissimo poema e de le sue parti, potremo considerare con quale artificio possono esser composti, e giudicaremo la definizione de l'idea. Ma averemo qualche risguardo ancora a la materia, perché le forme artificiali si considerano con la materia, e non voglio chiamar materia de la poesia le lettere, le sillabe, le parole, come chiamò lo Scaligero, perché queste sono peraventura materie de l'orazione e del verso; ma la materia de la poesia mi pare che si possa convenevolmente dire il soggetto ch'ella prende a trattare, avenga che, come dice Porfirio, in tutte le cose un non so che suoi ritrovarsi che risponde per proporzione a la materia e a la forma; e questo soggetto non è propriamente fine, come parve a lo Scaligero, perché la materia non è mai fine, né la causa materiale e la finale sono l'istesse; ma la formale e la finale sogliono spesso esser insieme e, come dicono i Latini, coincidere: il fine, dunque, e la forma data da l'artificio del poeta, il quale, aggiungendo e scemando e variando, dispone la materia e dà un'altra imagine e quasi un'altra faccia a l'azione ed a le cose. Ora cominciarsi a trattar de l'arte sua quasi con un nuovo principio, se non mi si facesse a l'incontro qualche opposizione fatta ad Aristotele dal Castelvetro: la quale è, che egli non doveva trattare de l'arte poetica, se prima non trattava de l'arte istorica, perché sì come prima è l'istoria de la poesia, e il vero del verisimile, casi primieramente si dovea dar l'arte di scrivere il vero, poi quella d'adornare il verisimile: la quale dopo la prima non sarebbe forse stata necessaria. Questa opinione a me pare fondata sopra due fondamenti, de' quali l'uno è falso in tutto, ciò è che l'istoria sia prima de la poesia, avenga che i poeti siano antichissimi oltre tutti gli altri scrittori, e gl'isterici cominciarono a scrivere molte centinaia d'anni dopo loro: laonde non si dee stimar prima l'arte di quella cosa la quale nacque dopoi. Oltre a ciò, se ne l'arte de gl'istorici ha alcuna parte il numero e gli ornamenti e le figure del parlare, chi non sa che queste cose furono quasi prestate dal poeta a l'oratore? Però né l'oratore e né gli altri che scrivono in prosa hanno alcuna cosa che non sia quasi usurpazione. Ma s'egli o altri replicasse che l'istoria è prima per natura, quantunque sia seconda per tempo, siccome quella che scrive del vero, il quale è prima de la sua somiglianza, io direi che il poeta non considera il verisimile se non come universale: però si dovea dare prima l'arte di scrivere questo universale; né fa mestieri di considerare se l'universale sia innanzi a tutte le cose, o sia dopo, come disse alcuna volta Aristotele: basta che sia più noto. Non ci diede Aristotele ammaestramenti di scrivere istorie, stimando forse che ella fosse di più semplice considerazione; e s'ella appartiene a l'oratore, bastavano i precetti retorici; e s'ha pur alcune cose di proprio, come accenna Demetrio Falereo (il quale assegna altro periodo a l'istorico, altro a l'oratore), non erano forse tante che meritassero un'arte divisa e separata da l'altre: però con artificio medesimo si può trattare il vero ed il verisimile; anzi dicendo Aristotele che la poesia considera più l'universale, c'insegna per conseguente l'officio de l'altra, ch'è di narrare il particolare; ma questo non è l'imitare, perché l'imitazione non è congiunta con la verità per sua natura, ma con la verisimilitudine. Non deono dunque imitare gl'istorici; e peraventura non sono prive d'imitazione l'orazioni, perché l'istorico il più de le volte non racconta quel che fu detto nel senato o negli eserciti, ma quel che è verisimile che fosse detto; e, fra l'orazioni, più convenienti a l'istorico sono l'oblique che le rette, come parve a Trogo Pompeio. Molti ragionamenti ancora si leggono in Erodoto, in Senofonte, scrittori de le cose greche, e ne gli altri che poi seguirono, ne' quali si vede un'imitazione quasi poetica; laonde pare che l'istorico, non contento de' suoi termini, trapassi ne' confini de la poesia. Ma di queste cose, se mi sarà conceduto, tratterò in luogo proprio di materie così fatte, esaminando e quasi ponendo in bilancia da l'una parte il giudizio di Polibio che scrisse istoria e insieme insegnò com'ella dovesse essere scritta, e di Dionigi Alicarnasseo che fece il giudizio di Tucidide; da l'altra l'autorità di questo medesimo autore e de gli altri due prima nominati, e di Livio e di Sallustio, che fra' Latini sono di maggiore stima e, se non m'inganno, imitarono li Greci. Ma questa imitazione non è quella di cui parliamo, né quella di cui intese il Fracastoro, la quale non è conveniente a l'istorico; laonde tra la diversità de li scrittori e de le opinioni non potrà parer soverchio scrivere di questo artificio. Ma ora il mio proponimento è scrivere de le cose incominciate.




LIBRO SECONDO


Fra tutte le operazioni de la nostra umana ragione, illustrissimo signore, niuna e più malagevole, niuna più degna d'esser lodata de l'elezione: però che le operazioni fatte a l'improviso possono peraventura come divine e meravigliose esser considerate, ma non meritano lode di maturità e di consiglio e di prudenza; ma l'eleggere è cosa propria de l'uomo che si consigli fra se stesso; e 'l bene eleggere propriissimo del prudente: tanto maggiore nondimeno si mostra la prudenza del far l'elezione, quanto è minore la certezza de le cose elette. Ma qual'è più incerta, quale più instabile, quale più incostante de la materia? Prudentissimo dunque conviene che sia colui il quale non s'inganni ne lo scegliere dove è tanta mutazione e tanta incostanza di cose; e la materia è simile ad una selva oscura, tenebrosa e priva d'ogni luce. Laonde se l'arte non l'illumina, altri errarebbe senza scorta e sceglierebbe peraventura il peggio in cambio del meglio. Ma l'arte distingue fra le cose disposte a ricever la forma e quelle che non sono disposte; e quantunque la materia propriamente si dica quella de gli elementi o de' nostri corpi, o quella de' colossi o de le piramidi o de' ponti o de le navi o de l'altre cose che si possono vedere e toccare e sono sottoposte a' nostri sentimenti, nondimeno ne le cose intellettuali ancora si trova un non so che simigliante a la materia, e, per analogia o proporzione che vogliamo dirla, può esser dimandato con l'istesso nome. Laonde non solo diciamo la materia de l'orazione o del sillogismo o del verso, ma chiamiamo materiale ancora una potenza dell'intelletto nostro, atta a ricever tutte le forme. Ma lasciando ora da parte la sottilissima investigazione de' filosofanti, niuna selva fu già mai ripiena di tanta varietà d'alberi di quanta diversità di soggetti è la poesia. La materia poetica adunque pare amplissima oltre tutte l'altre, però che abbraccia le cose alte e le basse, le gravi e le giocose, le meste e le ridenti, le publiche e le private, l'incognite e le conosciute, le nuove e le antiche, le nostre e le straniere, le sacre e le profane, le civili e le naturali, l'umane e le divine: laonde i suoi termini non pare che siano i monti o i mari che dividono l'Italia o la Spagna; non il Tauro, non l'Atlante, non Battro, non Tile, non il Mezzogiorno o 'l Settentrione o l'Oriente o l'Occidente, ma il cielo e la terra: anzi l'altissima parte del cielo e la profondissima del più grave elemento: perciò che Dante, innalzandosi dal centro, ascende sovra tutte le stelle fisse e sovra tutti i giri celesti; e Virgilio ed Omero ci descrissero non solamente le cose che sono sotto la terra, ma quelle ancora che a pena con l'intelletto possiamo considerare; ma le ricoprirono con un gentilissimo velo d'allegoria. È dunque grandissima la varietà de le cose trattate da loro e da gli altri che prima o dopo hanno poetato; è grandissima la diversità de le opinioni, o più tosto la contrarietà de' giudicii, la mutazione de le favelle, de' costumi, de le leggi, de le cerimonie, de le republiche, de' regni, de gl'imperatori, e quasi del mondo istesso, il quale pare che abbia mutata faccia, e ci si rappresenta quasi in un'altra forma ed in un'altra sembianza. Onde s'alcuno, fra tanta moltitudine di cose dubbie ed incerte, potrà scegliere il meglio e quello che e più acconcio a ricevere ornamento e bellezza, sarà artificiosissimo e prudentissimo oltre tutti gli altri, però che l'arte non deve essere scompagnata da la prudenza e, come ad alcuni parve, è la prudenza istessa, avegna che le sue operazioni e i suoi giudicii non siano fatti senza elezione e senza consiglio, benché altri abbiano avuto opinione che il consultare non abbia luogo ne l'arti esattissime. Ma ora io scrivo queste cose in guisa d'uomo che dica il suo parere e chieda l'altrui, quasi volendo accendere una gran luce di molte scentille ch'illustri le tenebre che fanno oscura la grandissima selva de la materia poetica.

A tre cose dee aver riguardo, illustrissimo signore, ciascuno che di scriver poema eroico si prepone: a sceglier materia tale che sia atta a ricever in sé quella più eccelente forma che l'artificio del poeta cerca d'introdurci; a darle tal forma; ed a vestirla ultimamente con que' più rari ornamenti ch'a la natura di lei siano convenienti. Sovra questi tre capi dunque, così distintamente come io gli ho proposti, sarà diviso tutto questo Discorso: però che cominciando dal giudicio che egli dee mostrare ne l'elezione de la materia, passerò a l'arte e a l'invenzione che se gli richiede servare prima nel disporla e nel formarla, e poi nel vestirla e nell'adornarla.

La materia, la quale da alcuni è detta nuda, perché non ha anco ricevuta qualità alcuna da l'artificio del poeta o de l'oratore, cade sotto l'artificio del poeta in quella guisa che il ferro o il legno è considerato dal fabro: perché, come dice Filopono nel principio del suo comento sovra il terzo libro Priorum analiticorum, s'appartiene a colui che sa non solo considerare le specie de le cose subiette, ma la materia e la disposizione a ricever le forme; come colui che fa le navi considera i legni che si deono porre in opera nel naviglio; e l'architetto e 'l muratore le pietre apparecchiate per edificare; e il simile aviene ne le altre arti, e in quelle ancora che sono dette ragionevoli. Così Aristotele, volendoci insegnare le specie de' sillogismi, prima ci ammaestrò nelle specie de le proposizioni, che sono materie de' sillogismi. Al poeta similmente conviene non solo aver arte nel formar la materia, ma giudizio ancora nel conoscerla; e dee sceglierla tale che sia per natura capace d'ogni ornamento e d'ogni perfezione. E benché, dandosi un metodo e una via da trovare le proposizioni, si potesse a questa similitudine andar considerando il modo e la strada tenuta da coloro i quali hanno finto l'argumento e il soggetto, nondimeno ora si ragiona di quella parte che è propria del giudizio, non de l'altra ch'appartiene a l'invenzione, ne la quale è più libero il poeta che l'oratore: perché a l'oratore, e a quello particolarmente che s'esercita nel giudizio de le cause criminali, la materia è spesso offerta dal caso e da la necessità; al poeta da l'elezione, al quale è lecito ancora di fingerla, e la finzione è riputata invenzione: quinci aviene che a le volte quel che non è convenevole nel poeta, è lodevole ne l'oratore, o tollerabile almeno. Si biasma il poeta che faccia nascere la compassione sovra persona che volontariamente abbia macchiate le mani nel sangue del padre e del fratello, o commessa altra sceleraggine; ma a l'oratore si concede la difesa del colpevole, come fu opinione di Quintiliano e de gli altri retori; non parlo de' filosofi: perché portaranno contraria opinione, essendo lecito (come si legge nel Gorgia di Platone) che l'amico accusi l'amico, o il parente il parente, e procurino nel giudizio che la pena sia medicina del vizio e de la malvagità; ma peraventura questa fu troppo severa filosofia, né si poteva vivere con queste leggi o con questa usanza in altra republica che in quella di Platone. Ne l'altre si biasma la mala elezione del poeta e si scusa la necessità de l'oratore, anzi si loda l'ingegno: parlo nondimeno di quelli oratori che ragionano davanti il tribunale di giudici: perché gli altri che vivono lontano da lo strepito del palazzo possono eleggere l'argomento, e meritano molta lode per la buona elezione, come meritò Isocrate da Dionigi d'Alicarnasso, scrittore de la sua vita e giudice de' suoi scritti. Anzi Isocrate medesimo in quell'orazione de la Permutazione de' beni, ne la quale si difende da l'opposizione fattagli da gli accusatori, niuna più certa ragione adduce che la bontà de le sue orazioni; e ne la lode d'Elena lasciò scritte queste parole, o somiglianti: «Qual uomo di sana mente delibera di lodar la calamità? ma si conosce agevolmente che molti per infirmità de l'ingegno rifuggano a questi argumenti». E poco appresso: «A niuno mai, chi volesse lodar l'ape o il sale o l'altre cose di questa sorte, mancaranno le parole». Molti luoghi, oltre questi, si potrebbono recare e da questa orazione e dal panegirico e da l'altre, ne' quali disprezza la viltà e la bassezza de' soggetti, ed ogni artificio che vi possa esser usato. Lodò nondimeno Elena prima lodata da Gorgia e Busiride comendato o difeso da Policrate, benché la lode di Busiride sia fatta per altrui ammaestramento e con scusa di se medesimo, e conchiuda che' mali argumenti non debbono trattenerci in modo alcuno, come quelli che porgono grande occasione a' calunniatori de' buoni studi. Virgilio nel quarto de la Georgica, quasi egli fosse di contraria opinione, prende l'api per soggetto non solamente d'ammaestramento, ma di lode, e chiama Busiride illaudato in quei versi:

. . . Quis aut Eurysthea durum, aut illaudati nescit Busiridis aras?

o perché egli non avesse letto Isocrate, o più tosto perché non lodava Isocrate di quella falsa laude, chiamando Busiride illaudato, quasi illaudabile e indegno di laude. E peraventura Virgilio stimò vera quella opinione d'Isocrate, il quale, come racconta Plutarco ne la sua Vita, dimandato quel che fosse la retorica, rispose ch'era officio del retore il far le cose grandi picciole, e le picciole grandi. Ma se ciò fosse vero, sarebbe similmente officio del medesimo il far le cose degne indegne, e l'indegne degne, l'illustri e l'oscure illustri, le compassionevoli degne di riso, e le ridicole meritevoli di pietà, e il toglier la maraviglia a le meravigliose, e la verisimilitudine a le vere, aggiungendola a le cose contrarie con l'eccelenza del suo artificio, col quale può superare la difficultà de la materia e la natura intessa. Tuttavolta la cosa sta altrimenti: perché Isocrate, mutando opinione, s'ebbe mai quella che da Plutarco gli fu attribuita, disse: «È agevol molto il superare le cose picciole con l'orazioni, ma parlando aguagliar le grandi è malagevolissimo; e de' fatti gloriosi è difficil dire quello che non si è detto prima; ma de le cose basse e di piccol' estima ciò che si dice a caso, è proprio». In molti altri luoghi manifestò la medesima opinione, ne la quale fu seguito da' migliori e più giudiziosi maestri de l'eloquenza. Laonde non è dubbio che l'eccelentissime forme s'introducono meglio ne la materia che sia atta a riceverle. Onde presupponiamo che col medesimo artificio e con l'istessa eloquenza altri voglia mover compassione da Edippo che per semplice ignoranza uccise il padre; altri da Medea, la qual, conoscendo la sua sceleraggine, lacerò li figliuoli; molto più sarà compassionevole la favola tessuta de gli accidenti d'Edippo che l'altra composta del fiero proponimento di Medea: quella infiammerà gli animi di pietà; questa a pena potrà intepidirli, ancor che l'artificio usato ne l'una e ne l'altra fosse non solo simile, ma eguale. Similmente la medesima forma del sigillo molto meglio fa sue operazioni ne la cera ch'in altra materia più liquida o più densa; e più sarà in pregio una statua di marmo o d'oro ch'una di legno o di pietra men nobile, benché in ambedue si lodasse parimente l'industria di Prassitele o di Fidia. Queste cose ho dette acciò che si conosca quanto importi nel poema l'eleggere più tosto una che un'altra materia. Or debbiam considerare in qual luogo ella debba ricercarsi: il che appertiene in qualche modo a l'invenzione. La materia, che può chiamarsi ancora argomento, in questi tempi ne' quali sono scritte le cose degne di memoria, o si finge, e allora pare che il poeta abbia gran parte non solo ne la scelta, ma nel ritrovamento, o si prende da l'istorie. Ma ne gli antichissimi tempi, prima che fosse Omero, il quale non fu tra gli scrittori del primo secolo, ma tra quelli del secondo o del terzo, i poeti peraventura non avevano il soggetto da l'istoria, avenga che l'istoria non sia più antica de la poesia, ma più nuova; ma i poeti o seguivano le relazioni di coloro che erano stati presenti a' fatti medesimi, o la fama e l'opinione. Omero nondimeno, il quale fu dopo Lino e dopo Orfeo e dopo Museo e dopo Olimpo e dopo molt'altri, fu ancora inferiore d'età ad Orebanzio Trexenio e a Darete Frigio, il quale fece istoria de la guerra di Troia, come scrive Eliano. Gli altri ch'hanno seguìto Omero e imitatolo, tutti fondarono il poema sovra l'istorie, perché non si può fare quasi altrimenti, essendo sinora scritte tutte l'azioni memorevoli: laonde quelle che non sono scritte non paiono degne di memoria. Molto meglio dunque è, per mio giudizio, che l'argomento sia prestato da l'istoria, che non sarebbe se egli in tutto si fingesse: però Sinesio nel suo libro De' sogni lasciò scritto che Alceo ed Archelao furono degni che la posterità conservasse memoria di tutto ciò che lor piaceva o dispiaceva, non avendo essi voluto spender vane parole ne gli argomenti finti; e loda Omero e Stesicoro, ch'avevano fatto più illustre co' lor poemi la progenie de gli eroi; biasima a l'incontro i savi del suo tempo, i quali vanamente s'erano occupati ne' falsi argomenti. E di questa opinione tra gli altri fu Macrobio nel Sogno di Scipione, nel quale, distinguendo le favole, dice che in alcune di loro il poeta vuoi solo piacere a gli orecchi e fa quasi professione di falsità e di bugia: quali sono quelle di Menandro e de' suoi imitatori e gli scherzi d'Apuleio; e queste vuole che la sapienza scacci dal suo tempio ne le cune de le nutrici. Ma di quelle ch'hanno qualche forma di virtù si fa la seconda distinzione: in alcune l'argomento è finto, come ne le favole d'Esopo; in altre è fondato ne la sodezza del vero, e questo è molto acconcio a la filosofia, ove la verità, la quale è mescolata con alcune cose finte e composte da l'artificio del poeta, non sia nascosa sotto un manto quasi contrario di sozze invenzioni e di brutte parole, ma dentro un pio velame di cose oneste e di nomi splendidi ed illustri. Questa distinzione di Macrobio peraventura, la quale scaccia le comedie o le favole d'Apuleio ne la cuna de le nutrici..., però che le favole sì fatte deono esser lette da' giudiziosi e da gli attempati anzi che no; a' fanciulli, come vuoi Platone nel terzo de le sue Leggi, deono più tosto da le nutrici esser cantate le lodi de gli dii e de gli eroi. Ma oltre l'autorità si potrebbono adducere molte ragioni, per le quali al poeta eroico si conviene fare il suo fondamento nel vero; e prima, dovendo l'epico cercare in molte parti il verisimile, non è verisimile che un'azione illustre, come sono quelle da lui trattate, non sia scritta e passata a la memoria de' posteri con la penna d'alcuno istorico; e i grandi e fortunosi avvenimenti non possono esser incogniti; e ove non siano recati in scrittura, da questo solo argumentano gli uomini la loro falsità; e falsi stimandoli, non consentono di leggieri a le cose scritte, per le quali or sono mossi ad ira, ora a pietà, ora a timore, or contristati, or pieni di vana allegrezza, or sospesi, or rapiti, ed in somma non attendono con quell'espettazione il successo de le cose, come farebbono se l'estimassero vere in tutto o in parte: perché, dove manca la fede, non può abbondare l'affetto o il piacere di quel che si legge o s'ascolta; ma dovendo il poeta con la sembianza de la verità ingannare il lettore, suol dilettarlo co la varietà de le menzogne, come dice Pindaro ne la prima ode de l'Olimpiache:

e thaumata polla.
kai pou ti kai broton phrena,
huper ton alethe logon,
dedaidalmenoi pseudesi poikilois
exapatonti muthoi.

Imperò che il diletto de la bugia, variando l'aspetto de la verità, e co' suoi colori quasi dipingendolo, suole ingannare più agevolmente. Cerca nondimeno il poeta di persuadere che le cose da lui trattate siano degne di fede e d'autorità, e si sforza di guadagnarsi ne gli animi questa opinione e questa credenza con l'autorità de l'istoria e con la fama de' nomi illustri, e d'acquistarsi benevolenza con la lode de la virtù e de gli uomini valorosi, avvenga che sia pericoloso l'essere odiato, come dice Platone: parlo di quelli che imitano le azioni illustri, quali sono il tragico e l'epico; e ciò si potrebbe confermare con l'autorità d'Aristotele, perché se i poeti sono imitatori, conviene che siano imitatori del vero, perché il falso non è; e quel che non è, non si può imitare: però quelli che scrivono cose in tutto false, se non sono imitatori, non sono poeti, ed i suoi componimenti non sono poesie, ma finzioni più tosto: laonde non meritano il nome di poeta o non tanto. Fra costoro sono i comici de la nuova comedia, nata dopo la morte d'Aristotele: perché la vecchia, la quale fiorì a' suoi tempi, introduceva ne la scena le vere persone, laonde erano in qualche modo imitazioni del vero. Si concedeva nondimeno a la vecchia comedia, o a quella che fu meno antica, il fingere i nomi, come dice Aristotele medesimo: epi men oun tes komoidias ede touto delon gegone. sustesantes gar ton muthon dia ton eikoton, houto ta tukhonta onomata epititheasi. Ma la nuova, o perché alcuna legge il condannasse, o perché rappresenti ancora le azioni vili e popolaresche, sempre suol finger le persone e l'azioni e i nomi a sua voglia; né ripugna al verisimile che de l'azioni private non s'abbia alcuna contezza fra gli uomini, ancora che sono abitatori de la medesima città. E benché leggiamo ne la Poetica d'Aristotele che le favole finte sogliono piacere per la novità loro, come fu tra gli antichi il Fior d'Agatone, e tra' moderni Toscani le favole eroiche del Boiardo e de l'Ariosto e le tragedie d'alcuni più moderni, non debbiamo però lasciarci persuadere che favola alcuna finta sia degna di maggior lode: perché già si è conchiuso il contrario per molte ragioni, e oltre a tutte l'altre n'adduciamo due, l'una d'Aristotele medesimo: perciò che quelle cose sono credibili che si possono fare; ma quelle che non è chiaro che siano fatte, sono credute poco possibili; e l'ultima è quasi frutto del seme istesso: nata, dico, da la sua dottrina, che la novità del poema non consista principalmente ne la falsità del soggetto non udito, ma nel bel nodo e ne lo scioglimento de la favola. Fu l'argumento di Tieste, di Medea, di Edippo da vari antichi trattato ne la lingua greca e ne la latina; ma tessendolo diversamente, il facevan di comun proprio e di vecchio nuovo. Però molto s'inganna il Robertello in assegnar al poema per materia il falso, avenga che il falso, per giudizio di Platone e d'Aristotele, sia la materia del sofista, il quale s'affatica intorno a quel che non è; ma il poeta si fonda sovra qualche azion vera e la considera come verisimile, onde la sua materia è il verisimile che può esser vero e falso; ma suole esser più tosto vero, non essendo ragionevole in modo alcuno che il verisimile sia più tosto falso, dal quale è molto dissimile: perciò che ove è dissimilitudine, non può essere identità, per così dire; ma le cose somiglianti possono esser l'istesse, se non ne la sostanza, almeno ne la qualità. Dunque poco meno errò monsignor Alessandro Piccolomini, volendo che il soggetto del poema sia più tosto il falso che il vero. Ed in questo medesimo errore, s'io non m'inganno, è il signor Iacomo Mazzone, de le cui opere ho appena veduto alcuna parte, ma da poi ch'io ebbi scritte le cose antecedenti ed alcune de le seguenti in questo libro, e gli altri libri che seguono, tal ch'io sono stato costretto d'aggiungerne alcune altre per confermar la mia opinione. Scrive il Mazzone, ne l'introduzione de la Difesa di Dante, che l'imitazione è di due maniere, l'una icastica, l'altra fantastica, seguendo in ciò la dottrina insegnataci da Platone nel Sofista; e chiama icastica quella ch'imita le cose che si trovano o si sono trovate, fantastica l'altra specie ch'è imitatrice de le cose che non sono; e questa vuol sia la perfetta poesia, la qual ripone sotto la facoltà sofistica di cui è soggetto il falso e quel che non è; ma per consolare i poeti, e me con gli altri, a cui fa più d'aiuto e di consolazione mestieri, fa due o tre specie d'arte sofistica, e ripone la poesia sotto la prima specie ch'è la più antica; e questa, s'io non m'inganno, è quella medesima ch'è in tanti luoghi rifiutata da Socrate e da Platone. Però io non posso concedere né che la poesia si metta sotto l'arte de' sofisti, né che la perfettissima specie di poesia sia la fantastica. Quantunque io gli concedessi che la poesia fosse facitrice de gl'idoli, come la sofistica, e non solamente de gl'idoli, ma de gli iddii (poi che a la sovrana lode de' poeti si conviene il deificare ed il riporre i principi giusti e valorosi nel numero de gl'immortali, ed a gl'immortali secoli consecrar la lor memoria), non gli concederei nondimeno che fosse la medesima l'arte de' sofisti e quella de' poeti. Dico adunque che senza dubio la poesia è collocata in ordine sotto la dialettica insieme con la retorica, la qual, come dice Aristotele, è l'altro rampollo de la dialettica facultà a cui s'appartiene di considerare non il falso, ma il probabile: laonde tratta del falso, non in quanto egli è falso, ma in quanto è probabile; ma il probabile, in quanto egli è verisimile, appertiene al poeta, perciò che il poeta usa le prove men efficacemente che non fa il dialettico; anzi l'imitazione e l'esempio e la comparazione sono debolissime maniere di prove, come c'insegna Boezio ne la sua Topica; ma 'l sofista, per giudizio d'Aristotele, pur ne' libri de la sua Topica, non considera il probabile, ma il probabile apparente, cioè quello che non è veramente probabile, ma par ad alcuni probabile; del quale Alessandro Afrodiseo ne' suoi Comenti adduce alcuni esempi. È dunque il sofista in ciò differente non solamente dal dialettico, ma dal poeta ancora, perciò che quello che per sé è probabile, quello è verisimile. E perché 'l poeta, come ancora il dialettico, è diverso dal sofista più tosto per elezione che per facoltà, quinci aviene che 'l buon poeta si dee affaticare più volentieri di ciascuno altro intorno a' soggetti per sé probabili, come fece Omero, il qual ne la persona d'Ettore volle dimostrarci che lodevolissima cosa sia il difender la patria, ed in quella d'Achille che sia lodevolissima la vendetta, e da magnanimo, e per conseguenza giusta e favoreggiata da gli dei. Le quali opinioni, essendo senza fallo per sé probabili, son verisimili; e per l'artificio d'Omero divennero probabilissime o provatissime e similissime al vero. O direi che la poesia non fosse compresa sotto la dialettica, ma sotto la logica più tosto, la qual contiene tre parti, la dimostrativa, la probabile e l'apparente probabile, ch'è la sofistica: però che 'l poeta in alcune cose dimostra, come fece Parmenide ed Empedocle tra gli antichi Greci, Lucrezio e Boezio fra' Latini, Dante fra' Toscani; in alcune altre sillogizza probabilmente: il che fa più spesso, perché in questa parte s'impiega propiamente il suo officio; in alcune usa il paralogismo: il che fa più di rado. E se ciò è vero, la latitudine de la poesia è quanto quella de la logica, ed ha tre parti subordinate e corrispondenti a le tre superiori de la logica: alcune volte dimostrando co' filosofi e usando il filosofema; altre seguendo il verisimile e servendosi de l'esempio e de l'entimema, come fecero Omero e Virgilio; e altre volte, come il sofista, s'appiglia a l'apparente probabile; e con l'equivoco e con l'altre maniere de' fallaci argomenti, i quali consistono ne le parole e ne le cose, prende gli auditori del suo piacere; e questo sofistico artificio fu usato da' poeti toscani ne l'amorose poesie più che da alcuno altro, e forse da molti non se n'avedendo. Nondimeno la perfettissima imitazione, o la propriissima specie de la poesia, non si ripone sotto la sofistica, o nuova o antica ch'ella sia, ma sotto la dialettica. Molto meno è vero quel che dice il Mazzone, che la perfettissima poesia è la fantastica imitazione: perché sì fatta imitazione è de le cose che non sono e non furono già mai; ma la perfettissima poesia imita le cose che sono, che furono o che possono essere: come fu la guerra di Troia, e l'ira d'Achille, e la pietà d'Enea, e le battaglie fra Troiani e Latini, e l'altre che furono o possono essersi fatte. Ma i Centauri, l'Arpie e i Ciclopi non sono adeguato o principal subietto de la poesia, né i cavalli volanti e gli altri mostri de' quali son piene le favole de' romanzi. Ma perché il poeta, per sentenza d'Aristotele, imita le cose, o com'elle sono, o come possibili, o come è fama ch'elle siano, e come son credute, il principale soggetto del poeta è quel ch'è, o quel che può essere, o quel che si crede, o quel che si narra; o tutte queste cose insieme, come piacque ad Aristotele, potendo essere imitate dal poeta, sono il soggetto adeguato de la poesia sotto questa consecuzione di verisimile. Non è dunque un solo di questi membri il soggetto adeguato de la poesia, come stima il Mazzone, né quella ragione dimostra: «la poesia è facitrice de gl'idoli, la sofistica è facitrice de gl'idoli, adunque la poesia è sofistica»: non solo perché ne la seconda figura del sillogismo le due affirmative proposizioni sono viziose, ma ancora perché il nome de gl'idoli riceve alcuna distinzione e, secondo che egli è variamente definito, cosi appertiene al poeta o al sofista il formar gl'idoli. Definì Favorino gl'idoli (come riferisce l'istesso Mazzone) una similitudine ombrosa ed una cosa finta che veramente non è: una forma che non ha sussistenza, come le forme che appaiono ne l'acque e ne gli specchi; e deriva dal verbo eido che vuol dire appaio e rassomiglio. Ma gl'idoli, come gli definisce Suida, sono effigie di cose non sussistenti, quali sono i Tritoni e le Sfingi e i Centauri; e le similitudini sono imagini di cose sussistenti, come di fiere e d'uomini. Esichio, dichiarando con altra voce i sentimenti del nome idolo, disse: idolo è imagine e similitudine e segno, quasi egli sia de le cose che sono e di quelle che non sono: come parve ancora ad Ammonio e a Platone medesimo. Quando diciamo adunque: il sofista è facitor de gl'idoli, intendiamo de gl'idoli che sono imagini di cose non sussistenti, perché 'l subietto del sofista è quel che non è; ed in questa significazione disse S. Paolo: «Idolum nihil est». Ma quando affermiamo che 'l poeta sia facitor de gl'idoli, non intendiamo solamente de gl'idoli de le cose non sussistenti, perché il poeta imita ancora le sussistenti, e principalmente le rassomiglia. Laonde quantunque il poeta sia facitor de gl'idoli, ciò non si dee intendere ne l'istesso significato nel qual si dice che il sofista è fabro de gl'idoli; ma dobbiam dir più tosto che sia facitare de l'imagini a guisa d'un parlante pittore, ed in ciò simile al divino teologo che forma l'imagini e comanda che si facciano; e se la dialettica e la metafisica, la qual' era la divina filosofia de' gentili, hanno tanta conformità che furono da gli antichi stimate l'istessa, non è maraviglia che 'l poeta sia quasi il medesimo che è il teologo e il dialettico. Ma la divina filosofia, o la teologia che vogliam dirla, ha due parti, e ciascuna di loro è convenevole e propria ad una parte de l'animo nostro composto del partibile e de l'impartibile, non solo per sentenzia di Platone e d'Aristotele, ma de l'Areopagita, il quale scrisse ne l'epistole a Tito pontefice, ne la Mistica teologia e altrove, che quella parte de la più occulta teologia, la quale è contenuta ne' segni ed ha virtù di far perfetto, si conviene a la parte de l'animo nostro indivisibile. che è il simplicissimo intelletto. L'altra, studiosa di sapienza, la qual dimostra, attribuisce a la parte de l'animo divisibile, molto men nobile de l'indivisibile. Laonde il conducere a la contemplazione de le cose divine e il destare in questa guisa con l'imagini, come fa il teologo mistico ed il poeta, è molto più nobile operazione che l'ammaestrar con le demostrazioni, com'e officio del teologo scolastico. Il teologo mistico adunque e il poeta sono oltre tutti gli altri nobilissimi, quantunque san Tomaso nella prima parte de la Somma riponesse la poesia ne l'infimo genere de la dottrina; ma egl'intese di quella parte de la poesia ch'insegna con prove assai deboli, quali sono gli esempi e le comparazioni usate per dimostrare; tuttavolta non la collocò sotto l'arte de' sofisti, che non è dottrina, ma inganno d'apparenzia e arte simile a quella de' prestigiatori. Dunque il poeta facitor de l'imagini non e fantastico imitatore, come parve al Mazzone e dopo di lui a don Gregorio Comanino, canonico regolare, benché l'uno sia fornito di gran dottrina, e l'altro di grande eloquenza, anzi ambedue dotati d'ambedue, e miei amici parimente. Ma se l'imagini sono di cose sussistenti, questa imitazione appertiene a l'icastico imitatore. Ma quali cose direm noi che siano le sussistenti? le intelligibili o le visibili? Le intelligibili veramente, e per giudicio ancora di Platone, il quale ripose le cose visibili nel genere del non ente, e solamente le intelligibili pose nel genere de gli enti. Dunque l'imagini de gli angeli, descritte da Dionigi, sono di cose più di tutte l'umane sussistenti; e il leone alato ancora, e l'aquila e 'l bue e l'angelo, che sono imagini de gli Evangelisti, non appartengono dunque a la fantasia principalmente, né sono suo proprio obietto, perché la fantasia è ne la parte divisibile de l'animo, non ne l'indivisibile, la quale è simplicissimo intelletto: se pure, oltre la fantasia che è virtù de l'anima sensitiva, non se ne trovasse un'altra che fosse virtù de l'intellettiva: il che pare assai convenevole, perché la fantasia tra' Greci fu così detta dal lume (e ciò si legge nel libro De placitis philosophorum scritto da Plutarco), sì come quella potenza la quale è simile al lume ne l'illustrar le cose e nel dimostrar se medesima; e ciò si conviene più tosto a la fantasia intellettuale; ma questa, quantunque sia posta da' nostri teologi che concedono la memoria intellettiva e da' platonici filosofi, non fu conosciuta o non fu conceduta da Aristotele, né da Platone nel Sofista: altrimenti egli non distinguerebbe l'icastica imitazione da la fantastica, potendo l'icastica convenire ancora a la imaginazione intellettuale; e di lei intese peraventura Dante quando egli disse:

A l'alta fantasia mancò qui possa;

e altrove:

Poi piovve dentro a l'alta fantasia
un crocifisso dispettoso e fiero.

È dunque il poeta, benché sia facitore de l'imagini, più tosto simile al dialettico ed al teologo ch'al sofista: anzi non solo fra gli antichi, per aviso d'Aristotele, i poeti e i teologi furono i medesimi, come Lino, Orfeo, Museo, ma fra' moderni ancora, come scrive il Boccaccio nella Vita di Dante; e però la sua imitazione è più tosto icastica che fantastica; e se pur fu operazione de la fantasia, intendasi d'una imaginazione intellettuale; ma questa non si può contradistinguere da l'icastica. Con un'altra ragione possiam provare che 'l soggetto del poeta sia più tosto il vero che 'l falso: la quale è derivata da la dottrina di san Tomaso ne la Somma ed in altre opere sue. Dice egli che 'l bene e 'l vero e l'uno si convertono, e che 'l vero è bene de l'intelletto: oltre a ciò vuole che 'l male non sia natura. Laonde non essendo in qualche natura, è fondato in qualche bene o in qualche cosa buona, perché non si trova alcuna cosa rea e mala del tutto. In questa medesima guisa ogni moltitudine è fondata sovra l'unità, né ci e alcuna moltitudine che non partecipi de l'unità; ed ogni falsità si fonda su la verità: però quel ch'e in tutto falso, non può esser subietto de la poesia, anzi non è. Esiodo, antichissimo poeta greco, ne la Geneologia de gli dei, scrisse che le Muse sanno dir molte bugie simili a la verità, e sanno, se vogliono, dir il vero; ma assolutamente le chiama figliuole di Giove, e veridiche, come si legge in quei versi:

Poimenes agrauloi, kak'elegkhea, gasteres oion,
idmen pseudea polla legein etumoisin homoia.
idmen d'eut'ethelomen alethea muthesasthai.
hos ephasan kourai megalou Dios artiepeiai.

Laonde io concluderei che questa fosse un'arte o ver facoltà di dire il vero ed il falso; ma 'l vero principalmente. Tra gli scrittori sacri, Atanasio non ha diversa opinione da quella ch'io stimo migliore, però ch'egli, scrivendo contro i gentili, i quali estimavano che fosse proprio del poeta il finger quel che non è, dimostra il contrario, e il prova con l'esempio de' poeti, i quali dissero le bugie, ma più de gli dii che de gli uomini, perché, scrivendo de le umane azioni, non furono in tutto bugiardi; e adduce l'autorità di Omero medesima, il quale, se di tutte le cose avesse scritto il falso, avrebbe attribuita ad Achille la timidità, e la fortezza a Tersite. Dunque il poeta in qualche parte è amico de la verità, la quale illustra e abbellisce di nuovi colori, e si può dire che, di vecchia e d'antica, la faccia nuova. E nuovo sarà il poema in cui nuova sarà la testura de' nodi, nuove le soluzioni, nuovi gli episodi che per entro vi sono traposti, quantunque la materia fosse notissima e da gli altri prima trattata: perché la novità del poema si considera più tosto a la forma che a la materia. A l'incontro non potrà dirsi nuovo quel poema in cui finti siano i nomi e le persone, là dove il poeta faccia il nodo e lo scioglimento fatto da gli altri; e tale è peraventura alcuna moderna tragedia, a cui manca l'autorità che porta seco l'istoria, e la fama e la novità de la finzione. E s'io non sono errato, è soggetta a questa opposizione l'Avarchide, poema epico de l'Alamanno, perché, quantunque la favola non sia nota, e quell'istessa de l' Iliade d'Omero; laonde non merita gran lode ne l'invenzione, e resta ancora privata di quella autorità che suol essere ne l'istorie o ne la fama; non se ne vede nondimeno alcun'altra meglio tessuta e, per mio giudizio, è la più perfetta che si legga in questa lingua.

Comunque sia, l'argumento de l'eccelentissimo epico dee fondarsi ne l'istorie. Ma l'istoria o è di falsa religione o di vera; né giudico che l'azioni de' gentili ci diano soggetto altissimo del quale si formi il poema epico, perché ne' poemi sì fatti o vogliamo ricorrere a le deità che da' gentili erano adorate, o non vogliamo: se non vi ricorriamo, manca il maraviglioso; se ci rivolgiamo a quelle medesime che furono invocate da gli antichi, in quella parte è privo del verisimile e del credibile, o non l'ha per virtù de la favola e de l'imitazione, ma del verso e de gli altri ornamenti: perché, come dice Pindaro ne l'istesso luogo,

kharis d'haper hapanta teu khei ta meilia thnatois,
epipheroisa timan,
kai apiston emesato piston
emmenai to pollakis.

Ma, s'io non m'inganno, Pindaro intende di quella grazia e di quella venustà de' poeti, de la quale intese ancora Isocrate ne l'Evagora, e Aristide, dopo lui, lodando la retorica: di quella, dico, che s'acquista con le misure del verso e co' numeri e che, dissolvendosi co' medesimi, si perderebbe. Noi cerchiamo una persuasione e una forza che ne la prosa faccia ancora il medesimo effetto e diletti similmente come, per mio aviso, dilettarebbono quelle maraviglie che muovono non solamente gli animi de gl'ignoranti, ma de' giudiziosi ancora: parlo de gli anelli incantati, de' corsieri volanti, de le navi converse in ninfe, e di quelle larve che s'interpongono ne la battaglia, de l'ardente spada, de la ghirlanda de' fiori, de la camera difesa, de l'arco de' leali amanti, e d'altre invenzioni che piacciono ancora ne la prosa, e si leggono volentieri e si rileggono senza la grazia del verso. Ma se questi miracoli, o prodigi più tosto, non possono esser fatti da virtù naturale, è necessario che la cagione sia qualche virtù sopranaturale o qualche potenza diabolica; e rivolgendoci a la deità de' gentili, cessa in gran parte il verisimile, o il probabile o il credibile che vogliamo dir più tosto, se pur sono il medesimo nel subietto: perché non è l'istesso, per giudizio d'Aristotele nel primo de la Topica, il probabile e quello che pare probabile; anzi niuna di quelle cose che paiono probabili a prima vista ed estrinsecamente, è in tutto probabile. Veramente probabile, per opinione d'Alessandro suo comentatore, è che gli dii possano tutte le cose; m non è vero, e s'ingannò Alessandro, se egli intese de' falsi dei che furono adorati da la Grecia. Oltre a ciò, il medesimo Aristotele c'insegna ne l'ottavo de la Topica che non è il medesimo quel che in tutto è probabile e quel che è probabile ad alcuno solamente. Non è probabile in tutto che gl'idoli abbino tanta potenza; ma fu probabile a que' miseri, i quali, come dice Atanasio, non adoravano l'artefice, ma l'artificio; non lo scoltore, ma la statua. Non è probabile semplicemente quel che fu probabile al gentile; né quel che al gentile pareva verisimile, par verisimile a ciascuno: non è verisimile, non è credibile al cristiano quel che è creduto da l'idolatra; e se credibile, come dice Aristotele ne la Poetica, è quello che si può fare; quello che non si può fare non è credibile; e parimente non è credibile che da loro sia fatto quello che da loro non può esser fatto già mai. Quanto dunque il maraviglioso che portano seco i Giovi e gli Apollini sia scompagnato da ogni probabilità, da ogni verisimilitudine, da ogni credenza, da ogni grazia e da ogni autorità, ciascuno di mediocre giudizio se ne potrà facilmente avedere, leggendo i moderni scrittori; ma ne' poeti antichi queste cose deono esser lette con altra considerazione e quasi con altro gusto, non solo come ricevute dal volgo, ma come approvate da quella religione, qualunque ella fosse. Laonde senza alcuna ragione il Robertello biasma la bellissima favola e la dottissima allegoria del ramo d'oro, ma la vitupera come cosa impossibile; e se quello ch'è impossibile per natura fosse impossibile ancora a gli dii, come volle Alessandro, buona sarebbe l'opinione del Robertello; ma se a gli dei niuna cosa è impossibile, non dee questa maraviglia essere riputata più impossibile de l'altre, né merita maggior riprensione del vello d'oro o de' pomi d'oro, de' quali si favoleggia in tante poesie con tanta lode de' favoleggiatori e con tanto diletto de' lettori. Però che queste cose ancora da' fisici sarebbono riputate impossibili; ma a' teologi de' gentili non parvero tali: essi diedero a' poeti questo ardire e questa licenza di fingere; anzi i teologi e i poeti antichi furono i medesimi, come dice Aristotele ne la sua Metafisica, la quale non considerò molto il Robertello, perché ivi averebbe letto quel che i teologi scrivessero de l'ambrosia e de l'altre cose riprese da lui, le quali egli non riprende come cristiano teologo, a cui solo questo officio si converrebbe, ma come critico de' gentili poeti: potea parimente ricercare nel Filebo di Platone e ne gli altri suoi dialoghi, e ne' commenti del Ficino, la buona interpretazione de le cose non bene intese. Non merita maggior biasimo la conversione de le navi: perché se Iddio può creare ex non entibus, vel ex non existentibus, come dicono i teologi, molto più agevolmente potrà ciò fare ex praeexistenti materia. Concedasi dunque a Virgilio l'aver attribuito a quel suo Giove, che era il maggior dio ch'avessero i gentili, questa meravigliosa potenza del trasmutare la materia d'una in un'altra forma. Concederei ancora che fosse probabile a' nostri poeti che molte cose meravigliose e prodigiose fossero fatte con arte diabolica, perché tutti gl'idoli de le genti sono diavoli; ma non si dee concedere loro quella potenza ch'era attribuita a' medesimi da' gentili, da' quali furono adorati come dii e come benefattori. Replicherò in questo luogo quel che altre volte ho detto, cioè che l'eccelentissimo poema è proprio solamente de la eccelentissima forma di governo. Questa è il regno; ma il regno non può esser ottimamente governato con falsa religione. Conviene adunque a l'ottimo regno la vera religione; ed ove sia falsa pietà e falso culto d'Iddio, non può essere alcuna perfezione nel principe o nel principato. Però i poemi ancora partecipano de l'istessa imperfezione; ma il difetto non è de l'arte poetica, ma de la politica, non del poeta, ma de' legislatori. Conchiudiamo dunque che non si debba lodare alcun poema soverchiamente prodigioso, acciò che i magi e i negromanti siano introdutti con qualche verisimilitudine nel poema. Ma nel suo luogo sarà considerato quel che sia to dunaton che ricerca Aristotele nel kata to eikos, vel kata to anagkaion, perché io non intendo il necessario, come intende il Robertello.

Ma ora seguiamo il nostro proposito, come il verisimile possa esser congiunto co 'l maraviglioso senza la grazia ancora e senza la venustà de' versi, che sono quasi lusinghe da persuadere a gli orecchi. Diversissime sono, illustrissimo signore, queste due nature, il meraviglioso e 'l verisimile, e in guisa diverse che sono quasi contrarie fra loro: nondimeno l'una e l'altra nel poema è necessaria; ma fa mestieri che arte di eccelente poeta sia quella ch'insieme le accoppii: il che se ben è stato sin ora fatto da molti, niuno è (che io mi sappia) il quale insegni come si faccia; anzi alcuni uomini di somma dottrina, veggendo la ripugnanza di queste due nature, hanno giudicato quella parte ch'è verisimile ne' poemi non essere meravigliosa; né quella ch'e meravigliosa, verisimile, ma che nondimeno, essendo ambedue necessarie, si debba or seguire il verisimile, ora il meraviglioso, di maniera che l'una a l'altra non ceda, ma l'una da l'altra sia temperata. Ma io questa opinione non approvo; né stimo che parte alcuna debba nel poema ritrovarsi che non sia verisimile; e la ragione che mi muove a così credere, è tale. La poesia non è altro che imitazione; e questo non si può chiamare in dubbio; e l'imitazione non può essere discompagnata dal verisimile, perché l'imitare non è altro che il rassomigliare. Non può dunque parte alcuna di poesia esser separata dal verisimile: ed in somma il verisimile non è una di quelle condizioni richieste ne la poesia per maggior sua bellezza ed ornamento, ma è propria ed intrinseca de l'essenza sua, ed in ogni sua parte sovra ogn'altra cosa necessaria. Ma benché io stringa il poeta epico ad un obligo perpetuo di servare il verisimile, non però escludo da lui l'altra parte, cioè il meraviglioso: anzi giudico che un'azione medesima possa essere e maravigliosa e verisimile; e molti credo che siano i modi di congiungere insieme queste qualità cosi discordanti; e rimettendo gli altri a quella parte ove de la testura de la favola si tratterà, la quale è lor proprio luogo, qui parleremo di quello che più si conviene. Attribuisca il poeta alcune operazioni che di gran lunga eccedono il potere de gli uomini a Dio, a gli angioli suoi, a' demoni, o a coloro a' quali da Dio o da' demoni è conceduta potestà, quali sono i santi, i magi e le fate. Queste opere, se per se stesse saranno considerate, meravigliose parranno: anzi miracoli sono chiamati nel comune uso di parlare. Queste medesime, se si averà riguardo a la virtù ed a la potenza di chi l'ha operate, verisimili saranno giudicate: perché avendo gli uomini nostri bevuta ne le fasce insieme col latte questa opinione, ed essendo poi in loro confermata da i maestri de la nostra santa fede, cioè che Dio ed i suoi ministri, e i demoni e i magi, permettendolo lui, possano far cose sovra le forze de la natura meravigliose; e leggendo e sentendo ogni dì ricordarne nuovi esempi, non parrà loro fuori del verisimile quello che credono non solo esser possibile, ma stimano spesse fiate esser avenuto e poter di nuovo molte volte avenire: sì come anco a quegli antichi che vivevano ne gli errori de la lor vana religione, non deveano parer impossibili que' miracoli che de' lor dei favoleggiavano non solo i poeti, ma l'istorie, perché, se pur gli uomini scienziati vi prestavano picciola credenza, basta al poeta in questo, com'in molte altre cose, la opinion de la moltitudine, a la quale, molte volte lasciando l'esatta verità de le cose, e suole e dee attenersi. Può esser dunque una medesima azione e maravigliosa e verisimile: maravigliosa, riguardandola in se stessa e circonscritta dentro ai termini naturali; verisimile, considerandola divisa da questi termini ne la sua cagione, la quale è una virtù sopranaturale, possente ed usata a far simili maraviglie. Ma di questo modo di congiungere il verisimile col maraviglioso privi sono que' poemi ne' quali s'introducono le deità de' gentili, come l'Ercole del Geraldo e 'l Constante del Bolognetto: né senza molta sconvenevolezza, mi pare, introducea il Bolognetto Giove, iddio de le genti, a predire, come amico e benevolo, la grandezza de' pontefici romani, perché prediceva per conseguenza la destruzione de gl'idoli suoi e de' tempii e de gli altari e de' molti sacrificii; e, quel che è peggio, la predizione è fatta a Venere, non s'accorgendo il poeta che niun aspetto e niuna congiunzione di Giove con Venere, niuna genealogia de gli dei, niuna favola, niuna istoria faceva tolerabili queste cose nel suo poema: le quali in Virgilio sono maravigliose per l'opinione avuta da' Romani d'esser discesi da Enea figliuolo di Venere e d'Anchise, e particolarmente da Giulio Cesare e da la gente Iulia, de la quale Iulo figliuolo di Enea era stato progenitore. Per tutte queste cagioni, le poesie di Virgilio son degne di tanta laude, quanta può darsi a poeta di quella età ne la quale egli scrisse. Oltre a ciò, chi vuoi formare l'idea d'un perfetto cavaliere, non so per qual cagione gli nieghi questa lode di pietà e di religione. Laonde proporrei di gran lunga la persona di Carlo e d'Artù a quella di Teseo e di Giasone. Ultimamente, dovendo il poeta aver molto riguardo al giovamento, molto meglio accenderà l'animo de' nostri cavalieri con l'esempio de' fideli che de gl'infideli, movendo sempre più l'autorità de' simili che de' non simili, e de' domestici che de gli stranieri. E se noi consideriamo il Panegirico d'Isocrate, conosceremo di leggieri la cagione per la quale la poesia d'Omero fosse tanto cara a' popoli de la Grecia ne' suoi tempi; e quest'altro non fu che la inimicizia antichissima tra' Greci e barbari, per la quale più volentieri de l'altre cose erano lette le vittorie de' Greci e cantate ne gl'inni; ma per le morti de' medesimi si fecero i lamenti e l'altre poesie sì fatte. Per queste cagioni medesime a i nostri tempi le vittorie de' fideli contro gl'infideli porgeranno gratissimo e nobilissimo argumento di poetare. Dee dunque l'argumento del poema epico esser derivato da vera istoria e da non falsa religione. Ma l'istorie e le scritture sono sacre o non sacre; e de le sacre alcune hanno maggiore, altre minore autorità. Maggior autorità hanno l'ecclesiastiche e le spirituali, se così è lecito il dire, perché tutte le cose spirituali son sacre, come parve a san Tomaso, ma non tutte le sacre spirituali; l'altre senza fallo sono meno autorevoli. Ne le istorie de la prima qualità a pena ardisca il poeta di stender la mano; ma si possono lasciare ne la pura e semplice verità, perché non si fa fatica alcuna nel trovare ed a pena par ch'il fingere ivi sia lecito; e chi non fingesse e non imitasse, obligandosi a que' particolari medesimi che ivi sono contenuti, poeta non sarebbe, ma più tosto istorico. In queste medesime istorie si può fare un'altra distinzione: perché o contengono avvenimenti de' nostri tempi, o de' tempi remotissimi, o cose non molto moderne né molto antiche. L'istoria di secolo o di nazione lontanissima pare per alcuna ragione soggetto assai conveniente al poema eroico, però che, essendo quelle cose in guisa sepolte ne l'antichità ch'a pena ne rimane debole ed oscura memoria, può il poeta mutarle e rimutarle, e narrarle come gli piace. Ma con questo commodo è un incommodo peraventura, e non picciolo, perché insieme con l'antichità de' tempi è quasi necessario che s'introduca nel poema l'antichità de' costumi; ma quella maniera di guerreggiare usata da gli antichi, i conviti, le ceremonie e l'altre usanze di quel remotissimo secolo paiono alcuna volta a' nostri uomini noiose e rincrescevoli anzi che no, come aviene ad alcuni idioti che leggono i divinissimi libri d'Omero trasportati in altra lingua. E di ciò in buona parte è cagione l'antichità de' costumi, la quale da coloro c'hanno avvezzo il gusto a la gentilezza e al decoro di questa, è schivata come cosa vieta e rancida. Ma chi volesse con l'antichità de' secoli descriver l'usanze moderne, potrebbe forsi parere simile alcuna volta a poco giudizioso pittore che ci mostrasse l'imagine di Catone o di Cincinnato vestito secondo le fogge de la gioventù milanese o napolitana; o, togliendo ad Ercole la clava e la pelle del leone, l'adornasse di sopraveste e di cimiero, come fece il Giraldo nel suo poema; ma non senza grande esempio, perché prima Esiodo avea descritte l'arme o lo scudo di Ercole quasi gareggiando con Omero, e la battaglia fatta da lui con Cigno figliuolo di Marte. Portano l'istorie moderne gran comodità e molta convenevolezza in questa parte de' costumi e de le usanze; ma togliono quasi in tutto la licenza di fingere e d'imitare, la quale è necessariissima a' poeti, particolarmente a gli epici. Oltre a ciò, per un'altra ragione par che nieghi Aristotele al poeta tragico l'argumento de le cose moderne: perché la tragedia è imitazione di uomini più eccelenti che non sono i moderni e per l'istessa ragione non deono le cose presenti o quelle che sono passate di poco tempo esser soggetto del poema eroico. Ma ne l'azioni di Carlo Quinto dee esser più tosto considerata la prima ragione, o le prime, avenga che troppo ardito parrebbe colui che volesse descriverlo altrimenti di quello che molti sanno esser avenute, o per se medesimi, o per certe relazioni de gli avi o de' padri che ne sono informati. Oltre a ciò, l'azioni di Carlo sono state così grandi e così laudevoli, anzi così maravigliose, c'hanno più tosto tolta che data a' poeti l'occasione d'accrescerle. Ma non si dee trapassare in questo luogo senza considerare quel che scrive Isocrate ne l'Evagora: «Sarebbe dunque officio de gli altri il lodar gli uomini eccelenti de la sua età, acciò che coloro, i quali possono ornar con le parole gli egregi fatti de gli antichi, dicessero il vero a gli altri i quali hanno notizia de le cose, ed incitassero i giovani con maggior emulazione de la virtù, sapendo di dover esser più lodati di quelli antichi, la cui virtù hanno superata. Ora chi non perde l'animo, veggendo coloro i quali vissero ne la guerra troiana, o avanti quel tempo, esser celebrati con divine laudi, e le cose fatte da loro messe innanzi a gli occhi per spettacolo de la tragedia, e sappia, benché avanzasse la virtù di quegl'istessi, di non dover mai essere stimato degno di laude somigliante, il che si dovrebbe imputare a l'invidia?» Ma da le cose ch'egli poi soggiunge, si raccoglie che i fatti de gli uomini presenti, o vicini a la nostra memoria, possono esser trattati da gli oratori, benché cedano in molte cose a' poeti: intendeva nondimeno, per mio aviso, de gli scrittori de' panegirici e de l'ode che solevano cantarsi, fra' quali fu Pindaro: perché, de gli epici e de' tragici parlando, manifestò la sua opinione assai chiaramente nel Panatenaico, quando egli disse che Agamennone, dopo le cose fatte da lui e l'esempio lasciato a gli altri, era defraudato de la gloria per colpa di coloro che prepongono i portenti a' benefizi e la bugia a la verità; e, per mio aviso, intende Isocrate de le cose mirabili fatte da Achille con molto favor di Giove e con poca riputazione d'Agamennone, divenuto supplichevole ad un giovane adirato. Si può a queste cose aggiungere l'autorità d'Aristotele ne' Problemi, e la ragione che egli adduce perché ci piaccia più la narrazione de le cose non troppo nuove, né troppo vecchie: la quale è questa, che noi diffidiamo de le cose troppo lontane, ma non possiamo aver diletto di quelle, ne le quali non abbiamo fede; ma l'altre che sono troppo nuove pare che ancora le sentiamo: però n'abbiamo minor diletto.

Tutte queste condizioni, illustrissimo signore, che si richiedono ne la materia nuda o informe, ma non però in guisa che, mancandogliene una, ella divenga inabile a ricever la forma del poema eroico, ciascuna per sé sola fa qualche effetto, chi più e chi meno; ma tutte insieme tanto rilevano che senz'esse non sarebbe capace di perfezione. Ma oltre queste, richieste nel poema per maggior eccelenza, una n'addurrò semplicemente necessaria, come si può raccorre da la sua definizione. Quest'è che l'azione che dee venire sotto l'artificio de l'epico sia nobile ed illustre ed abbia grandezza. E non altra differenza è quella, la quale costituisce la forma de l'epopeia. Convengono in ciò la poesia eroica e la tragica; ma sono differenti da la comedia, ch'e imitatrice de le basse e popolaresche azioni. Ma communemente si crede che la tragedia e l'epopeia non siano differenti fra loro ne le cose imitate, imitando l'una e l'altra parimente l'azioni grandi ed illustri; ma che la differenza fra loro nasca da la diversità del modo. È dunque necessario che ciò più minutamente si consideri. Costituisce Aristotele ne la sua Poetica tre differenze essenziali e specifiche, per le quali un poema da l'altro si separa e si distingue, e con poche parole sono da lui espresse in questa guisa: e gar to genei heterois mimeisthai, e to hetera, e to heteros, kai me ton auton tropon, le quali significano ne la nostra lingua: «imitano o con le cose diverse di genere, o cose diverse, o in modo diverso». Le cose imitate sono l'azioni; il modo è il narrare o il rappresentare. Narrare si dice quello nel quale appare la persona del poeta; rappresentare, ove è occulta quella del poeta e si manifesta quella de li istrioni; e l'uno si dice da' Greci di'apangelian; l'altro di questi modi è detto drammatico. Le cose con le quali s'imita, cioè l'instrumenti de l'imitazione, sono il parlare, il ritmo e l'armonia. Parlare è la composizione di molte parole significatrici de' nostri concetti, secondo il nostro compiacimento; l'armonia si può diffinire una concordia di voci discordi; per il ritmo intendo la misura de' movimenti e de' gesti che fanno gl'istrioni. Poiché Aristotele ha poste queste tre differenze essenziali, dice che la tragedia è simile a la comedia nel modo de l'imitare e ne le cose con le quali imitano, però che l'una e l'altra rappresenta, ed ambedue, oltre il verso, si vagliono ritmo e de l'armonia; ma quel che le fa differenti di natura è la diversità de le cose imitate, perché la comedia imita gli umili, la tragedia uomini più eccelenti ch'oggi non sono. L'epopeia è più conforme a la tragedia in quello in che la comedia è dissimile; ma le fa differenti il modo. Narra l'epico; rappresenta il tragico; e narra il primo monon tois logois psilois e tois metrois cioè col parlar nudo e non condito, e co' versi; il tragico, oltre il verso, usa il ritmo e l'armonia, ch'è quasi condimento de le parole. Con queste cose dette da Aristotele brevemente, ma con quella oscura brevità ch'è propria di lui, è stato creduto il tragico e l'epico in tutto conformarsi ne le cose imitate: la qual opinione, benché commune ed universale, si può nondimeno considerare più esquisitamente. Se l'azioni epiche e tragiche fossero de l'istessa natura, produrrebbono gli stessi effetti, però che da le medesime cagioni sono derivati gli effetti medesimi; ma producendo diverse passioni, ne seguita che diversa sia la natura. Muovono l'azioni tragiche l'orrore e la compassione; e dove manchi il miserabile e lo spaventoso, non sono più tragiche. Ma gli epici non sogliono ne l'istesso modo contristar gli animi; né questa condizione in loro si richiede come necessaria. Imperò che dice Aristotele che il rallegrarsi de la pena de gli scelerati, quantunque piaccia a gli spettatori, non è proprio de la favola tragica, ma ne l'eroica si loda senza fallo; e se talora ne' poemi eroici si vede qualche cosa orribile o compassionevole, non si cerca però l'orrore e la compassione in tutto il contesto de la favola, ne la quale ci rallegriamo de la vittoria de gli amici e de la perdita de' nemici; ma de' nemici, come sono i barbari e gl'infideli, non si dee avere egualmente misericordia. Non è ancora illustre parimente l'azione del tragico e quella de l'epico: o quello illustre è quasi diverso di natura e di forma. L'uno consiste ne la inaspettata e sùbita mutazione di fortuna e ne la grandezza de gli avvenimenti che muovono misericordia e terrore; ma l'illustre de l'eroico è fondato sovra l'eccelsa virtù militare e sopra il magnanimo proponimento di morire, sovra la pietà, sovra la religione e sovra l'azioni ne le quali risplendono queste virtù, che sono proprie de l'epopeia e non convengono tanto ne la tragedia. E quinci aviene che le persone le quali ne l'uno e ne l'altro poema s'introducono, non sono de la medesima natura, quantunque siano de' re e de' prencipi grandi. Richiede la tragedia persone né buone, né cattive, ma d'una condizione di mezzo: tale è Oreste, Elettra, Giocasta, Eteocle, Edippo, la cui persona fu da Aristotele giudicata altissima a la favola tragica. L'epico a l'incontro vuole il sommo de le virtù: però le persone sono eroiche come è la virtù. Si ritrova in Enea l'eccelenza de la pietà, de la fortezza militare in Achille, de la prudenza in Ulisse. E se alcuna volta il tragico e l'epico prendono per soggetto la persona medesima, è da loro considerata diversamente e con vari rispetti. Considera l'epico in Ercole, in Teseo, in Agamennone, in Aiace, in Pirro il valore e l'eccelenza de l'armi; gli risguarda il tragico come caduti per qualche errore ne l'infelicità. Ricevono ancora gli epici non solo il colmo de la virtù ne le persone da lor descritte, ma l'eccelenza del vizio con minor pericolo assai che i tragici non sono usi di fare. Tale è Mezenzio, Busiri, Procuste, Diomede, Tersite e gli altri somiglianti; tali, o non molto diversi, sono Ciclopi e Lestringoni, ne' quali la ferità è in vece del vizio, ma molto più terribile del vizio e più spaventosa.

Per le cose dette può esser manifesto che la differenza è fra la tragedia e l'epopeia: non nasce solamente da la diversità de gl'instrumenti e del modo de l'imitare, ma prima da la varietà de le cose imitate, la quale è molto più propria de l'altre; e da Aristotele ancora è accennata in quelle parole: hoste te men ho autos an eie mimetes Homero Sophokles, mimountai gar ampho spoudaious: perché se Omero in qualche modo non e diverso da Sofocle, imitando l'uno e l'altro gli uomini eccelenti, non ne segue però che sia affatto simile. Bastò ad Aristotele accennar questa differenza, perché l'altre due sono in guisa note che non lasciano loco a dubbio alcuno. Ma quell'illustre ch'abbiamo detto esser proprio de l'eroico, può esser più o meno illustre: quanto la materia conterrà in sé avvenimenti più nobili e più grandi, tanto sarà più disposta a l'eccelentissima forma de l'epopeia. Però disse Aristotele ch'Omero oltre tutti gli altri fu eroico e, per così dire, principalmente eroico; e, mossi da la sua autorità, alcuni portano opinione che l'amore non sia convenevol materia de l'eroico o del tragico; e dicono ch'egli in due poemi, l'Iliade e l'Odissea, a pena si ricorda d'amore. Il medesimo provano con l'autorità di Sofocle, il quale fra l'altre sue tragedie non ne scrisse pur una di soggetti amorosi. Questi medesimi non lodavano Virgilio ch'avesse finta Didone innamorata d'Enea, riprendendolo del soverchio diletto con que' versi del nostro poeta toscano:

taccia 'l vulgo ignorante, i' dico Dido,
ch'amor pio del suo sposo a morte spinse,
non quel d'Enea, com'è publico grido.

Parea nondimeno a costoro che Virgilio fosse stato più ristretto e parco che non siamo noi altri: perché molte cose e' poteva dire de l'amor d'Enea, molte di quello di Iarba, molte di quello di Turno e di Lavinia, le quali da lui sono taciute o a pena accennate. Aggiungevano la ragione a l'autorità, dicendo che l'uno e l'altro poema è gravissimo: laonde non pare ch'io lor si convenga l'amore in modo alcuno, avegna ch'egli sia passione di animo leggiero: onde si legge:

Ei nacque d'ozio e di lascivia umana,
nudrito di pensier dolci e soavi,
fatto signore e dio da gente vana.

Assegnavano dunque l'amore più tosto a la comedia. Ma io fui sempre di contrario parere, parendomi ch'al poema eroico fossero convenienti le cose bellissime; ma bellissimo è l'amore, come stimò Fedro appresso Platone; ma s'egli non fosse né bello, né brutto, come fu più tosto giudizio di Diotima, non però conviene a le comedie, le quali dilettano con le cose brutte, e con quelle muovono a riso. Laonde la comedia vecchia dee esser peraventura più lodata, come credeva il Maggio: perché la nuova ci ha dipinto alcuna volta l'amore così bello che per poco non si poteva descrivere nel poema eroico con più be' colori. Ma non si può negare che l'amor non sia passione propria de gli eroi, perché a duo affetti furono principalmente sottoposti (come stima Proclo, gran filosofo ne la setta de' platonici), a l'ira ed a l'amore; e se l'uno è convenevole nel poema eroico, l'altro non dee esser disdicevole in modo alcuno. Convenevolissima è l'ira per giudizio di tutti e di Omero medesimo, il quale da l'ira d'Achille prese il soggetto del suo nobilissimo poema: dunque l'amore è convenevole similmente; ed amore fu quello d'Achille e di Patroclo, come parve a Platone. Laonde ne l'istesso poema non solamente è descritta l'ira d'Achille contra Agamennone e contra Ettore e gli altri Troiani, ma l'amor suo verso Patroclo. Taccio di Criseida e di Briseida, benché quelli abbracciamenti amorosi non fussero senza amore; ma l'amore non fu nobile, come disse il Petrarca:

Tu sai che 'l grande Atride e l'alto Achille
e di tutti il più chiaro
un altro e di virtute e di fortuna,
lasciai cader in vil amor d'ancille.

Taccio, dico, l'amore che non è nobile; ma non posso trapassare sotto silenzio l'amor d'Elena nobilissimo e forse bellissimo, quantunque ingiusto: perché la causa del bello è superiore a quella del giusto, come stima l'istesso Proclo, tra i platonici filosofo di grandissima stima: il quale pone nel grado superiore il buono o il bene, nel secondo il bello, nel terzo il giusto. Ma ciò si dee intendere solamente ne' principii de le cose, perché ne l'anima nostra non può esser bellezza senza giustizia. Nondimeno Isocrate ancora stimò che tutta la grazia e la venustà de' poemi d'Omero nascesse da la bellezza d'Elena. Laonde non è maraviglia se i Troiani, per ritenerla, guerreggiarono tanti anni contra la giustizia, non ascoltando il consiglio de' più savi, i quali persuadevano che si rendesse a Menelao, come nota Aristotele ne' suoi libri morali, a la cui autorità debbiamo prestar maggior fede ch'a quella d'ogni altro filosofo. Ma, per suo giudizio, non è negato al poema eroico; e per opinione de gli altri, è conceduto. E se gravissima è la tragedia, niun'altra avrebbe maggior bisogno che la sua soverchia severità fosse temperata con la piacevolezza d'amore. Né questa piacevolezza ricusò di darle Euripide ne la sua Fedra; e di poi Seneca ne l'Ippolito; e Sofocle medesimo sparse l'Antigone de gli amorosi affetti e del pietoso amore di Emone, e le Trachinie e l'Ercole in Eta de le passioni amorose di Deianira. Laonde Demetrio Falereo nel libro suo De l'elocuzione scrisse che niuna cosa fa più graziose le tragedie de l'amore. Ma noi parliamo de l'amor di cavaliero, qual fu o poté esser quel d'Achille con Polissena, accennato a pena da' tragici; e di questo non si potrebbe dubitare se egli fosse convenevole al poema eroico. Ma qual de le due passioni fosse più conveniente, l'ira o l'amore, Omero stimò senza dubbio più conveniente l'ira, perché altrimente avrebbe formato il poema de l'amor d'Achille e di Polissena. Ed oltre ciò, la ragione e l'autorità di Platone par che più ci confermi quella d'Omero, perché fra le tre potenze de l'animo nostro, io dico la ragione e l'appetito irascibile e 'l concupiscibile, senza fallo nobilissima è la ragione, e quasi regina de l'altre; ma il concupiscibile appetito somiglia più tosto al rubello popolare, il qual, sollevandosi e facendo tumulto ne l'animo, nega di prestare obedienza a la ragione, là dove l'irascibile è quasi guerriero e ministro de la ragione in raffrenare l'altro che le fa contrasto. Dunque de l'ira più tosto che de l'amore dee prendere soggetto il poeta eroico. E ciò peraventura sarebbe vero se gli eroi fossino tutti e sempre soggetti a le passioni; ma se l'amore e non solo una passione ed un movimento de l'appetito sensitivo, ma uno abito nobilissimo de la volontà, come volle san Tomaso, l'amore sarà più lodevole ne gli eroi, e per conseguente nel poema eroico. Ma gli antichi o non conobbero questo amore, o non volsero descriverlo ne gli eroi; ma se non onorarono l'amore come virtù umana, l'adorarono quasi divina: però niun'altra dovevano stimar più conveniente a gli eroi. Laonde azioni eroiche ci potranno parer, oltre l'altre, quelle che son fatte per amore. Ma i poeti moderni, se non vogliono descriver la divinità de l'amore in quelli ch'espongono la vita per Cristo, possono ancora, nel formarvi un cavaliere, descriverci l'amore come un abito costante de la volontà; e così gli hanno formati, oltre tutti gli altri, quegli scrittori spagnuoli i quali favoleggiarono ne la loro lingua materna senza obligo alcuno di rime, e con sì poca ambizione ch'a pena è passato a la posterità nostra il nome d'alcuno. Ma qualunque fosse colui che ci descrisse Amadigi amante d'Oriana, merita maggior lode ch'alcuno de gli scrittori francesi; e non traggo di questo numero Arnaldo Daniello, il quale scrisse di Lancillotto, quantunque dicesse Dante:

Rime d'amore e prose di romanzi
soverchiò tutti; e lascia dir gli stolti,
che quel di Limosì credon ch'avanzi.

Ma s'egli avesse letto Amadigi di Gaula o quel di Grecia o Primaleone, peraventura avrebbe mutata opinione, perché più nobilmente e con maggior costanza sono descritti gli amori da' poeti spagnuoli che da' francesi, se pur non merita d'esser tratto da questo numero Girone il Cortese, il quale castiga così gravemente la sua amorosa incontinenza a la fontana; ma senza fallo è maggior lode avere in guisa disposto l'animo ch'alcuno affetto non possa prender l'arme contra la ragione. Laonde più perfetta sarebbe stata l'amicizia di Girone con Danaino, s'ella non fosse stata perturbata da l'amore. Assai men grave nondimeno è 'l fallo di Girone che quello del Biscaglino nel Furioso, anzi non può quasi tra loro esser fatta alcuna comparazione; e se Girone non fosse stato così vicino al commetter fallo, la sua virtù ci parrebbe maggior senza dubbio; ma non sarebbe così piacevole il poema in quella parte. La virtù nondimeno di Leone nel Furioso supera tutti gli altri esempi ch'io abbia letto. Laonde mi pare che scioccamente si dubiti qual sia maggiore cortesia, quella di Leone o quella di Ruggiero: perché non è cortesia quella ch'e fatta contra l'onesto e contra il dritto; ma non era onesto che Ruggiero ingannasse Bradamante: non fu dunque cortesia quella di Ruggiero: però non doveria contendere con quella del prencipe greco, a la quale si può paragonare in qualche modo quella di Gisippo, uomo de l'istessa nazione, ma non de la medesima fortuna, perché quell'altra di messere Ansaldo fu similmente una generosa pazzia, ma degna di riprensione più tosto che di lode. In somma l'amore e l'amicizia sono convenevolissimo soggetto del poema eroico; e se vogliam chiamare amicizia quella d'Achille e di Patroclo, niun'altra potea dar materia di poetar più eroicamente. Ma non dee l'opinione di Dante esser tralasciata, perché la sua autorità, in questa lingua non mediocre, può esser fondamento de la nostra opinione. Egli dice ne' libri De la volgare eloquenza che tre sono le cose che deono esser cantate nel sommo stile: la salute e l'amore e la virtù. La salute come utile; l'amor come piacevole; la virtù come onesta. Ma se il sommo stile è il tragico in quanto è l'istesso con l'eroico, o in quanto il contiene, l'amore senza fallo dee esser cantato dal poema eroico. Ma egli considera l'amore come piacevole; e si potrebbe considerare ancora come onesto o come virtù cavalleresca, cioè come abito de la volontà. Concedasi dunque che 'l poema epico si possa formar di soggetto amoroso, com'è l'amor di Leandro e d'Ero, de' quali cantò Museo antichissimo poeta greco; e quel di Giasone e di Medea, dal qual prese il soggetto Apollonio fra' Greci e Cornelio Flacco tra' Latini; o quel di Alessandro e d'Elena descritto da Coluto Tebano e dal cardinale Sfondrato padre di Gregorio XIIII, non solo a' suoi tempi grandissimo prelato, ma grandissimo poeta; o quelli di Teagene e di Cariclea, e di Leucippe e di Clitofonte, che nella medesima lingua furono scritti per Eliodoro e per Achille Tazio; o gli altri d'Arcita e di Palemone, e di Florio e di Biancofiore, di cui ne la nostra lingua poetò il Boccaccio; o gli avvenimenti di Piramo e di Tisbe, i quali diedero materia ad un picciol poema del Tasso mio padre, o la pazzia di Narcisso, da cui prese soggetto l'Alamanno. Ma in questa idea ch'ora andiamo cercando del perfettissimo poema, fa mestieri ch'abbiamo riguardo a la nobiltà ed a l'eccelenza più ch'a tutte le cose. Però debbiamo scegliere azione in cui la nobiltà sia in sommo grado, come è ne l'impresa de gli Argonauti che passarono al vello d'oro, di cui fecero i loro poemi Orfeo prima e da poi Apollonio. È parimente questa condizione ne la guerra di Troia e ne gli errori di Ulisse cantati da Omero, ed in quella di Tebe e ne la fanciullezza d'Achille scritta da Stazio; e ne la guerra civile e ne la seconda Africana ridotte in versi da Lucano e da Silio Italico e dal Petrarca, il quale ne gli amori di Massinissa superò il primo di gran lunga; ma oltre tutte l'altre è nobilissima azione la venuta di Enea in Italia, perché l'argumento è per sé grande ed illustre; ma grandissimo ed illustrissimo, avendo riguardo a l'Imperio romano ch'ebbe origine da quella, come nel principio de l'Eneide accenna il divino poeta:

Tantae molis erat romanam condere gentem.

Tale era la liberazione d'Italia da' Goti, che porse materia al poema del Trissino; tali sono quelle imprese che per la confermazion de la Fede o per l'esaltazione de la Chiesa o de l'Imperio furono felicemente e gloriosamente adoperate, le quali per se medesime acquistano gli animi de' lettori e muovono aspettazione e diletto maraviglioso; ed aggiontovi l'artificio de l'eccelente poeta, non è cosa che non possano ne gli animi nostri. Dee dunque il poeta schivar gli argomenti finti, massimamente se finge esser avvenuta alcuna cosa in paese vicino e conosciuto e fra nazione amica, perché fra popoli lontani e ne' paesi incogniti possiamo finger molte cose di leggieri, senza toglier autorità a la favola. Però di Gotia e di Norvegia e di Svevia e d'Islanda o de l'Indie Orientali o di paesi di nuovo ritrovati nel vastissimo oceano oltre le Colonne d'Ercole, si dee prender la materia de' sì fatti poemi. Non tocchi ancora il poeta quelle cose che non possono esser trattate poeticamentei e ne le quali non ha luogo la finzione e l'arteficio; rifiuti le troppo rozze, a cui non si può quasi aggiongere splendore; e si ricordi di quel precetto d'Orazio:

....................................et quae
desperas tractata nitescere posse, relinque.

Rifiuti le male ordinate a guisa di tronco troppo torto, il quale non sia buono per la fabrica; ricusi le materie troppo asciutte e troppo aride, le quali non danno molte occasioni a l'ingegno ed a l'arte del poeta, e quelle che sono noiose e rincrescevoli soverchiamente e l'infelici, com'è la morte de' paladini e la rotta di Roncisvalle: perché fra' Greci ancora o fra' Latini, niuno è che celebrasse in poema eroico la sconfitta de gli Ateniesi o de gli Spartani, e le vittorie de' Persiani o pur quelle de' Francesi; anzi Allia per l'occisione de' nostri fu riputato nome infausto ed infelice, come dovrebb'esser quel di Roncisvalle. Figuri la morte e l'occisioni fra gli avversari, come fece Omero che l'accrebbe fra' Troiani e fra' barbari. Men savio consiglio veramente fu quello di Stazio, che celebrò la calamità de gli Argivi, e la morte o la rotta de l'esercito condotto da' sette Regi, perché quello è soggetto tragico anzi che no; e fra i Greci fu trattato da Euripide, il quale, come dice Aristotele, è traghikotatos. Non s'invaghisca il poeta de le materie troppo sottili e convenienti più tosto a le scuole de' teologi o de' filosofanti ch'a' palagi de' principi ed a' teatri; non si mostri ambizioso ne le questioni naturali e teologiche; e non dimentichi quello che dice Orazio lodando Omero e proponendolo a molti filosofi, i quali avevano scritto de le virtù e de l'onesto, come si legge ne la seconda epistola a Lollio:

Troiani belli scriptorem, maxime Lolli,
dum tu declamas Romae, Praeneste relegi;
qui quid sit pulchrum, quid turpe, quid utile, quid non,
plenius ac melius Chrysippo et Crantore dicit.

Non si mostri troppo curioso ne la cognizione de l'antichità oscura e quasi nascosta, ove l'oscurità non fosse di cose grandissime e degne de la cognizione; de le cose minute sia sprezzatore anzi che no; ne l'acute magnifico; ne le riposte aperto, ed in tutte meraviglioso; non sia troppo lungo ne le cerimonie de le cose sacre o profane; e ne' giuochi sia ornato, efficace, e ponga le cose innanzi gli occhi, e non descriva tutti quelli che si fanno, ma i più celebri ed illustri, e quelli che sono quasi simulacri de la guerra o sua esercitazione, come fecero Virgilio ed Omero, l'uno ne l'esequie di Patroclo, l'altro ne la sepoltura d'Anchise. Ma ora in vece di giuochi sono succeduti torniamenti e giostre che magnificamente furono descritte da' nostri poeti, come fu da l'Ariosto quello di Damasco, e dal Tasso quella di Cornovaglia più convenevolmente: perché ne l'Inghilterra solevano usarsi, ma non era costume de' Turchi o de' Saracini il giostrare: laonde soleva dire Geme, fratello di Salim imperadore de' Turchi, mentre egli fu prigioniero in Roma, che era troppo da scherzo e poco da dovero. Abbia ancora risguardo il poeta a la gloria de la nazione, a l'origine de le città e de le famiglie illustri, a' principi de' regni e de gl'imperi, come ebbe oltre a tutti gli altri Virgilio; non sia troppo licenzioso nel fingere le cose impossibili, le mostruose, le prodigiose, le sconvenevoli, come fece colui il quale volle imitare la favola di Tiresia, che, percotendo e ripercotendo i serpenti, di maschio divenne femina, e poi di femina maschio, ma poco felicemente trasmutò Rinaldo in una donna; ma consideri il poter de l'arte maga e de la natura istessa quasi rinchiuso dentro a certi confini e ristretto sotto alcune leggi, e gli antichi e i vecchi prodigi, e l'occasioni de le maraviglie e de' miracoli e de' mostri, e la diversità de le religioni, e la gravità de le persone; e cerchi di accrescere quanto egli può fede a la maraviglia senza diminuire il diletto. Però non dee rifiutar gl'incanti, non le caccie, benché elle fossero di fiere terribili e rare volte vedute, come fu quella che fece Agramante in Biserta; ed in questa parte possiamo seguir l'autorità de gli antichi ne la caccia del porco ucciso da Atalanta, che diede occasione a l'infelicità di Meleagro, celebrato da' greci e da' latini poeti, ed in quella del toro che fu domato da Teseo, o del serpente ucciso da Ercole; descriva le tempeste, gl'incendi, le navigazioni, i paesi e i luoghi particolari; si compiaccia ne la descrizione de le battaglie terrestri e maritime, de gli assalti de le città, de l'ordinanza de l'esercito e del modo di alloggiare; ma in questo schivi il soverchio e temperi il rincrescimento di troppo esquisita dottrina, perché non abbiamo esempio di Virgilio o d'Omero o d'altro antico poeta, ma del Trissino solamente; non sia troppo lungo ne gli ammaestramenti de l'arte militare, ne' quali il Tasso imitò Claudiano, inducendo Perione ch'ammaestra Galaoro in quel modo che Teodosio imperatore avea tenuto con Onorio suo figliuolo. Simile avertimento potrebbe mostrare ove descrive la fame, la sete, la peste, il nascer de l'aurora, il cader del sole, il mezzo giorno, la mezza notte, le stagioni de l'anno, la qualità de' mesi o de' giorni, o piovosi o sereni o tranquilli o tempestosi; ma ne' consigli e ne le rassegne può distendersi più securamente con l'autorità de gli antichi poeti; e nel descriver l'arme, l'imprese, i cavalli, le navi, i tempii, i palagi, i padiglioni, le tende, le pitture e le statue e l'altre cose somiglianti, abbia sempre riguardo a quel che conviene, e schivi la noia che porta seco la soverchia lunghezza. Ne le morti cerchi la varietà, l'efficacia, l'affetto; ne gli incontri di lancia e ne' colpi di spada la verisimilitudine, non passando troppo quel ch'e avvenuto, o che può avvenire, o che si crede, o che si racconta. Ne le minacce sia altero ed acerbo; ne' lamenti breve ed affettuoso; ne gli scherzi piacevole e grazioso; non asconda le cose vere ne l'antichità e quasi ne le nuvole; non mostri le finte al sole, ma più tosto al buio, quasi merci che in quel modo si vendono di leggieri; e fra i nostri tempi e gli antichissimi secoli scelga quelli che sono lontani da la nostra memoria con distanza conveniente, a guisa di pittore che non metta le pitture sotto gli occhi, né ancora tanto lontane che non possano essere raffigurate, ma le disponga al lume in parte alta convenevolmente. Elegga, fra le cose belle, le bellissime; fra le grandi, le grandissime; fra le maravigliose, le maravigliosissime; ed alle maravigliosissime ancora cerchi d'accrescere novità e grandezza; lasci da parte le necessarie, come il mangiare e l'apparecchiar le vivande, o le descriva brevemente, come le descrisse Virgilio in que' versi:

Illi se praedae accingunt dapibusque futuris:
tergora diripiunt costis et viscera nudant;
pars in frusta secant veribusque trementia figunt;
littore ahena locant alii flammasque ministrant.
Tum victu revocant vires; fusique per herbam
implentur veteris Bacchi, pinguisque ferinae.

Ed in quegli altri:

At domus interior regali splendida luxu
instruitur, mediisque parant convivia tectis.
Arte laboratae vestes ostroque superbo,
ingens argentum mensis, caelataque in auro
fortia facta patrum, series longissima rerum,
per tot ducta viros antiqua ab origine gentis.

E ne' seguenti:

Dant famuli manibus lymphas Cereremque canistris
expediunt, tonsisque ferunt mantilia villis:
quinquaginta intus famulae, quibus ordine longo
cura penum struere et flammis adolere penates;
centum aliae, totidemque pares aetate ministri,
qui dapibus mensas onerent et pocula ponant.

Ma queste descrizioni tanto sono più lodevoli, quanto sono più lontane di luogo e più diverse d'apparecchio. Sdegni ancora il nostro poeta tutte le cose basse, tutte le populari, tutte le disoneste, com'è la novella de la Fiammetta e quella del Dottore; a le mediocri aggiunga altezza, a l'oscure notizia e splendore, a le semplici artificio, a le vere ornamento, a le false autorità; e se pur alcuna volta riceve i pastori, i caprari, i porcari e l'altre sì fatte persone, deve aver riguardo non solo al decoro de la persona, ma a quello del poema, e mostrarli come si mostrano ne' palazzi reali e ne le solennità e ne le pompe.

Ecco, illustrissimo signore, le condizioni che giudizioso poeta dee ne la materia ricercare: le quali, riepilogando in breve giro di parole quanto s'è detto, sono queste: l'autorità de l'istoria, la verità de la religione, la licenza del fingere, la qualità de' tempi accomodati e la grandezza de gli avenimenti. Ma questa, prima che sia caduta sotto l'artificio de l'epico, materia si chiama: dopo ch'è stata dal poeta disposta e trattata e con l'elocuzione è vestita, se ne forma la favola, la qual non è più materia, ma è forma ed anima del poema; e tale è da Aristotele giudicata. Ma il poema non è forma semplice, perché egli è composto di materia e di forma. Ma avendo nel principio di questo Discorso assomigliata quella materia che fu detta nuda a quella che chiamano i naturali materia prima, giudico che, sì come ne la materia prima, benché priva d'ogni forma, nondimeno vi si considera da' filosofi la quantità, la quale è perpetua ed eterna compagna di lei, ed innanzi il nascimento de la forma vi si ritrova, e dopo la sua corruzione vi rimane; così anco il poeta debba in questa nostra materia, innanzi ad ogn'altra cosa, la quantità considerare: però che è necessario che, togliendo egli a trattare alcuna materia, la toglia accompagnata d'alcuna quantità. Avertisca dunque che la quantità ch'egli prende non sia tanta che, volend'egli poi, nel formare la testura de la favola, interserirvi molti episodi, e adornare ed illustrare le cose che semplici sono in sua natura, il poema cresca in tanta grandezza che disconvenevol paia e dismisurato: però che non dee il poema eccedere una certa determinata grandezza, come nel suo luogo si tratterà: ché s'egli vorrà pure schivare questa dismisura e questo eccesso, sarà necessitato lasciare le digressioni e gli altri ornamenti che sono necessari al poema, e quasi rimanersi ne' puri e semplici termini de l'istoria. Il che a Lucano ed a Silio Italico si vede in qualche parte avvenuto, l'una e l'altro de' quali troppo ampia e copiosa materia abbracciò: perché quegli non solamente la giornata di Farsaglia, come dinota il titolo, ma tutta la guerra civile fra Cesare e Pompeo, questi tutta la seconda guerra africana prese a trattare: le quali materie, sendo in se stesse ampissime, erano atte ad occupare tutto quello spazio ch'è conceduto a la grandezza de l'epopeia, non lasciando luogo alcuno a l'invenzione ed a l'ingegno del poeta; ed alcune volte paragonando le medesime cose trattate da Silio poeta e da Livio istorico, molto più asciuttamente e con minor ornamento mi par di vederle nel poeta che ne l'istorico, al contrario apunto di quello che la natura de le cose richiederebbe. Di questa riprensione non è afatto sicuro Stazio, benché abbia l'invenzione poetica; nondimeno, cominciando da i primi principii de la guerra, disprezza l'ammaestramento d'Orazio e spende molti libri prima c'abbia condotti i Greci sotto Tebe; e la venuta di Teseo nel fine e la battaglia che si fa per dar sepoltura a i morti pare quasi soggetto d'un altro poema. A questa medesima è soggetto il Trissino. Ciascuno in somma che materia troppo ampia si propone, è costretto d'allungare il poema oltre il convenevol termine (la qual soverchia lunghezza sarebbe forse nel'Innamorato e nel Furioso, chi questi due libri, distinti di titolo e d'autore, quasi un sol poema considerasse, come in effetto sono); o almeno è sforzato di lasciare gli episodi e gli altri ornamenti, i quali sono necessari al poeta. Maraviglioso fu in questa parte il giudizio d'Omero, il quale, avendo propostasi materia assai breve, quella accresciuta d'episodi e ricca d'ogn'altra maniera d'ornamento a lodevole e conveniente grandezza ridusse. Più ampia alquanto la si propose Virgilio, come colui che tanto in un sol poema raccoglie quanto in due poemi d'Omero si contiene; ma non però di tanta ampiezza la scelse che 'n alcuno di que' duo vizi sia costretto di cadere. Con tutto ciò se ne va a le volte così ristretto che sebben quella gravità e brevità sua è maravigliosa e inimitabile, non ha peraventura tanto del poetico quanto la faconda copia d'Omero. E mi ricordo in questo proposito aver udito dire da lo Sperone (uomo eccelentissimo, la cui privata camera, mentre io in Padova studiava, era solito di frequentare non meno spesso e volentieri che le publiche scuole, parendomi che mi rappresentasse la sembianza di quella Accademia e di quel Liceo in cui Socrate e Platone aveano in uso di disputare), mi ricordo d'aver udito da lui che 'l nostro poeta latino è più simile al greco oratore ch'al greco poeta, e 'l nostro latino oratore ha maggior conformità co 'l poeta greco che con l'orator greco; ma che l'oratore e 'l poeta greco aveano ciascuno per sì conseguita quella virtù ch'era propria de l'arte sua, ove l'uno e l'altro latino avea più tosto usurpata quell'eccelenza che a l'arte altrui era conveniente. Ed in vero chi vorrà sottilmente esaminare la maniera di ciascun di loro, vedrà che quella copiosa eloquenza di Cicerone è molto conforme con la larga facondia d'Omero, sì come ne l'acume e ne la pienezza e nel nervo d'una illustre brevità sono molto somiglianti Demostene e Virgilio.

Raccogliendo dunque quanto s'è detto, dee la quantità de la materia nuda esser tanta e non più che possa da l'artificio del poeta ricever molto accrescimento, senza passare i termini de la convenevole grandezza. Ma poiché s'è ragionato del giudizio che dee mostrare il poeta intorno a la scelta de lo argomento, l'ordine richiede che nel seguente Discorso si tratti de l'arte con la quale deve esser disposto e formato.




LIBRO TERZO


Credono molti, illustrissimo signore, che de le scienze e de l'arti più nobili sia avvenuto come de' popoli, e de le province, e de le terre, e de' mari, molti de' quali non erano ben conosciuti da gli antichi, ma di nuovo son ritrovati oltre le Colonne d'Ercole verso Occidente, overo di là da gli altari che pose Alessandro ne l'Oriente: e rassimigliano costoro gli ammaestramenti de l'arte poetica e de la retorica a le mete ed a' segni i quali son posti per termini a' timidi naviganti. Ma sì come io non biasimo l'ardire guidato da la ragione, così non lodo l'audacia senza consiglio, parendomi pazzia ch'altri voglia fare arte del caso, virtù del vizio e prudenza de la temerità, e tutto concedere a la fortuna, la qual ha minor parte ne l'operazioni de l'ingegno che ne le fatiche del corpo: tuttavolta in quelle medesime che si fanno con la parte men nobile, cerchiamo di moderare i fortunosi avvenimenti e di restringerli quasi sotto alcuna legge. Laonde molto più debbiamo considerare l'operazioni de l'intelletto, a cui sempre è proposto a guisa di segno un obietto medesimo nel quale ei rimira: e questo è il vero, il quale non si muta già mai, né sparisce a gli occhi de la mente. Ma l'Orse si celano a coloro ch'avendo passato Abila e Calpe, navigano ne l'ampissimo oceano: nondimeno altre stelle sono in quello emispero, con le quali essi deono reggere il corso; altrimente non avrebbono arte alcuna del navigare; e possono in qualche modo schifare l'incostanza de le maritime cose con la costanza de le celesti. Ma quanto sono più stabili, quanto più vere, quanto più certe le cose intellettuali, a le quali drizziamo l'intelletto? e se pur talvolta consideriamo le cose verisimili, non possiamo aver altra notizia di loro, se non quella che ci dà la cognizione del vero. Però andiamo formando l'idee de le cose artificiali: ne la quale operazione ci pare d'esser quasi divini e d'imitare il primo artefice. Ma qualunque sia questo nostro artificio, da niuno altro può esser meglio estimato. Legga dunque V. S. illustrissima quel ch'io discorro con lei quasi in un ragionamento: perché s'egli è gran difficoltà il ritrovare il vero fra le cose verisimili, il giudicarlo non è minor lode, o a la filosofia men conveniente.

Scelta ch'averà il poeta materia per se stessa capace d'ogni perfezione, gli rimane l'altra assai più difficile fatica, che è di darle forma e disposizion poetica; intorno al quale officio, come intorno a proprio soggetto, quasi tutta la virtù de l'arte si manifesta. Ma però che quello che principalmente constituisce e determina la natura de la poesia, e la fa da l'istoria differente, non è il verso, come dice Aristotele (perché facendosi in versi l'istoria d'Erodoto, non sarebbe meno istoria), ma è il considerare le cose non come sono state, ma in quella guisa che dovrebbono essere state, avendo riguardo più tosto a l'universale che a la verità de' particolari, prima d'ogni altra cosa dee il poeta avvertire se ne la materia ch'egli prende a trattare sia avvenimento alcuno, il quale, altrimente essendo succeduto, fosse più meraviglioso e verisimile o per qualsivoglia altra cagione portasse maggior diletto; e tutti i successi che sì fatti troverà, cioè che meglio in un altro modo potessero essere avvenuti, senza rispetto alcuno di vero o d'istoria a sua voglia muti e rimuti, ordini e riordini, e riduca gli accidenti de le cose a quel modo ch'egli giudica migliore, mescolando il vero co 'l finto, ma in guisa che 'l vero sia fondamento de la favola, come insegna Aristotele ne la Retorica ed Alessandro Piccolomini nel suo libro De le stelle. Questo esempio ci diede Omero, il quale ci ammaestra con la favola e con l'istoria (come disse Dione Crisostomo, e prima di lui Strabone scrisse) che i poeti interpongono la falsità ne le cose vere e le favole ne le vere contemplazioni, come fa colui che fonde l'oro intorno a l'argento. Ebbe opinione il medesimo autore che la licenza de' poeti abbia queste tre parti: l'istoria, la favola e la disposizione; e che 'l fine de l'istoria sia la verità, de la disposizione l'espressione, de la favola il piacere; ma che 'l fingere tutte le cose non convenga, né paresse ad Omero conveniente. Virgilio ancora ne gli errori d'Enea e ne la guerra fatta fra lui e Latino non scrisse solamente le cose che vere estimò, ma quelle che giudicò migliori e più eccelenti: perché non solo è falso l'amore e la morte di Didone, e favoloso quello che scrive di Polifemo e de lo scender d'Enea a l'inferno; ma le battaglie fra lui e i popoli del Lazio descrive altrimente di quello ch'avvennero secondo la verità, come si conosce chiaramente paragonando il suo poema con l'istoria di Dionigio Alicarnasseo e d'altri greci e latini c'hanno scritto davanti e dopo lui. Egli in Didone confuse di tanto spazio l'ordine de' tempi con quella figura che da' Greci è detto anakhronismos o più tosto con quella licenza che fu prima di Platone e de' poeti greci ch'introdussero insieme a ragionare persone vissute in secoli differenti, come nota Ateneo nel Convito de' Dinosofisti. Questa licenza fu parimente d'Ovidio ne le sue Trasformazioni, nel fine de le quali Pitagora, italiano filosofo, ammaestra Numa re de' Romani, quantunque sia più certa opinione che Pitagora nascesse dopo qualche centinaio di anni. La medesima dottrina o 'l medesimo artificio del mescolare il vero co 'l falso o co 'l finto si può raccogliere da Orazio e da Plutarco nel principio de la Vita di Teseo, da Macrobio nel Sogno di Scipione e da Servio sopra Virgilio, e molto prima da' platonici scrittori, e da Platone medesimo, e da Xenofonte nel suo Ciro; e quantunque egli non fosse poeta, ma filosofo ed istorico, nondimeno, nell'avere risguardo a l'universale ed a l'idea, fu più somigliante a' poeti ch'a gli istorici; ma di questa mescolanza non fu lodato «Erodoto di greca istoria padre», e ne gli oratori fu biasimata. Laonde Isocrate riprende Policrate de l'errore e de la confusione de' tempi, ne la quale, seguendo la favolosa licenza de' poeti, finge che fussero in un medesimo tempo Ercole e Busiride, avenga che molto prima nascesse Busiride, sì come colui che fu anteriore a Perseo di anni più di ducento, e Perseo nacque avanti ad Ercole quattro secoli intieri: talché tra il primo e l'ultimo furono interposte sei età. Con queste autorità e de' nuovi e de' vecchi scrittori può esser difeso Virgilio; ma egli forse cercò occasione di mescolare tra la severità de l'altre materie i piacevoli ragionamenti d'amore, quantunque seguisse la morte di Didone, fiero ed infelice avvenimento; o più tosto volle assignare un'alta ed ereditaria cagione de le inimicizie tra' Romani e Cartaginesi: ne la quale fu poi imitato da Silio Italico ch'introduce Annibale giovanetto, anzi fanciullo, a giurare perpetua inimicizia contra i Romani, così persuaso da Amilcare suo padre. Ma con l'artificiosa narrazione de la rovina e de l'incendio di Troia rimosse Virgilio da gli animi quella suspizione che s'ebbe d'Enea: perché egli fu sospetto di tradimento, come dice Servio; e con le parole dette da Diomede a gli ambasciatori de' Latini l'onorò più che non avea fatto Omero ne la sua Iliade; e v'aggiunse la favola di Polifemo, de la Sibilla, e la conversione de le navi in ninfe, per accoppiare il maraviglioso col verisimile; e raccontò diversamente la morte di Turno; non volle far menzione di quella d'Enea, se non accennando ch'egli al fine accrescerebbe il numero de gl'iddii; v'aggiunse quella d'Amata; mutò gli avvenimenti e l'ordine de le battaglie per accrescer la gloria d'Enea e terminar con un fine più perfetto il suo nobilissimo poema. A queste finzioni fu molto favorevole l'antichità de' tempi; ma non dee peraventura la licenza de' poeti stendersi tanto oltre ch'ardisca di mutar l'ultimo fine de l'imprese ch'egli prende a trattare, o pur narrare al contrario di quello che sono avvenuti alcuni de gli avvenimenti principali e più noti che già sono ricevuti per veri ne la notizia del mondo. Simile audacia mostrarebbe colui che descrivesse Roma vinta e Cartagine vincitrice, o Annibale vincitore in campo aperto di Fabio Massimo, non con arte tenuto a bada; quantunque si legga ne' Paralleli di Plutarco che Fabio ne la guerra africana fosse mandato da' Romani con cinquecento soldati contra Annibale e che, spronando furiosamente il cavallo, gli cavasse il diadema e poi gli morisse appresso, avendo prima ricevuta una mortalissima ferita. Simile sarebbe stato l'ardire d'Omero, se fosse vero quel che falsamente si dice, benché a proposito de la loro intenzione:

che i Greci rotti, e che Troia vittrice,
e che Penelopea fu meretrice:

a le quali parole prestando peraventura credenza il Bolognetto, e' si propose per fine de la favola la liberazione di Valeriano imperatore, il quale se ne morì ne la prigione di Sapore re di Persia; ma non tanto era felice il suo poema per due nobilissime guerriere celebrate ne l'istorie, dico Zenobia e Vittorina (ch'egli chiama Vittoria), quanto infelice per il suo fine; pur egli volea mutarlo; ma questo era un privare affatto la poesia e l'istoria de la sua autorità. Da la qual ragione mosso, io conclusi che l'argomento de l'epopeia dovea esser fondato sovra qualche istoria o sovra qualche verità. E quantunque Dione Crisostomo, in una orazione che scrive a quelli d'Ilio, si sforza di provare che Troia non fusse presa, non fu peraventura sua intenzione di biasimare Omero, ma di mostrare il modo co 'l quale i poeti dicono le menzogne per ingannare, mutando e rimutando l'ordine de le cose, come a loro pare il meglio. Tanta emulazione era de la gloria tra gli scrittori di prosa e' poeti! Ma Teseo figliuolo d'Ippocrate scrisse che le guerre di Troia non furono favolose; e molti istorici fanno testimonianza del medesimo, e fra gli altri «Erodoto di greca istoria padre». Lasci dunque il nostro epico l'origine ed il fine de l'impresa, ed alcune cose più illustri e ricevute per fama, ne la loro verità, o poco o nulla alterata; muti poi, se così gli pare, i mezzi e le circostanze, confonda i tempi e l'ordine de l'altre cose, ed in somma si dimostri più tosto artificioso poeta che verace istorico; ricordandosi spesso di quel detto di Plutarco nel libro De la fortuna de' Romani, cioè che l'uomo, il qual nasconde la bugia ne l'antichità de' tempi, è simile a colui che ricovera da luoghi chiari e luminosi ne gli opachi e tenebrosi. Ma se ne la materia ch'egli s'avrà proposta saranno alcuni avvenimenti apunto come dovrebbon esser succeduti, che deve fare il poeta? può forse mutarli? sì, veramente che poetica sia la narrazione, non spogliandosi de la persona del poeta per vestirsi quella de l'istorico: perché può a le volte avvenire ch'altri come poeta, altri come istorico tratti le medesime cose; ma saranno da loro considerate con diverso rispetto, perché l'istorico le narra come vere, e 'l poeta le imita come verisimili. E se io non credessi che Lucano fosse poeta, a ciò non mi moverebbe quella ragione che persuade gli altri, cioè ch'egli abbia perduto questo nome per la narrazione de le cose veramente avvenute. Questo solo non basta per giudizio d'Aristotele, il quale dice: kan ara sumbe genomena poiein, ouden hetton poietes esti: cioè, se 'l poeta s'avverrà ad alcune di quelle cose che sono state veramente, non riman d'esser poeta, perché non si vieta che de le cose fatte, alcune sieno com'è verisimile che fossero fatte o possibile: secondo le quali è poeta. Ma se Lucano non è poeta, ciò avviene perché s'obbliga a la verità de' particolari, e non ha tanto risguardo a l'universale e, come pare a Quintiliano, è più simile a l'oratore ch'al poeta. Oltre a ciò, l'ordine osservato da Lucano non è l'ordine proprio de' poeti, ma l'ordine dritto e naturale in cui si narran le cose prima avvenute: e questo é commune a l'istorico. Ma ne l'ordine artificioso, che perturbato chiama il Castelvetro, alcune de le prime deono esser dette primieramente, altre posposte, altre nel tempo presente deono esser tralasciate e riserbate a miglior occasione, come insegna Orazio. Prima deono esser dette quelle senza le quali non s'avrebbe alcuna cognizione de lo stato de le cose presenti; ma se ne posson tacer molte, le quali scemano l'espettazione e la meraviglia, avenga che il poeta debba tenere sempre l'auditore sospeso e desideroso di legger più oltre. Ma non voglio già ostinatamente affermare che l'ordine artificioso sia ne l'uno e ne l'altro poema d'Omero; ma se ne l'uno è il naturale, ne l'altro è l'artificioso senza fallo, perché, secondo l'ordine de la natura, le cose prima succedute, o siano parte de la favola o non siano, dovrebbono esser prima raccontate: ma ne l'ordine naturale ancora non dee cominciar il poeta da principio troppo remoto e, come dice Orazio, «ab ovo». Però in questa parte merita maggior lode e minor riprensione Lucano di Stazio: perché l'uno, volendo cantar de le guerre civili, mette Cesare su 'l passo del Rubicone, dove, giudicato nemico dal Senato, fu costretto a far la guerra; l'altro comincia da le furie e da le maledizioni d'Edippo, che furono prima e fatal cagione de la discordia fra Eteocle e Polinice. Nondimeno Lucano ancora avrebbe fatto meglio s'avesse posto Cesare in Tessaglia e collocatolo a fronte a Pompeo, e l'altre cose prima contenute avesse fatto raccontare. Simile ne l'ordine a Stazio ed a Lucano è Silio Italico: però prepongo a tutti il Petrarca in quanto a la disposizione de la favola ed a l'ordine ch'egli tenne ne l'Africa, lasciando a gli altri il giudizio de la lingua e de l'elocuzione; ma ne gli affetti amorosi ancora è meraviglioso, come ho detto ne l'altro libro. Ma seguitiamo in questo a parlar de l'altre cose necessarie.

Poiché avrà il poeta ridutto il vero ed i particolari de l'istoria al verisimile ed a l'universale, che è proprio de l'arte sua, procuri che la favola (favola chiamo la forma del poema che difinir si può testura, o composizione de gli avvenimenti o de le cose), procuri, dico, che la favola ch'indi vuol formare sia intiera, o tutta che vogliam dire, sia di convenevol grandezza, e sia una. E sovra queste tre condizioni distintamente e con quell'ordine che le ho proposte, discorrerò. Tutta o intiera dee esser la favola, perché in lei la perfezione si ricerca; ma perfetta non può esser quella cosa ch'intiera non sia. La perfezione e l'integrità si troverà ne la favola, s'ella avrà il principio, il mezzo e l'ultimo. Principio è quello che necessariamente non è dopo altra cosa, e l'altre cose son dopo lui. Il fine è quello che è dopo l'altre cose, né altra cosa ha dopo sé. Il mezzo è posto fra l'uno e l'altro, ed egli è dopo alcune cose, ed alcune n'ha dopo sé. Ma per uscire alquanto da la brevità de le difinizioni, dico che intiera è quella favola che in se stessa ogni cosa contiene ch'a la sua intelligenza sia necessaria, e le cagioni e l'origine di quella impresa che si prende a trattare vi sono espresse, e per li debiti mezzi si conduce ad un fine, il quale niuna cosa lassi o non ben conclusa o non ben risoluta: come veggiam aver fatto Omero ne l'Odissea, il quale, prima con le peregrinazioni di Telemaco a Nestore ed a Menelao, e poi con le narrazioni d'Ulisse fatte ad Alcinoo, dechiara perfettamente lo stato de le cose, e quel che fosse avvenuto dopo che Ulisse partì da Troia; Virgilio parimente col racconto d'Enea a Didone. E quantunque il poeta rapisca l'auditore nel mezzo de le cose come se fossero note, nondimeno a poco a poco lo va poi informando di quello che prima è succeduto. Ma l'Orlando Innamorato e 'l Furioso non sono intieri, e sono difettosi ne la cognizione di quel che loro appartiene. Manca al Furioso il principio, manca a l'Innamorato il fine; ma ne l'uno non fu difetto d'arte, ma colpa di morte; ne l'altro non ignoranza, ma elezione di finire ciò che dal primo fu cominciato. Che l'Innamorato sia imperfetto, non vi fa mestieri prova alcuna; che non sia intiero il Furioso, è parimente manifesto: però che se noi vorremo che l'azione principale di quel poema sia l'amor di Ruggiero, vi manca il principio; se vorremo che sia la guerra di Carlo e d'Agramante, parimente il principio è desiderato: perché come fosse preso Ruggiero da l'amor di Bradamante non vi si legge; e né meno quando o in che modo gli Africani movessero guerra a' Francesi, se non forse in uno o in due versi accennato; e molte volte i lettori ne la cognizione di queste favole anderebbono al buio, se da l'Innamorato non togliessero ciò ch'a la lor cognizione è necessario. Ma si dee, come ho detto, considerare l'Orlando Innamorato e 'l Furioso non come due libri distinti, ma come un poema solo cominciato da l'uno e con le medesime fila, benché meglio annodate e meglio colorite, da l'altro poeta condotto al fine; ed in questa maniera risguardandolo, sarà intiero poema, a cui nulla manchi per l'intelligenza de le sue favole. Questa condizione de l'integrità mancherebbe parimente ne l'Iliade d'Omero, se vero fosse ch'avesse preso la guerra troiana per argomento del suo poema; ma questa opinione è falsa, benché sia da molti antichi approvata, e da Orazio medesimo, il quale chiamò Omero scrittore de la guerra troiana; e se Omero istesso è buon testimonio de la propria intenzione, non la guerra troiana, ma l'ira d'Achille si canta ne l'Iliade:

Menin aeide, thea, Peleadeo Akhileos
oulomenen, he muri' Akhaiois alghe' etheken,
pollas d'iphthimous psukhas Aldi proiapsen
heroon.
E tutto ciò che de la guerra troiana si dice, propone di dirlo come dipenda da l'ira d'Achille, e come azione ch'accresca la grandezza de la favola e l'ira de l'offeso figliuolo di Peleo; ma le sue cagioni e l'origini si narrano compiutamente ne la venuta di Crisa sacerdote e ne la concessione di Criseide e di Briseide, talché la favola con perpetuo filo sino al fine è condotta, cioè sino a la pace fra Achille ed Agamennone, cagionata da la morte di Patroclo. Laonde perfettissima è quella favola, la quale contiene tutto ciò ch'è necessario per la cognizione di se stessa, né le conviene accattare altronde cose estrinseche. Si può peraventura riprendere alcun moderno poema, nel quale è necessario ricorrere a quella prosa che dinanzi per sua dichiarazione porta scritta, però che questa tal chiarezza che si ha da gli argomenti e da altri sì fatti aiuti, non è né artificiosa, né propria del poeta, ma estrinseca e mendicata.

Ma essendosi trattato a bastanza de la prima condizione richiesta a la favola, passiamo a la seconda, cioè a la grandezza; né paia o soverchio o disconvenevole se, essendosi già ragionato de la grandezza in quel luogo ove de la elezione de la materia si tratta, ora se ne parli ove l'artificio de la forma si dee considerare: perch'ivi a quella grandezza s'ebbe riguardo che portava seco nel poema la materia nuda; qui a quella grandezza s'avrà considerazione che viene nel poema da l'arte del poeta co 'l mezzo de gli episodi. Ricercano le forme naturali, come insegna Aristotele ne' libri de la Natura, una determinata grandezza, e sono circonscritte dentro a certi termini del più e del meno, da i quali né con l'eccesso, né co 'l difetto è lor concesso d'uscire. Ricercano similmente le forme artificiali una quantità determinata; né potrà la forma de la nave introdursi in un grano di miglio, né meno ne la grandezza del monte Olimpo: però ch'allora si dice esservi introdotta la forma non in vano che l'operazione propria e naturale di quella tal forma vi s'introduce; ma non potrà già trovarsi l'operazione de la nave, ch'è di solcare il mare e di condurre gli uomini e le merci da l'uno a l'altro lido, in quantità ch'ecceda di tanto o di tanto manchi. Tale ancora è forse la natura de' poemi; ma non voglio però che si consideri sino a quanta grandezza possa crescer la forma del poema eroico, ma insino a quanta grandezza sia convenevole che s'accresca. Senza alcun dubbio, maggior dee essere la favola epica de la comica e de la tragica, la quale aveva due termini, l'uno artificioso, l'altro privo d'arte: senza artificio era il tempo assegnatole da la clepsidra, ma prendeva artificiosamente il suo termine da la mutazione de la fortuna felice ne l'infelice, o da l'avversa a la prospera; e questo termine istesso legittimo e naturale è chiamato da Aristotele, da Averroe e da gli altri comentatori, esponendo quelle parole: kat'auten phusin tou pragmatos horos: quasi l'arte abbia non solamente le sue leggi, ma la sua natura medesima. Ma non so che l'epopeia avesse alcuna misura o termine estrinseco, quantunque io abbia letto in Ateneo e ne gli altri che l'Iliade e l'Odissea soleano essere recitate ne la scena. Ma senza fallo dee avere il suo termine naturale ed artificioso, il quale ne le favole doppie può esser constituito e quasi fisso ne' duo contrari estremi de la mutazione di fortuna; ma ne le favole semplici non so dove questo termine si possa fermare, se pure non vogliamo che la memoria sia giusta estimatrice de la grandezza del poema. Grande senza fallo conviene che sia quel del poema che dee esser bello: perché sì come ne' corpi piccioli può esser leggiadria, così ne le picciole poesie si loda più tosto la grazia e l'acume che la bellezza o la perfezione. È necessaria dunque la grandezza; ma non di eccedere il convenevole in guisa che si rappresenti Tizio, «lo qual disteso nove campi ingombra»: perciò che le cose troppo smoderate danno sospizione di non esser una, come dice Aristotele ne' Problemi; ma l'unità ne la favola è necessaria, come appresso proveremo. Sia dunque grande abastanza, ma non soverchiamente. Ma sì come l'occhio è dritto giudice de la grandezza del corpo, così il giudicare la quantità de' poemi s'appartiene a la memoria. Grande dunque sarà convenevolmente quella poesia in cui non si perda né si smarrisca, ma, tutta unitamente comprendendola, possa considerare come l'una cosa con l'altra sia congiunta e da l'altra dependente. Ma viziosi senza dubbio sono quei poemi che sono simili a i corpi che non possono esser rimirati in un'occhiata, ed in buona parte perduta è l'opera che vi si spende: ne' quali di poco ha il lettore passato il mezzo che del principio si è dimenticato: però che vi si perde quel diletto che dal poeta, come principale perfezione, dee esser con ogni studio ricercato. Questo è come l'uno avvenimento dopo l'altro necessariamente o verisimilmente succeda, come l'uno con l'altro sia legato e da l'altro inseparabile, e come da una artificiosa testura de' nodi nasca una intrinseca e verisimile ed inaspettata soluzione. E per aventura chi l'Innamorato e 'l Furioso come un solo poema considerasse, gli patria parere la sua lunghezza soverchia anzi che no, e non atta ad esser contenuta in una semplice lezione da una mediocre memoria. Dopo la grandezza siegue l'unità, che fu l'ultima condizione da noi a la favola attribuita. Questa e quella parte, cortesissimo signore, la quale ha data a' nostri tempi occasione di varie e lunghe contese a coloro «che 'l furor literato in guerra mena». Però che alcuni necessaria l'hanno giudicata; altri a l'incontra hanno creduto la moltitudine de le azioni al poema eroico più convenirsi; «et magno iudice se quisque tuetur». Facendosi i difensori de la unità scudo de l'autorità d'Aristotele, de la maestà de gli antichi greci e latini poeti, né mancando loro quelle armi che da la ragione sono concedute, hanno per avversari l'uso de' presenti secoli, il consenso universale de le donne, de' cavalieri e de le corti e, sì come pare, l'esperienza ancora, infallibile paragone de la verità: veggendosi che l'Ariosto il quale, lasciando le vestigia de gli antichi scrittori e le regole d'Aristotele, ha molte e diverse azioni nel suo poema abbracciate, è letto e riletto da tutte l'età, da tutti i sessi, noto a tutte le lingue, piace a tutti, tutti il lodano, vive e ringiovenisce sempre ne la sua fama, e vola glorioso per le lingue de' mortali; ove il Trissino a l'incontro, che i poemi d'Omero religiosamente si pensò d'imitare e d'osservare i precetti d'Aristotele, mentovato da pochi, letto da pochissimi, muto nel teatro del mondo e morto a la luce, sepolto a pena ne le librarie e ne lo studio d'alcun letterato si ritrova. Né mancano in favor di questa parte, oltre l'esperienza, saldi e gagliardi argomenti: però che alcuni uomini dotti ed ingegnosi, o perché così veramente credessero, o pur per mostrar la forza de l'ingegno loro e farsi graziosi al mondo, lusingando a guisa di tiranno (ché tale è veramente) questo consentimento universale, sono andati investigando nuove e sottili ragioni, con le quali l'hanno confermato e fatto più forte. Ma come che abbia costoro in somma riverenza per dottrina e per eloquenza, e l'Ariosto per le medesime cagioni e per felicità d'ingegno e di stile, dico nondimeno che non dee esser seguìto ne la moltitudine de l'azioni, la quale può bene essere scusabile ne l'epopeia rivolgendo la colpa al comandamento de' signori o ad altra ragione sì fatta; ma la scusa sarà più tosto de la fortuna che de l'arte e fia scompagnata d'ogni lode. Né per temerità o a caso mi muovo a così dire; ma per molte ragioni, le quali, o vere o verisimili che siano, possono in me confermare questa opinione. Perché se la pittura e l'altre arti imitatrici ricercano che d'uno una sia l'imitazione, se i filosofi, che vogliono sempre l'esatto e 'l perfetto, fra le principali condizioni richieste ne' lor libri vi cercano l'unità del soggetto, la qual cosa mancandovi imperfetto lo stimano se ne la tragedia e ne la comedia è da tutti giudicata necessaria, dee esser necessaria ancora nel poema eroico, non apparendo niuna causa per la quale questa unità cercata da' filosofi, seguita da' pittori e da' scultori, ritenuta da' comici e da' tragici, debba esser da l'epico fuggita e disprezzata. E se l'unità porta in sua natura perfezione, ed imperfezione la moltitudine, se i pitagorici numerano l'una fra' beni e l'altra fra' mali, se questa a la materia s'attribuisce e quella a la forma, perché ne la buona favola ancora de l'epopeia non sarà ricercata l'unità? Oltre a ciò, presupponendo che la favola sia il fine del poeta (come afferma Aristotele, e niuno ha sin qui negato), s'una sarà la favola, uno sarà il fine; se più e diverse saranno le favole, più e diversi saranno i fini. Ma quanto meglio opera quel che riguarda ad un sol fine di colui il qual diversi fini si propone, tanto ancora sarà più lodato l'imitatore d'una sola favola e d'una sola azione. Aggiungo che da la moltitudine nasce l'indeterminazione; e questo progresso potrebbe andare in infinito, senza che le sia da l'arte prefisso o circonscritto termine alcuno. Laonde dice Aristotele ne' Problemi che noi più volentieri sogliamo udir quelle istorie ch'espongono una cosa solamente de l'altre da le quali più ne sono raccontate, perché siamo più attenti a le cose e possiam meglio intendere le più note. Ma l'uno è più noto, perch'è definito; a l'incontro le cose che son molte participano de l'infinito. Il poeta ch'una favola tratta, finita quella, è giunto al suo fine: chi più ne tesse, o quattro o sei o dieci ne potrà tessere, né più a questo numero che a quello è obligato. Non potrà aver dunque determinata certezza qual sia quel segno ove convenga fermarsi. Ultimamente la favola è la forma essenziale del poema: laonde, se più saranno le favole, l'una de le quali da l'altra non dependa, più saranno conseguentemente i poemi. Essendo dunque questo che chiamiamo un poema di più azioni, non un poema, ma una moltitudine di poemi insieme congiunta, o quei poemi saranno perfetti o imperfetti: se perfetti, bisognerà ch'abbiano la debita grandezza; ed avendola, ne risulterà una mole più grande assai che non sono i volumi de' legisti; se imperfetti, è meglio a far un sol poema perfetto che molti imperfetti. Lascio da parte che se questi poemi son molti e distinti di natura, come si prova per la moltitudine e distinzion de le favole, avranno molto del confuso co 'l mescolare le membra de l'uno con quelle de l'altro. Ma perché io ho detto che il poema di più azioni è una confusione di molti poemi, e prima dissi che l'Orlando Innamorato e 'l Furioso erano un sol poema, non si noti contrarietà ne la mia opinione: però che qui intendo la voce esattamente secondo il suo proprio e vero significato, ed ivi la presi come comunemente s'usa: un sol poema, cioè una sola composizione d'azioni, come si direbbe una sola istoria ed un sol libro. Da queste ragioni mosso peraventura Aristotele, o da altre ch'egli vide ed a me non sovvengono, determinò ch'una fosse la favola del poema.

Ma a questa quasi legge de la Poetica (la qual fu come buona accettata da Orazio là dove egli disse: «Ciò che si tratta, sia semplice ed uno») vari con varie ragioni hanno ripugnato, escludendo da que' poemi eroici che romanzi si chiamano l'unità de la favola, non solo come non necessaria, ma come dannosa eziandio. Ma non voglio referir già tutto ciò ch'intorno a questa materia è detto da loro, perché alcune cose si leggono in alcuni assai leggiere e indegne di risposta. Solo addurrò quelle ragioni che con maggior similitudine di verità confermano questa opinione: le quali in somma a quattro si riducono, e sono queste. Il romanzo (così chiamano il Furioso e gli altri simili) è specie di poesia diversa da la epopeia, e non conosciuta da Aristotele; per questo non è obligata a quelle regole che dà Aristotele de la epopeia. E se dice Aristotele che l'unità de la favola è necessaria ne l'epopeia, non dice però che si convenga a questa poesia di romanzi non conosciuta da lui. Aggiungo la seconda ragione. Ogni lingua ha da la natura alcune condizioni proprie e naturali di lei ch'a gli altri idiomi per niun modo convengono: il che apparirà manifesto a chi andrà minutamente considerando quante cose ne la greca favella hanno grazia ed efficacia meravigliosa, de la quale son prive ne la latina; e quante ve ne sono, ch'avendo forza e virtù grandissima ne la latina, la perdono ne la toscana, e riescono fredde e quasi sciocche. Ma fra l'altre condizioni che porta seco la nostra favella italiana, una è questa, cioè la moltitudine de le azioni; e sì come a' Greci e Latini disconvenevole sarebbe la moltitudine de le azioni, così a' Toscani l'unità de la favola non si conviene. Oltre a ciò, quelle poesie sono migliori che da l'uso sono più approvate, appo il quale è l'arbitrio e la podestà così sovra la poesia come sovra l'altre cose; e di ciò fa testimonianza Orazio ove dice:

quem penes arbitrium est et ius et norma loquendi:

ma questa maniera di poesia, che romanzo si chiama, è più approvata da l'uso: migliore dunque dee esser giudicata. Ultimamente così concludono: Quello è più perfetto poema che meglio conseguisce il fine de la poesia; ma molto meglio è conseguito dal romanzo che da l'epopeia, cioè da la moltitudine che da la unità de le azioni: si dee dunque il romanzo a l'epopeia preporre; ma che 'l romanzo meglio conseguisca il fine è così noto, che non vi fa quasi mestiero prova alcuna, però che, essendo il fine de la poesia il dilettare, maggior diletto ci recano i poemi di più favole che d'una sola, come l'esperienza ci dimostra.

Questi sono i fondamenti sovra i quali si sostiene l'opinione di coloro che la moltitudine de le azioni hanno giudicata ne' romanzi conveniente: saldi sì come a lor pare, ma non tanto che da le macchine de la ragione non possano esser espugnati (se pur la ragione sta da la parte contraria, come a me giova di credere), e contra i quali la debolezza del mio ingegno non resterò d'adoperare.

Ma vegnamo al primo fondamento ove dice: È il romanzo spezie distinta da l'epopeia non conosciuta da Aristotele; per questo non dee cadere sotto quelle regole a le quali egli obbliga l'epopeia. Se il romanzo è spezie distinta da l'epopeia, chiara cosa e che per qualche differenza essenziale è distinto, perché le differenze accidentali non possono fare diversità di spezie; ma non trovandosi tra il romanzo e l'epopeia differenza alcuna specifica, ne segue chiaramente che distinzione alcuna di spezie fra loro non si trovi. Che non si trovi fra loro differenza alcuna essenziale, a ciascuno agevolmente può esser manifesto. Tre solamente sono le differenze specifiche ne la poesia, come nel precedente Discorso dicemmo: la diversità de le cose imitate, la diversità d'imitare e la diversità de gl'istromenti co' quali s'imita. Per queste sole gli epici, i comici, i tragici sono differenti. Da queste, se pur vi fosse, nascerebbe la diversità de la spezie fra 'l romanzo e l'epopeia. Ma il romanzo imita le medesime azioni, imita co 'l medesimo modo, imita con gli stessi istrumenti; e dunque de la medesima spezie. Imitano il romanzo e l'epopeia le medesime azioni, cioè l'illustri; né solo è fra loro quella convenienza d'imitar l'illustri in genere, che è fra l'epico e 'l tragico, ma ancora una più particolare e più stretta d'imitare il medesimo illustre, quello, dico, che non è fondato sovra la grandezza de' fatti orribili e compassionevoli, ma sovra le generose e magnanime azioni de gli eroi; e non si determina con le persone di mezzo fra 'l vizio e la virtù, ma elegge le valorose in supremo grado di eccelenza: la qual convenienza d'imitare chiaramente si vede fra' nostri romanzi e gli epici de' Latini e de' Greci. Imita il romanzo e l'epopeia con l'istesso maniera: ne l'uno e ne l'altro poema vi appare la persona del poeta; vi si narrano le cose, non vi si rappresentano; né hanno per fine la scena e l'azioni de gl'istrioni, come la tragedia e la comedia. Imitano co' medesimi istrumenti: l'uno e l'altro usa il verso nudo, al quale non paion necessari il ritmo e l'armonia che son ricercati quasi necessariamente da' versi tragici e da' comici. Da la convenienza dunque de le azioni imitate e de gl'istrumenti e del modo di imitare si conclude esser la medesima spezie di poesia quella che epica vien detta e quella che romanzo si chiama. Onde poi questo nome di romanzo sia derivato, varie sono l'opinioni ch'ora non fa mestieri di raccontare; ma non e inconveniente che sotto la medesima spezie alcuni poemi si trovino diversi per diversità accidentali, i quali con diverso nome siano chiamati: sì come fra le comedie alcune sono vecchie, altre nuove, altre di mezza età; altre far dette palliate (le quali furono de' Greci), altre togate (che furon de' Romani), e quelle ch'introducevano persone più nobili si dimandarono pretestate; altre atellane, da Atella città de la Campania; alcune tabernarie; alcune altre per l'unità de l'argumento fur dette planipedie; alcune mimi e rintonice. Se dunque il romanzo e l'epopeia sono d'una medesima spezie, a gli obblighi de le stesse leggi deono esser ristretti, massimamente parlando di quelle che non solo in ogni poema eroico, ma in ogni poema assolutamente sono necessarie. Tale è l'unità de la favola, la quale Aristotele ricerca in ogni spezie di poema, non più ne l'eroico che nel tragico o nel comico: onde se fosse vero ciò che si dice del romanzo, non però ne seguirebbe che l'unità de la favola non fosse in lui secondo il parer d'Aristotele necessaria. Ma che ciò non sia vero, a bastanza mi pare dimostrato: perché, se pur volevano affermare che 'l romanzo è spezie distinta da l'epopeia, conveniva lor dimostrare ch'Aristotele è manco e difettoso ne l'assegnare le differenze (come ha creduto alcuno che, dipoi ch'io ebbi scritte alcune di queste cose, comentò la Poetica d'Aristotele, la quale a lui pare un di que' libri che son detti memoriali, e ciò prova con l'autorità d'Ammonio, forse ingannato da la memoria: perché non Ammonio, ma Simplicio sovra i predicamenti fa menzione de' libri memoriali d'Aristotele; ma perché quelli contenevano varie cose che non erano drizzate ad un fine e ad una intenzione, e ne la Poetica tutte sono drizzate ad un medesimo segno, è necessario che quel libro non sia memoriale; e chi ben considera quelle differenze, da le quali par che proceda diversità di spezie fra 'l romanzo e l'epopeia, sono in guisa accidentali che non è più ne l'uomo l'esser esercitato nel corso e ne la lotta o saper l'arte de lo schermo. Tale è quella che l'argomento del romanzo sia finto, e quello de l'epopeia preso da la istoria. Che se questa fosse differenza specifica, necessariamente sarebbono diversi di spezie tutti que' poemi fra' quali questa differenza si ritrovasse. Diversi dunque di spezie sarebbono il Fior d'Agatone e l'Edippo di Sofocle, ed in somma quelle tragedie il cui argomento fosse finto, da quelle che l'avessero da l'istoria; e, secondo la ragione usata da loro, la tragedia d'argomento finto non avrebbe l'obligo di quelle medesime regole che ha la tragedia d'argomento vero. Onde né l'unità de la favola sarebbe in lei necessaria, né 'l movere il terrore e la compassione sarebbe il suo fine. Ma questo, senza alcun dubbio, è inconveniente; inconveniente dunque sarebbe ancora che la finzione o verità de l'argomento fosse differenza specifica. Del medesimo valore sono l'altre differenze ch'assegnano, e co' fondamenti de l'istessa ragione si possono confutare. E perché molti hanno creduto che 'l romanzo sia spezie di poesia non conosciuta da Aristotele, non voglio tacer questo, che spezie di poesia non è oggi in uso, né fu in uso ne gli antichi tempi, né per un lungo volger de' secoli di novo sorgerà, ne la cui cognizione non si debba credere che penetrasse Aristotele con quella medesima sottigliezza d'ingegno con la quale tutte le cose ch'in questa gran macchina Dio e la Natura rinchiuse sotto dieci capi dispose, e con la quale, tanti e sì vari sillogismi ad alcune poche forme riducendo, breve e perfetta arte ne compose. Vide Aristotele che la natura de la poesia non era altro che imitare; vide conseguentemente che la diversità de le sue spezie non poteva in lei altronde derivare che da qualche diversità de l'imitazione; e che questa varietà solo in tre guise potea nascere, o da le cose o dal modo o da gli istromenti. Vide dunque quante potevano essere le differenze essenziali de la poesia; ed avendo viste le differenze, vide in conseguenza quante potevano essere le sue spezie; perché, essendo determinate le differenze che constituiscono le spezie, determinate conviene che sian le spezie, e tante solamente quanti sono i modi ne' quali possono congiungersi le differenze.

Era la seconda ragione, ch'ogni lingua ha alcune particolari proprietà e che la moltitudine de le azioni è propria de' poemi toscani, come è l'unità de' latini e de' greci. Non nego io che ciascuno idioma non abbia alcune forme proprie di lui: però che alcune elocuzioni veggiamo così proprie d'una lingua che 'n altra favella dicevolmente non possono esser trasportate: però disse Iamblico nel suo trattato De' misteri che ciascuna gente ha alcune cose proprie, le quali non possono esser significate a l'altre nazioni, e che le proprietà de le significazioni interpretate per altra lingua non conservano l'intessa mente. Avevano i nomi de' barbari molta efficacia ed una concisa brevità; e ne la significazione de le cose divine erano a tutti gli altri anteposti, e fu usata gran perseveranza nel conservarli; ma i Greci furono amatori di cose nuove, e per l'instabilità trasformarono la pura elocuzione. È nondimeno la lingua greca molto atta a la espressione d'ogni minuta cosa; a questa istessa espressione inetta è la latina, ma molto più capace di grandezza e di maestà; e la nostra lingua toscana, se bene con egual suono ne la descrizione de le guerre non ci riempie gli orecchi, con maggior dolcezza nondimeno ci lusinga nel trattare le passioni amorose. Quello dunque ch'è proprio d'una lingua, o è elocuzione, e ciò nulla importa al nostro proposito, parlando noi d'azioni e non di parole; o pur diremo proprie d'una lingua quelle materie, le quali meglio da lei che da altra sono trattate, com'è la guerra da la latina, e l'amore da la toscana. Ma chiara cosa è che se la toscana favella sarà atta ad esprimere molti accidenti amorosi, sarà parimente atta ad esprimere uno; e se la lingua latina sarà disposta a trattare un successo di guerra, sarà parimente disposta a trattarne molti. Si ch'io per me non posso conoscere la cagione che l'unità de le azioni sia propria de' latini poemi, e la moltitudine de' volgari. Né peraventura ragione alcuna se ne può rendere: perché se costoro a me chiederanno per qual cagione le materie de la guerra sono stimate più proprie de la latina, e l'amorose de la toscana, risponderei che ciò si dice avvenire per le molte consonanti de la latina e per la lunghezza del suo esametro più atto a lo strepito de le armi ed a la guerra, e per le vocali de la toscana e per l'armonia de le rime più convenevole a la piacevolezza de gli affetti amorosi. Ma non però queste materie sono in guisa proprie di questi idiomi che l'arme ne la toscana e gli amori ne la latina non possano convenevolmente essere cantate da eccelente poeta. Concludendo dunque dico che, se ben è vero ch'ogni lingua abbia le sue proprietà, è detto nondimeno senza ragione alcuna che la moltitudine de le azioni sia propria de' volgari poemi, e l'unità de' latini e de' greci.

Né più malagevole è il rispondere a la terza ragione, la quale era che quelle poesie sono più eccelenti che più sono approvate da l'uso: onde più eccelente è il romanzo de l'epopeia, essendo più da l'uso approvato. A questa ragione volendo io contradire, conviene che per maggior intelligenza e chiarezza de la verità derivi da più alto principio il mio ragionamento. Si ritrovano alcune cose che in sua natura non sono né buone né ree, ma, dependendo da l'uso, buone o ree sono secondo che l'uso le determina. Tale è il vestire, che tanto e lodevole quanto da la consuetudine viene accettato; tale è forse il parlare; e perciò fu convenevolmente risposto a colui: «Vivi come vissero gli uomini antichi, e parla come oggidì si ragiona»: quinci avviene che molte parole, che già scelte e pellegrine furono, or, trite da le bocche de gli uomini, comuni, vili e popolaresche sono divenute; molte, a l'incontra, che prima come barbare ed orride erano schivate, or come vaghe e cittadine si ricevono; molte ne invecchiano, molte ne muoiono, e rinascono e rinasceranno molte altre, come piace a l'uso, che con pieno e libero arbitrio le governa; e questa mutazion de le voci fu con la comparazion de le foglie mirabilmente espressa da Orazio:

Ut sylvae foliis pronos mutantur in annos,
prima cadunt, ita verborum vetus interit aetas,
et iuvenum ritu florent modo nata vigentque.

E soggiunge:

Multa renascentur quae iam cecidere, cadentque
quae nunc sunt in honore vocabula, si volet usus,
quem penes arbitrium est et ius et norma loquendi.

Per questa ragione concludono i peripatetici, contra quello che alcuni filosofi credettero, che le parole non siano opere da la natura composte, né più in lor natura significhino una cosa che un'altra: perché se tali fossero, da l'uso non dependerebbono; ma che siano fattura de gli uomini: onde, come a lor piace, può or questo, or quel concetto esser da esse significato: e, non avendo bruttezza o bellezza alcuna che sia lor propria e naturale, belle e brutte paiono secondo l'uso le giudica: il quale, mutabilissimo essendo, è necessario che mutabili sieno tutte le cose che dependono da la consuetudine. Tali in somma sono non solo il vestire e 'l parlare, ma tutte quelle che con un nome comune si chiamano usanze e fogge. Queste, come il lor nome dimostra, da la consuetudine al biasimo ed a la lode sono determinate. E sotto questa considerazione caggiono molte di quelle opposizioni che si fanno ad Omero intorno al decoro de le persone, come alcuni dicono, mal conosciuto da lui. Alcune altre cose si ritrovano poi che tali determinatamente sono in sua natura: cioè o buone o ree sono per se stesse, e non ha l'uso sovra loro imperio o autorità niuna. Di questa sorte e il vizio e la virtù: per se stesso è malvagio il vizio; per se stessa è onesta la virtù; e l'opere virtuose e viziose sono per se stesse e lodevoli e degne di biasimo. E quel che per se stesso e tale, benché i costumi si variino, sempre nondimeno è sì fatto. Laonde il pascersi di carne umana sempre sarà riputato ferità, benché appresso alcune nazioni fosse in uso. Sempre fu e sarà virtù la pudicizia, quantunque le donne spartane fossero riputate men caste. S'una volta meritò lode colui che rifiutò l'oro de' Sanniti o colui che «legò sé vivo, e 'l padre morto sciolse», non saran mai biasimati di sì nobile operazione. Di questa sorte sono parimente l'opere de la natura: laonde quel ch'una volta fu eccelente, mal grado de la instabilità de l'uso, sarà sempre eccelente. È la natura stabilissima ne le sue operazioni, e procede sempre con un tenore certo e perpetuo, se non quanto per difetto ed incostanza de la materia si vede talor variare: perché, guidata da un lume e da una scorta infallibile, riguarda sempre il buono e 'l perfetto, ed essendo il buono e 'l perfetto sempre il medesimo, conviene che 'l suo modo di operare sia sempre l'istesso. Opera de la natura è la bellezza, la qual consistendo in certa proporzion di membra con grandezza convenevole e con vaga soavità di colori, queste condizioni che belle per se stesse una volta furono, belle sempre saranno, né potrebbe l'uso fare ch'altrimente paressero: sì come a l'incontra non può far l'uso sì che belli paiano i capi aguzzi o i gozzi fra quelle nazioni ove si veggiano ne la maggior parte de gli uomini e de le donne. Ma tali in se stesse essendo l'opere de la natura, tali in se stesse conviene che siano l'opere di quell'arte che, senza alcun mezzo, de la natura è imitatrice. Laonde ragionevolmente da Cicerone ne la Topica la natura e l'arte sono annoverate fra le cagioni le quali hanno costanza, perché non sogliono variare i loro effetti, come in quel luogo medesimo dechiara Boezio. E per fermarsi su l'esempio dato, se la proporzion de le membra per se stessa è bella, questa medesima, imitata dal pittore e da lo scultore, per se stessa sarà bella; e se lodevole è il naturale, lodevole sarà sempre l'artificioso che al naturale s'assomiglia. Quinci avviene che quelle statue di Prassitele o di Fidia che salve da la malignità de' tempi ci sono rimase, così belle paiono ai nostri uomini, come belle a gli antichi solevano parere; né il corso di tanti secoli o l'alterazione di tante usanze cosa alcuna ha potuto scemare de la loro degnità. Avendo io in questo modo distinto, facilmente a quella ragione si può rispondere, ne la quale si dice che più eccelenti sono quelle poesie che più approva l'uso, perché ogni poesia è composta di parole e di cose. In quanto a le parole ora concedasi (poiché nulla rileva al nostro proposito) che quelle migliori siano che più da l'uso sono commendate, però che in se stesse né belle sono, né brutte; ma quali paiono, tali la consuetudine le fa parere: onde alcune voci che appresso l'imperator Federico ed il re Enzo ed appo gli altri antichi dicitori furono in prezzo, suonano a l'orecchio nostre un non so che di spiacevole. Le cose poi che da l'usanza dependono, come la maniera de l'armeggiare, i modi de l'avventure, i costumi de' sacrifici e de' conviti, le cerimonie, il decoro e la maestà de le persone, queste, dico, come piace a l'usanza che oggi vive e signoreggia il mondo, si possono accomodare. Però disconvenevole sarebbe ne la maestà de' nostri tempi ch'una figliuola di re insieme con le vergini sue compagne andasse a lavare i panni al fiume; e questo in Nausicaa, introdotta da Omero, non era in que' tempi degno di riprensione. Parimente chi 'n cambio de la giostra descrivesse il combatter su i carri, meriterebbe picciola lode, e molte altre cose simili che per brevità trapasso. In questa parte non fu lodato il Trissino ch'imitò in Omero quelle cose ancora che avea rendute men lodevoli la mutazione de' costumi. Ma quelle che per se stesse sono buone, non hanno riguardo alcuno a la consuetudine, né la tirannide de l'uso sovra loro in parte alcuna si estende. Tale è l'unità de la favola, che porta in sua natura bontà e perfezione nel poema, sì come in ogni secolo passato e futuro ha recato e recherà. Tali sono i costumi: non quelli che con nome d'usanze sono chiamati, ma quelli de' quali formiam gli abiti che si possono aggiungere fra le cause costanti, come parve a Boezio, anzi ad Aristotele istesso; e di loro parla Orazio in que' versi:

Reddere qui voces iam scit puer, et pede certo
signat humum, gestit paribus colludere, et iram
colligit ac ponit temere et mutatur in horas;

ed Aristotele lungamente ne la Retorica. A questi costumi del fanciullo, del vecchio, del ricco, del possente, del povero, del nobile e de l'ignobile, quel che in un secolo è convenevole, in ogni secolo è convenevole: ché se ciò non fosse, non n'avrebbe parlato Aristotele: però ch'egli di sole quelle cose fa professione di ammaestrarci che sotto l'arte possono cadere; e l'arte essendo costante e determinata, non può comprendere sotto le sue regole ciò che, dependendo da la instabilità de l'uso, è mutabile ed incerto. Sì come anco non avrebbe ragionato de l'unità de la favola, s'egli non avesse giudicata questa condizione essere in ogni secolo necessaria. Ma mentre vogliono alcuni nuova arte sovra nuovo uso fondare, la natura de l'arte distruggono, e quella de l'uso mostrano di non conoscere. Questa è, signor mio, la distinzione senza la quale non si può rispondere a coloro che dimandassero quali poemi debbono esser piuttosto imitati, o quelli de gli antichi epici o quelli de' moderni romanzatori: perché in alcune cose a gli antichi, in alcune a' moderni debbiamo assomigliarci. Questa distinzione mal conosciuta dal vulgo, che suol più rimirare gli accidenti che la sostanza de le cose, è cagione ch'egli, credendo di conoscer poca convenevolezza di costumi e poca leggiadria d'invenzioni in que' poemi ne' quali la favola è una, crede che l'unità de la favola sia parimente biasimevole. Questa medesima distinzione mal conosciuta da alcuni dotti gli indusse a sprezzar la piacevolezza de le avventure e de le cavallerie de' romanzi e il decoro de' costumi moderni, lodando ne gli antichi insieme con l'unità de la favola l'altre parti ancora che ci sono men care e non gradite. Questa, ben conosciuta e ben usata, fia cagione che con diletto non meno de gli uomini volgari che de gli intelligenti i precetti de l'arte siano osservati, prendendosi da l'un lato, con quella vaghezza d'invenzioni che ci rendono sì grati i romanzi, il decoro de' nostri tempi, da l'altro con l'unità de la favola la gravità e la verisimilitudine che si vede ne' poemi d'Omero e di Virgilio.

Resta l'ultima ragione, la qual era ch'essendo il fine de la poesia il diletto, quelle poesie sono più eccelenti che meglio questo fine conseguiscono; ma meglio il conseguisce il romanzo che l'epopeia, come l'esperienza dimostra. Concedasi quel che si può negare, cioè che 'l diletto sia il fine de la poesia; concedo parimente quel che l'esperienza ci dimostra, cioè che maggior diletto rechi a' nostri uomini il Furioso che l'Italia liberata o pur l'Iliade o l'Odissea. Ma nego però quel ch'è principale e che importa tutto nel nostro proposito: cioè che la moltitudine de le azioni sia più atta a dilettare che l'unità: perché il contrario si prova con l'autorità d'Aristotele e con la ragione ch'egli adduce ne' Problemi; e benché più diletta il Furioso, il quale molte favole contiene, che altro poema toscano o pur i poemi d'Omero, non avviene per rispetto de la unità o de la moltitudine, ma per due ragioni le quali nulla rilevano nel nostro proposito. L'una, perché nel Furioso si leggono amori, cavallerie, venture ed incanti, ed in somma invenzioni più vaghe e più accomodate a le nostre orecchie; l'altra, perché ne la convenevolezza de le usanze e nel decoro attribuito a le persone l'Ariosto è più eccelente di molti altri. Queste cagioni sono accidentali a la moltitudine ed a l'unità de la favola, e non in guisa proprie di quella che a questa non siano convenevoli. Laonde non si dee concludere che più diletti la moltitudine che l'unità. Ma per un'altra cagione peraventura si potrebbe provare: perciò che, essendo la nostra umanità composta di nature assai fra loro diverse, è necessario che d'una istessa cosa sempre non si compiaccia, ma con la diversità procuri or a l'una, or a l'altra de le sue parti sodisfare; essendo dunque la varietà dilettevolissima a la nostra natura, potranno dire ch'assai maggior diletto si trovi ne la moltitudine che ne l'unità de la favola. Né già io niego che la varietà non rechi piacere, perché il negar ciò sarebbe un contradire a la esperienza ed a' sentimenti, veggendo noi che quelle cose ancora che per se stesse sono spiacevoli, per la varietà nondimeno care ci divengono, e che la vista de' deserti e l'orrore e la rigidezza de le alpi ci piace dopo l'amenità de' laghi e de' giardini: dico bene che la varietà è lodevole sino a quel termine che non passi in confusione, e per poco l'unità n'è capace sino a questo termine istesso, perché a l'unità, che non è la prima, è accidentale, come dice Boezio, la moltitudine; e se la diversità sì fatta non si vede in poema d'una azione, si dee credere che sia più tosto imperizia de gli artefici che difetto de l'arte, i quali, per iscusare forse la loro insofficienza, questa lor propria colpa attribuiscono a l'arteficio. Non era peraventura così necessaria questa varietà a' tempi di Virgilio e d'Omero, essendo gli uomini di quel secolo di gusto non così isvogliato; però non tanto v'attesero: maggiore nondimeno in Virgilio che in Omero si ritrova. Gratissima era a' nostri tempi; e perciò devevano i nostri poeti co' sapori di questa varietà condire i loro poemi, volendo che da questi gusti sì delicati non fossero schivati; e s'alcuni non tentarono d'introdurlavi, o non conobbero il bisogno o il disperarono come impossibile. Io e soavissima nel poema eroico la stimo e possibile a conseguire: però che, sì come in questo mirabile magisterio di Dio che mondo si chiama, e 'l cielo si vede sparso o distinto di tanta varietà di stelle e, discendendo poi giù di regione in regione, l'aria e 'l mare pieni di uccelli e di pesci, e la terra albergatrice di tanti animali così feroci come mansueti, ne la quale e ruscelli e fonti e laghi e prati e campagne e selve e monti sogliamo rimirare, e qui frutti e fiori, là ghiacci e nevi, qui abitazioni e culture, là solitudine ed orrori, con tutto ciò uno è il mondo che tante e sì diverse cose nel suo grembo rinchiude, una la forma e l'essenza sua, uno il nodo dal quale sono le sue parti con discorde concordia insieme congiunte e collegate, e, non mancando nulla in lui, nulla però vi è che non serva a la necessità o a l'ornamento: così parimente giudico che da eccelente poeta (il quale non per altro è detto divino, se non perché, al supremo artefice ne le sue operazioni assomigliandosi, de la sua divinità viene a partecipare) un poema formar si possa, nel quale, quasi in un picciolo mondo qui si leggano ordinanze di eserciti, qui battaglie terrestri e navali, qui espugnazioni di città, scaramucce e duelli, qui giostre, qui descrizioni di fame e di sete, qui tempeste, qui incendi, qui prodigi; là si trovino concilii celesti ed infernali, là si veggiano sedizioni, là discordie, là errori, là venture, là incanti, là opere di crudeltà, di audacia, di cortesia, di generosità, là avvenimenti d'amore, or felici, or infelici, or lieti, or compassionevoli; ma che nondimeno uno sia il poema che tanta varietà di materie contegna, una la forma e l'anima sua, e che tutte queste cose sieno di maniera composte che l'una l'altra riguardi, l'una a l'altra corrisponda, l'una da l'altra o necessariamente o verisimilmente dependa, sì che una sola parte o tolta via, o mutata di sito, il tutto si distrugga. E se ciò fosse vero, l'arte del comporre il poema sarebbe simile a la ragion de l'universo, la qual e composta de' contrari, come la ragion musica: perché s'ella non fosse moltiplice, non sarebbe tutta, né sarebbe ragione, come dice Plotino. Ma questa varietà sì fatta tanto sarà più meravigliosa, quanto recherà seco più di malagevolezza e quasi d'impossibilità, non potendo le qualità contrarie ritrovarsi insieme, se non eminentemente come nel cielo, o almeno rintuzzate come ne gli elementi. Nel poema dunque nel quale si congiungesse la tragedia con la comedia, il riso non dovrebbe esser riso se non rintuzzato. È certo assai agevol cosa e di niuna industria il far che 'n molte e separate azioni nasca gran varietà di accidenti; ma che la istessa varietà in una sola azione si trovi, « hoc opus, hic labor est». In quella che nasce da la moltitudine de le favole per se stessa, arte o ingegno alcuno del poeta non si conosce, e può essere a' dotti e a gl'indotti comune; questa in tutto da l'artificio del poeta depende, e conseguita da lui solo si riconosce, né può da mediocre ingegno essere conseguita: quella tanto meno diletterà, quanto sarà più confusa e meno intelligibile; questa, per l'ordine e per la legatura de le sue parti, non solo sarà più chiara e più distinta, ma porterà molto maggior novità e meraviglia. Una dunque dee esser la favola e la forma, come in ogni altro poema, così in quelli che trattano l'armi e gli amori de gli eroi e de' cavalieri erranti, i quali con nome comune son chiamati poemi eroici. Ma una si dice la forma in più guise. Una si dice la forma de gli elementi, la quale è semplicissima e di semplice virtù e di semplice operazione; una si dice parimente la forma de le piante e de gli animali: questa, mista e composta, risulta da le forme de gli elementi insieme raccolte e rintuzzate ed alterate, de la virtù e de la qualità di ciascuna di loro participando. Ed una si dice la lettera e la parola; ed una, per composizione di molte lettere e di molte parole, è detta l'orazione, sì come insegna Aristotele ne' libri de l'Interpretazione. E ne la poesia l'unità si considera in molti modi; e le favole son dette semplici o doppie o miste in vari significati. Doppie chiama Aristotele alcune favole, ne le quali altre persone passano di felicità in miseria, altre di miseria in felicità; e la composizione di queste egli biasima ne la tragedia, come conveniente a l'epopeia. In altra significazione semplici sono le favole di quelle tragedie che non hanno agnizione, né mutamento di felice fortuna in miseria, o al contrario; doppie quelle ne le quali con l'agnizione sono gran rivolgimenti di fortuna. Patetiche o affettuose si dicono quelle in cui è la perturbazione, che fu posta per terza parte de la favola. E quelle, a l'incontra, le quali sono senza questa parte, ma che più manifestano il costume, sono dette morate o costumate. Ma questo è luogo senza fallo di dichiarar più minutamente quel che sia la peripezia, l'agnizione e la perturbazione, che sono le parti de la favola. La peripezia e mutazione de le cose che si fanno, in contrario: la qual, come dice Aristotele, si fa o verisimilmente o di necessità: in contrario, intendiamo da la prospera ne l'avversa fortuna, o da l'avversa ne la prospera. Questo secondo modo si conviene a l'epopeia, a la comedia o ad alcune tragedie le quali da' moderni impropriamente son dette tragicomedie. Il primo è proprio de la tragedia; ma alcuna volta la mutazione è doppia, perché altri passa da miseria in felicità, altri da felicità in miseria, come si vede in Carlo ed Agramante; e questa doppia mutazione conviene più a l'epopeia ch'a gli altri poemi. L'agnizione è de le cose inanimate o del fatto o de le persone: de le cose inanimate, come quella d'Edippo, il qual riconosce il bosco sacro a le Furie, e di M. Torello che riconosce la chiesa dov'egli fu portato per arte magica; ma questa il più de le volte par che abbia per fine l'altra de le persone. L'agnizione del fatto è più propria de gli oratori che de' poeti, de' quali è propriissima l'agnizione de la persona, la quale è una mutazione de l'ignoranza ne la notizia, affine d'amicizia o di nemicizia fra coloro che divengono felici o infelici. Per questa cagione bellissima è l'agnizione s'è congiunta con la mutazione de la fortuna, com'è ne l'Edippo tiranno. Di queste alcuna è semplice agnizione; altra mutua o vicendevole. Semplice agnizione è quella ne l'Odissea, ne la quale Ulisse non conosciuto conosce Eumeo, Euriclea, Telemaco, Penelope, da' quali al fine è riconosciuto. Doppia o scambievole è ne l'Ifigenia in Tauris, quando ella riconosce Oreste, e da lui è riconosciuta; o quella di Filotete ne la tragedia che fece Sofocle di questo nome, in cui egli riconosce Neoptolemo ed Ulisse, essendo prima conosciuto da loro. Una nondimeno può esser l'agnizione, come appare in alcuni de gli esempi già detti; ed alcuna volta l'agnizione è non solamente de le persone vive, ma de le morte, come quella d'Edippo che riconosce Iocasta, sua madre, viva e Laio, suo padre, morto; o quella di Tieste che riconosce morti i figliuoli. Ma in sei modi si fa l'agnizione. Nel primo, meno di tutti artificioso, si fa per segni; e questi o sono infissi e colorati ne la pelle, come la lancia ne' figliuoli de la Terra nati da' denti seminati da Cadmo e ne' loro discendenti, e la stella o la spalla d'avorio ne' figliuoli e nepoti di Pelope, o le lettere nel petto di Splandiano, come si legge ne l'Amadigi; altri sono accidentali, come la cicatrice d'Ulisse ne la gamba, per la quale fu riconosciuto nel bagno, o quella che Beltenebroso avea nel volto fatta da la lancia d'Archeloro, per cui fu raffigurato da la donzella di Davismara; altri sono estrinseci, come la spada per la quale Teseo fu riconosciuto da Egeo suo padre, e la scafa in cui furono esposti Romolo e Remo, ch'essendo portata da Faustulo sotto la vesta, fu cagione che Numitore loro avolo si certificasse de' nepoti; e questi ancora possono usarsi più e meno artificiosamente. La seconda maniera di agnizione non è tanto priva d'artificio, perch'è fatta per le cose finte dal poeta; come, appresso Euripide, Oreste è conosciuto da Ifigenia sua sorella da lor lettera, ed egli riconosce lei ad altri indizi; ma perché questa nasce più tosto da la volontà del poeta che da la composizione de la favola, agevolmente incorre nel medesimo errore; e tale ne l'Inferno è peraventura l'agnizione di Cianfa (il quale fu nominato e conosciuto per lo suo nome, non perché la favola il ricercasse, ma perché il poeta così volle), ed il riconoscimento di Geri del Bello. Il terzo modo di riconoscimento si fa ricordandosi d'alcuna cosa per la quale egli si manifesti e sia riconosciuto: come Ulisse, nel racconto che si fa appresso Alcinoo, pianse per la memoria de le cose udite, e dal pianto fu riconosciuto. Il quarto è per sillogismo: nel qual modo Oreste fu riconosciuto da Elettra in una tragedia d'Eschilo, perché ella in questa guisa argomentò: «Niuno ha le vestigia pari a le mie, se non Oreste; ma queste vestigia sono eguali a quelle de' miei piedi; dunque Oreste è qui venuto»; e ne l'Ifigenia di Polide il sofista Oreste sillogizzò ch'a lui si convenisse d'esser sacrificato, perché la sorella ancora fu offerta al sacrificio; e fu per questo suo sillogismo riconosciuto da la sorella con questo altro argumento: «Se questo è fratello di chi fu offerta al sacrificio, è mio fratello». In questa medesima maniera Agricane riconobbe Orlando, quando gli disse:

Se tu sei cristiano, Orlando sei:

però ch'egli stimava che niun altro cristiano avesse potuto combatter seco del pari. L'altra spezie d'agnizione si fa nel teatro per paralogismo, o per falso sillogismo, il quale si fa de le cose non conosciute come s'elle fosser conosciute: in questa guisa, nel Falso messaggiero, colui che non aveva mai veduto l'arco d'Ulisse disse di riconoscer l'arco, e cercò d'acquistar fede a le cose ch'egli narrava de la sua morte. Ma ottima agnizione e bellissima oltre tutte l'altre è quella che nasce da la composizione de la favola stessa, ed è congiunta co 'l mutamento de la fortuna, com'è quella d'Edippo e quella d'Alvida nel Torrismondo. La terza parte de la favola è la passione, o la perturbazione che vogliamo dirla, la qual consiste ne le morti che si fanno in publico e ne le ferite e ne' lamenti e ne l'altre cose ch'apportano dolore; e, come ad alcuni parve ne l'Iliade d'Omero, questa è quella parte ne la quale sovra il corpo d'Ettore già morto si lamentano Priamo, Ecuba, Andromache, Elena. Ma sì come queste parti variamente si compongono co 'l costume, ne risultano vari generi di favola. Sì che quattro sono i generi, o le maniere o le forme che vogliam dir, di favola: il semplice e 'l doppio, l'affettuoso e 'l morale. E talora sono accoppiate, come piace ad Aristotele, in due guise: ne l'una s'accoppia il semplice e l'affettuoso, ne l'altra il doppio e 'l costumato. Semplice e compassionevole è l'Iliade; morata e doppia è l'Odissea. Ma peraventura si possono congiungere in due altre guise: ne l'una potrà stare il semplice e 'l costumato; ne l'altra il doppio e 'l perturbato. Anzi, se la peripezia o 'l rivolgimento è cagione di perturbazione, non veggio come questa coppia potesse meglio congiungersi insieme; e, s'ella si congiunge ne la tragedia, non so perché non si possa congiungere ed accoppiare ne l'epopeia. Ma in un altro modo ancora s'intende la favola esser doppia o mista: cioè quando ella contenga in sé molti argomenti e quasi molte favole: la qual mescolanza si può trovare ancora in quelle favole che non hanno mutazione di fortuna congiunta co 'l riconoscimento, come non ha l'Iliade, in cui, benché vi sia gran mutazione, non procede però da l'agnizione. Laonde Aristotele la volle chiamar semplice anzi che no. Di questa mescolanza si fece accorto Aristotele quando, disputando qual dovesse esser preposto, o il poema tragico o l'epico, disse molto più semplici esser le favole de la tragedia che quelle de l'epopeia; e che di ciò è segno che da una sola epopeia si posson cavar molte tragedie. Ma questa maniera di composizione è cosi biasimevole ne la tragedia, com'è lodevole quell'altra che si fa con la peripezia e con l'agnizione: perché, quantunque la tragedia ami la sùbita ed inaspettata mutazione de le cose, le desidera nondimeno semplici ed uniformi, e schiva la varietà de gli episodi, i quali fanno grande e bella l'epopeia. Che cosa sia episodio non è definito da Aristotele; ma Suida gli chiama pragmata exagonia, cioè azioni fuor de la cosa di cui si tratta, le quali si pigliano d'altra parte e sono estrinseche. Ma non si loda ne le tragedie, come s'è detto, all'alcuni passino di felicità in miseria, altri di miseria in felicità, se non per ignoranza del teatro: perché questo fine lassa più consolati gli uditori, là dove questa mutazione sia accompagnata da la amicizia o almeno da la giustizia; ma questa composizione è più tosto conveniente a l'epopeia, purché non sia simile a quella del Pulci, il quale, cominciando da le feste di Carlo e de' paladini, finisce ne la «rotta dolorosa» ne la quale «Carlo Magno perdé la santa gesta». Platone nondimeno pare che porti contraria opinione, dicendo ch'una è la ragione de la favola tragica o vero comica, la quale contenga in sé molte battaglie; ma si dee intendere che ciascuna di loro sia una per sé, non che l'una e l'altra sia l'istesso. Nondimeno io sinora non ho letta alcuna favola comica simigliante né tragica, se tragica non si chiama quella d'Omero; ma se nominiam quella tragedia, altri consideri qual si possa nominar comedia. Debbiam dunque in ciò seguir l'opinion d'Aristotele, che discorda da Platone nel nome solamente, chiamando con nome specifico epopeia quella che Platone nominò tragedia. Si potrebbe nondimeno aver qualche considerazione a le Fenisse d'Euripide, ne le quali è raccontata la battaglia seguita fra Tebani ed Argivi, quantunque, seguendo l'opinion d'Aristotele, non possiam laudar le favole episodiche, le quali da lui sono biasimate: anzi, se 1'arte è imitazione de la natura, non facendo la natura cosa alcuna per episodio (come dice Aristotele ne la Metafisica), l'arte ancora non dovrebbe farla; e certo, se 'l fare episodio è operar oltre il primo proposito, né l'arte né la natura fanno alcuna cosa per episodio, perché l'una e l'altra opera ad un fine determinato. Ma ciò appare chiaramente ne l'opere de la natura; in quelle de l'arte non tanto: perché l'arte alcuna volta finge d'operare a caso ed impensatamente, e molte volte si spazia in altre cose, oltre quelle ch'avea proposte di narrare. Laonde elle paiono straniere o avventizie, come si dice.

Ma discorriamo con qual arte il poeta introduca ne la favola questa varietà così piacevole e così desiderata da coloro c'hanno avvezzi gli orecchi a' poeti moderni. Ma niuna cosa si dee considerare senza l'esempio de' prìncipi de la poesia greca e latina, però che il ricercar nuove strade porta seco maggior riprensione che lode, e si potrebbe incorrere di leggieri in quel vizio manifestatoci da Orazio:

qui variare cupit rem prodigaliter unam,
delphinum sylvis appingit, fluctibus aprum.

Dico adunque ch'alcuno potrebbe stimar agevolmente che Omero non cercasse la varietà, come colui il quale a nomi stessi dà spesse volte il medesimo aggiunto, chiamando Giove aighiokhos, Giunone leukolenos, Minerva glaukopis, Achille okus, Ulisse ptoliporthos, polumekhanos; ed oltre a ciò, spesso dice le medesime cose con le parole istesse; da l'altra parte, avendo egli mescolate nel suo poema tutte le lingue usate da' Greci, si può affermar il contrario. Oltre a ciò da lui furono usati tutti tre gli stili: io dico il grande, il mediocre e l'umile: perché, sì come nota Aulo Gellio, il sublime è attribuito ad Ulisse, il temperato a Nestore, il tenue a Menelao, il quale, essendo spartano, dovea parlare più acutamente de gli altri. E se ciò è vero, il sommo poeta, ne l'usare tutti gli stili, non è dissimile al sommo oratore; ma l'uno e l'altro può conseguire nel suo genere l'ultima perfezione, quantunque paia che Cicerone (nel libro Del perfetto genere de gli oratori) già dicesse altrimenti. Omero descrisse ancora con diversi modi le morti de' Greci e de' Troiani, e fece diverse comparazioni per rassomigliarli e quasi per metterceli davanti a gli occhi, laonde si può credere ch'egli prima d'ogn'altro insegnasse ad usar la varietà de le cose, non solo quella de le parole, meravigliosa ne l'Odissea, perché la sua favola è assai breve, come possiam conoscere da queste parole d'Aristotele: «Essendo andato molt'anni un cavaliero errando per diverse parti del mondo, rimase senza alcuno de' compagni, ed aveva lasciate le cose de la sua casa in modo che le sue ricchezze da l'insolenza de' drudi eran dissipate, ed al suo medesimo figliuolo si tendevano insidie; egli finalmente pervenne ne la sua patria, spinto da la tempesta del mare, e dandosi a conoscere ad alcuni, e congiungendosi con essi loro, al fine gli oppresse». Nondimeno Omero la variò con molti episodi e con la narrazione di molte cose meravigliose. Né gli bastando che la narrazione de gli errori d'Ulisse, fatta da lui medesimo ad Alcinoo re de' Feaci, tenesse gli uditori per molti libri occupati e pieni di meraviglia, descrisse prima la peregrinazione di Telemaco, il quale, desideroso di trovare il padre, andò in Pilo a Nestore ed in Sparta a Menelao, e da lui udì le favolose trasmutazioni di Proteo, e gli altri suoi errori parimente per l'Africa e per l'Egitto, assai più brevi nondimeno di quelli del padre. Ma d'Ulisse, sì come racconta Strabone, è dubbio s'egli andasse vagando per il mare Mediterraneo o fuor de le Colonne d'Ercole per l'oceano. Laonde per la diversità de' paesi descritti in tre peregrinazioni e per la moltitudine e novità de le cose vedute, grandissima conviene che sia la varietà; e par questo poema composto d'errori e di viaggi di tre persone diverse. Maggior varietà nondimeno si trova ne l'Eneide, perché non congiunge gli errori con gli errori, come avea fatto Omero, ma gli errori con le battaglie de l'uno e de l'altro poema. Nondimeno è proprio il dirizzar tutte le cose ad un medesimo fine: perciò che, avendosi proposto Omero per oggetto il ritorno d'Ulisse a la patria, e Virgilio la venuta d'Enea in Italia, tutte le cose sono dirizzate a questo segno, perché sono mezzi di questo fine ed agevolezze, per così dire, o impedimenti e disturbi, eccettuatene alcune poche che servono per introduzione de la favola. Fra i mezzi io numero Minerva e Mercurio, Nausicaa, i Feaci e le cose avvenute fra loro ed Ulisse, e dopo quel ch'egli trattò col porcaro, col capraro e con la nutrice medesima, prima ch'egli uccidesse i drudi: tra gl'impedimenti annovero Calipso, Circe, Scilla, Cariddi, i Lestrigoni, i Lotofagi, i Ciclopi e l'altre cose sì fatte. Parimente in Virgilio chiamo impedimenti Didone, Turno, Mezenzio, Camilla; e mezzi Aceste che gli diede aiuto per venire in Italia, ed Evandro, e Pallante, e i Toscani e gli altri che l'aiutarono a vincere, non solo a guerreggiare. Tutta dunque la varietà nel poema nascerà da' mezzi e da gli impedimenti: i quali possono esser diversi e di molte maniere e quasi di molte nature, e non distruggeranno l'unità de la favola, nondimeno, s'uno sarà il principio dal quale i mezzi dependeranno, ed uno il fine a cui sono dirizzati, dopo il quale è soverchio tutto quel che s'aggiunge, come da molti è giudicata l'opera di Quinto Calabro de le cose tralasciate da Omero, e quella di Maffeo Vegio che segue Virgilio: perché l'uno volle finir con la morte di Ettore, l'altro con quella di Turno. Ma gli impedimenti, benché possano dependere da vari principii, ad una cosa riguardano, cioè ad impedire il ritorno d'Ulisse in Itaca e 'l regno d'Enea in Italia.

A bastanza abbiamo ragionato de la diversità, mostrando com'ella possa esser accresciuta con gli episodi e come gli episodi vi debbano esser introdotti, o secondo il verisimile o secondo il necessario: perché altrimenti la favola sarebbe episodica. Favola episodica Aristotele chiama quella in cui gli episodi non sono congiunti oute kat'eikos, oute kat'anagken, cioè né verisimilmente, né per necessità. L'episodio è dunque o verisimile o necessario; ma non considero il necessario com'è considerato dal Robertello, il quale vuole che in duo modi sia lecito al poeta di mentire, o ne le cose secondo la natura o 'n quelle che sono contra natura. Se finge le cose che sono naturali, può servare to eikos ed anagken; se contra natura, c'inganna co 'l paralogismo. Ma io stimo ch'in tutti i modi possa osservare il verisimile o 'l necessario, ma non intendo di quello ch'è necessario simpliciter, ma di quello ch'è necessario di conseguenza, e ne le cose ancora contra natura, come sono i Ciclopi e l'Arpie e gli altri mostri. Per esempio, s'Ulisse e i compagni si salvano dal Ciclope divenuto cieco, è necessario che 'l Ciclope fosse prima accecato; s'Enea intende le cose future da Celeno, è necessario che Celeno possa predirle. Ed in altre favole sì fatte la dipendenza e la congiunzione de gli episodi può esser necessaria, benché le favole siano impossibili.

Ora si deono dire alcune cose del costume: perché, quantunque la poesia principalmente sia imitazione d'una azione, nondimeno l'azione non può esser fatta se non v'è chi la faccia; e l'agente, per così dire, e l'operante convien chtabbia alcune qualità, cioè ch'egli sia buono o reo o participi de l'uno e de l'altro. Il poeta dee esprimer i costumi come fanno i buoni pittori, fra' quali Polignoto imitò i migliori, Pausania i peggiori, e Dionigi i simili. Omero espresse questa diversità de' costumi meglio di tutti gli altri: perciò che la poesia fu tirata in diverse parti e quasi distratta secondo i propri costumi de' poeti; e i più magnifici imitarono l'azioni più belle e de' più simili a loro, ma i più dimessi quelle de' più vili, componendo da prima villanie ed ingiurie, come gli altri laudi e celebrazioni. Ma Omero, come dice Aristotele, fu ne la magnificenza tra gli altri massimamente poeta, e fu ancora il primo che fece vedere l'imitazione de la comedia, avendo rappresentata non villania, ma cosa da far ridere; e quantunque il mover riso e il dir villania non sia il medesimo, nondimeno spesso, dicendo villania, si muove riso, sì come, lodando, si genera meraviglia. Laonde errò senza dubbio il Castelvetro quando egli disse che al poeta eroico non si conveniva il lodare, perciò che se il poeta eroico celebra la virtù eroica, dee inalzarla con le lodi sino al cielo. Però san Basilio dice che l'Iliade d'Omero altro non è che una lode de la virtù; ed Averroe, sopra il comento de la poesia, porta la medesima opinione; e Plutarco, nel libro ch'egli scrisse Del modo d'intendere i poeti: nel quale ancora c'insegna ch'al poeta è lecito di biasimare e d'interporre il suo giudizio, il qual prima accusa la malvagità, mostrando in questo mezzo quel che sia utile; altrimente ci potrebbe nocere con l'esempio de le cose imitate, e pericolosa molto sarebbe la lezione de' poeti, se ne' passi dubbi non ci mostrassero il camino de la virtù e non ci servissero quasi di guida. Ultimamente s'a l'istorico è lecito a lodare, come parve a Polibio, a Dionisio Alicarnasseo ed a molti altri scrittori de l'istorie, molto più dovrebbe esser lecito al poeta. Lasciando dunque i seguaci del Castelvetro ne la loro opinione, or noi seguiam quella di Polibio, di Damascio, di san Basilio, d'Averroe, di Plutarco e d'Aristotele medesimo. Ma si ricercano appresso Aristotele ne' costumi quattro condizioni: che sian buoni, che sian convenienti, che sian simili e che sian eguali: perché molte fiate i costumi sono buoni, ma non sono convenienti, come la fortezza a la donna. Esempio di reo costume ci diede peraventura Sulmone, il quale ne l'Orbecche è reo senza necessità; e nel Furioso il Dottore che vende la sua onestà al brutto Etiope, ed Olimpia che troppo crudelmente taglia la gola a l'amante condotto per lei a l'insidie. Di non convenevol costume è esempio Rodomonte che, dopo l'esser stato abbattuto, cede troppo agevolmente a la nemica; ed in un ferocissimo il non stare a' patti sarebbe stata convenevolezza. Non convenevole ancora è ne la presa di Napoli la lunga disputa d'amore tra Belisario e Massenzio, mentre ancora erano con l'arme indosso. L'inequalità del costume si conosce per Rodomonte, il qual, dopo la prima rotta ricevuta da Carlo, troppo cortesemente prende commiato da Bradamante; ed in Ruggiero, il qual ne l'altro poema non si mostrò molto constante in amarla; e la dissimilitudine in Marfisa, o in Patino e ne gli altri romani, i quali sono formati assai dissimiglianti da quel che sono o furono i cavalieri romani. Ma i costumi si manifestano con le parole, ne le quali appaia buona o malvagia elezione, e con l'operazioni, ed alcuna volta sogliono esser manifesti con gli atti e co' sembianti: però Dante disse: «se vo' credere a i sembianti»; e ne l'Inferno, volendo dipingere un ladro scelerato, disse:

le mani alzò con ambedue le fiche,
gridando: Togli Dio, ch'a te le squadro;

ed altrove:

e di triste vergogna si dipinse;

e nel Purgatorio ci descrive la magnanimità di Sordello in que' versi:

Ella non ne diceva alcuna cosa,
ma lasciavane andar, solo guardando
a guisa di leon quando si posa;

e nel Purgatorio ci pone avanti gli occhi la leggiadria e l'onestà di Matelda:

Come si volge, con le piante strette
a terra ed intra sé, donna che balli,
che piede innanzi piede a pena mette;
volsesi in su' vermigli ed in su' gialli
fioretti verso me, non altrimenti
che vergine che gli occhi onesti avvalli.

Ma il costume de' forti nel gravissimo dolore de le ferite è da' poeti espresso ne le tragedie greche e latine. E perché il dolore è cosa aspra, amara, difficile a tollerarsi e inimica de la natura, si concede (per opinione di Marco Tullio ne le Questioni tuscu lane) a Filotete il gemere, sì come a colui che prima avea veduto Ercole nel monte Eta per la grandezza dei dolore stridere e la mentarsi: «itaque exclamat auxilium expetens, mori cupiens»:

Heu qui salsis fluctibus mandet
me ex sublimi vertice saxi?
Iam jam absumor; conficit animam
vis vulneris, ulceris aestus.

Ma veggiamo Ercole medesimo, il quale allora fu vinto e quasi dirotto dal dolore quando con la morte cercava l'immortalità, come si lamenti e con quai voci appresso Sofocle ne le Trachine:

O multa dictu gravia, perpessu aspera,
quae corpore exant lata atque animo pertuli!
Nec mihi Iunonis terror implacabilis,
nec tantum invexit tristis Eurystheus mali,
quantum una vaecors Oenei partu edita.

Haec me irretivit veste furiali inscium,
quae lateri inhaerens morsu lacerat viscera,
urgensque graviter pulmonum haurit spiritus;
iam decolorem sanguinem omnem exsorbuit.

Sic corpus clade horribili absumptum extabuit, etc.
Perge, aude, nate, illacryma patris pestibus;
miserere; gentes nostras flebunt miserias.
Heu virginalem me ore ploratum edere,
quem vidit nemo ulli ingemiscentem malo!

Sic foeminata virtus afflicta occidit.
Accede, nate; assiste, miserandum aspice
evisceratum corpus lacerati patris.

Non altrimenti si duole Prometeo affisso al monte Caucaso ne la tragedia d'Eschilo, con molte parole oltre queste:

Luctifica clades nostro infixa est corpori,
ex quo liquatae solis ardore excidunt
guttae, quae saxa assidue instillant Caucasi.

Ma con maggior gravità è descritto Enea da Virgilio, e con maggior fortezza d'animo, mentr'è medicato de la ferita de la gamba. I versi del medesimo son questi:

Saevit, et infracta luctatur arundine telum
eripere auxilioque viam, quae proxima, poscit:
ense secent lato vulnus telique latebram
rescindant penitus seseque in bella remittant;

e poco appresso:

Stabat, acerba fremens, ingentem nixus in hastam
Aeneas, magno iuvenum et moerentis Iuli
concursu, lacrymis immobilis.

Somigliante è il costume d'Euripilo medicato da Patroclo ne l'Iliade, come il medesimo Cicerone insegna ne' medesimi libri de le Tusculane. In somma, sì come ne le pitture non basta il disegno s'insieme non si veggiano i costumi, così nel poema non è bastevole la favola senza l'espressione di quest'altra parte. E possiamo paragonare le poesie c'hanno il costume a le pitture di Polignoto; ma quelle che ne sono prive, a l'imagini dipinte da Zeusi: sì veramente che la favola fusse eccelentissima e senza costumi.

La terza parte di qualità è la sentenza. Ma ne' costumi si dimostran più tosto gli abiti morali; ne la sentenza quelli de l'intelletto e la prudenza particolarmente, la quale è una de le virtù intellettuali. Sentenza chiamo in questo luogo quella che da Aristotele ne la Poetica è detta dianoia, di cui son parti il dimostrar, il solvere, il mover gli affetti (come sono la misericordia, l'ira, il timore), l'aggrandire e il diminuire, o il farci conoscer la grandezza e la picciolezza de le cose. Laonde in questa sola parte de la poesia si contengono quasi tutte le cose di cui si tratta ne la retorica: tanto la poesia o l'arte poetica è più ampia de la retorica. Ma a questa parte si conviene di far ciò con la forza dei parlare, il quale è indizio di questa potenza de l'animo: perché 'l far queste medesime operazioni con le cose istesse è più tosto officio de la favola. E quantunque questa parte, che da' Greci è detta dianoia, non sia quella che nel secondo de la Retorica d'Aristotele è chiamata gnome, nondimeno l'uso de la gnome (che ne la nostra lingua si dice similmente sentenza) s'appartiene a questa parte che si disse dianoia: perché, essendo officio della dianoia (che noi possiam chiamar con altro nome discorso) il provare e il dimostrare e 'l solvere e'l confutare, facendo tai cose usa la gnome, cioè la sentenza. Questa è definita da Aristotele nel secondo de la Retorica una enunziazione o vero un parlare de le cose universali: non però di tutte, ma di quelle solamente ch'appartengono a l'azione; e deono essere elette o rifiutate; e suole alcuna volta esser principio de l'entimema, alcuna conclusione, alcuna tutto l'entimema. Laonde è tale verso l'entimema, quale la definizione per rispetto dei sillogismo: perché l'uno serve a l'azione, l'altro a la speculazione, come insegna Egidio interpretando questo luogo de la Retorica. Ma de la sentenza Aristotele pone quattro spezie: due non hanno bisogno di prova, due l'hanno: quelle che non l'hanno, o sono di cose prima sapute e conosciute, com'è quella:

in giovenil fallire è men vergogna;

o quell'altra:

che tal morì già tristo e sconsolato,
cui poco innanzi era il morir beato;

o di cose che subito s'intendono e sono credute, come questa del medesimo autore:

Gran giustizia a gli amanti è grave offesa;

e quest'altra:

un bel morir tutta la Vita onora.

De l'altre due spezie, una è questa:

.........Nessun maggior dolore
che 'l ricordarsi del tempo felice
ne la miseria: e ciò sa 'l tuo dottore:

perché l'autorità è in vece di prova, o con la prova espressa:

Sempre a quel ver c'ha faccia di menzogna
dee l'uom chiuder le labbra quanto ei puote,
però che senza colpa fa vergogna;

e questa è uno entimema intero. L'altra spezie è d'una parte; ma, come la dianoia, così la gnome, provando e confutando, con meraviglioso movimento d'affetti da Virgilio ci è mostrata meglio d'alcun altro ne l'orazione di Drance e di Turno. Prova Drance che non si debba continuar la guerra con la sentenza:

Quid miseros toties in aperta pericula cives
proiicis, o Latio caput horum et caussa malorum?
Nulla salus bello: pacem te poscimus omnes etc.;

riprova Turno con un'altra sentenza opposta a quella: «Nulla salus bello»:

... cur indecores in limine primo
deficimus? cur ante tubam tremor occupat artus?
Multa dies variusque labor mutabilis aevi
rettulit in melius: multos alterna revisens
lusit, et in solido rursus Fortuna locavit.

Ma perché nel poema eroico si dee aver riguardo non solo al buono, ma a l'ottimo, conviene aver riguardo a tutte queste cose unitamente, perché da tutte insieme risulta il decoro: né già estimo che 'l decoro sia un inganno intorno al bello, come dimostrò di creder Socrate per pigliarsi giuoco d'Ippia il vecchiarello; ma o quello ch'è secondo la dignità, come piace a Plotino; o l'onesto, come vuole Aristotele; o quella dignità ch'accompagna l'onestà per congiungere insieme l'una e l'altra opinione, avegna che il decoro non si può separar da l'onesto, come disse Marco Tullio ne gli Offici: e se tra loro è alcuna differenza, si può intender più tosto che spiegare. Ma 'l decoro è confuso con la virtù, com'è la bellezza con la sanità, e sol si distingue con la mente. Questo decoro è doppio: perché l'uno è generale, il quale risplende in ogni azione onesta; l'altro è a questo soggetto, il qual si conosce ne le parti de l'onestà: e ciò conosciamo esser vero, considerando quel decoro c'hanno osservato i poeti, i quali allora sono più lodati ch'osservano quel ch'è conveniente. Laonde ne la persona d'Atreo, che fu crudel tiranno, volentieri sentiamo «oderint dum metuant». Ma queste istesse parole ci spiacerebbono ne la bocca di Eaco e di Minos, che furono riputati giusti. Questo riguardo ebbe ancora Omero, s'io non m'inganno, perciò che egli attribuì a molte persone virtù singulari: laonde per conseguente ebbe in maggior considerazione il decoro particolare. Laonde ad Ulisse assegna l'industria, a Diomede la confidenza, a Teucro l'arte del saettare, a Menesteo quella d'ordinare le squadre, a Nestore il buon conseglio, ad Aiace la fortezza, o più tosto parte de la fortezza, cioè quella che propriamente è sofferenza o toleranza; ed alcuna volta l'assomiglia a l'asino, il quale non lascia i pascoli per battitura o per percossa de' fanciulli, parendogli che in niun altro modo potesse meglio dimostrarci la picciola stima ch'egli faceva de l'armi de' Troiani; gli dà ancora uno scudo coperto sette volte d'un cuoio di bue, co 'l quale si difende in guisa ch'egli non è mai ferito; né minor fortezza dimostra ne l'animo che nel corpo, mentre egli difende le navi da Ettore vittorioso e da gli altri Troiani che volevano accenderle. L'altra parte de la fortezza, la quale consiste ne l'assalire e nel portar guerra, è propria d'Achille, ne la cui persona non si possono schivar l'opposizioni d'avarizia e di crudeltà fattegli da Platone ne' Dialoghi del Giusto, dal qual forse imparò Pirro re degli Epiroti suo pronepotel ad esser rnagnanimo, o da altro più antico. Laonde egli disse quella magnanima sentenza che si legge appresso Ennio:

Nec mi aurum posco, nec mi precium dederitis,
nec cauponantes bellum, sed belligerantes;
ferro, non auro, Vitam cernamus utrique,
vos ne velit an me regnare hera, quidve ferat fors,
virtute experiamur; et hoc simul accipe dictum
quorum virtuti belli fortuna pepercit,
eorundem me libertati parcere certum est.
Dono, ducite, doque volentibus cum magnis Dis

Ma Virgilio, se non m'inganno, vide meglio il decoro generale, perché formò in Enea la pietà, la religione, la continenza, la fortezza, la magnanimità, la giustizia e ciascun'altra virtù di cavaliero; ed in questo particolare il fece maggiore del fero Achille, il quale vendé al padre supplichevole il corpo d'Ettore, là dove Enea donò quel di Lauso, ed altrove, a chi gli prometteva molti talenti d'oro e d'argento, disse:

Argenti atque auri memoras quae multa talenta,
gnatis parce tuis.

Ma ne la sepoltura de' morti, disse a gli ambasciatori di Latino quelle veramente pietose parole:

Pacem me exanimis et Martis sorte peremptis
oratis? equidem et vivis concedere vellem.

Simile o maggiore pietà ne la sepoltura de' morti fu dimostrata da Antigone appresso Sofocle ne la tragedia di questo nome: perciò che, avendo Creonte tiranno di Tebe proibito a ciascuno che non seppellisse il corpo di Polinice giudicato nemico de la patria, Antigone la sorella contra l'editto del tiranno ebbe ardimento di seppellirlo; ed essendone da lui medesimo addomandata, rispose quelle veramente magnanime parole che si leggono ne l'istesso autore, le quali io addurrò, come in latino furono trasportate:

Non summus haec mihi imperarat Iuppiter;
nec Iustitia, deos quae habitat apud inferos,
inter homines qui iura sanxerunt pia;
nec iussa tanti ponderis tua aestimo,
mortalis ut perennia deorum queas
temerare iura insculpta mentibus hominum.
Non haec heri, aut sunt nuper admodum edita:
vixere semper; quoque tempore coeperint
scit nemo. Non haec debui ego, hominis ullius
perculsa sceptro, aut arrogantiam timens,
violare, postmodo diis poenas graves
pensura. Moritura sum: id me haud fugerat.
Quid ni? etiam id, etsi publico praeconio
non imperasses, si ante tempus appetam,
id in lucro positura sum: nam, plurimis
quicumque vivit involutus miseriis,
veluti ego, qui non si occidat, lucrum ferat?
Sic quoque mihi hoc fato mori nihil dolet.
At ex eodem progenitum utero fratrem
sic insepultum si reliquissem, dolor
iustus foret.

Appresso Stazio ancora la medesima Antigone dimostra la pietà e la magnanimità: costumi veramente di donna eroica: perciò ch'ella ne l'orror di una spaventosa notte se n'uscì da la città per seppellire il corpo del fratello, il quale andò ricercando in una campagna piena di corpi morti, e quivi s'avvenne in Evadrie moglie di Capaneo, la qual era condotta da l'istessa pietà a seppellire il marito: avvenimento senza dubbio maraviglioso e degno del gentile artificio del poeta e de le pietose lagrime dei lettore. Si legge ancora ne l'istesso poema de la Tebaide che Teseo re d'Atene mosse guerra a' Tebani, i quali con insolita crudeltà negavano la sepoltura a' corpi de gli Argivi uccisi ne l'assalto di Tebe: tanta in quegli antichissimi secoli fu la pietà e la religione dei seppellire i morti. E di ciò, ancora si fa menzione ne l'Orazioni d'Isocrate. Laonde per questa ragione ancora e per questo esempio pare Achille degno di maggior biasimo, non avendo avuto risguardo a l'antichissimo costume ed a l'umanità de' popoli de la Grecia. Alcuni nondimeno fra' moderni hanno voluto biasimar Enea di pari crudeltà, perch'egli negò la vita a Turno supplichevole; ed incolpano Turno di pusillanimità in quell'istesso modo ch'Ettore di soverchio timore ed Achille di soverchia ferità è biasimato. Ma peraventura non con le ragioni pari: perché molte difese sono proprie di Virgilio, le quali non si possono far comuni ad Omero, bench'a monsignor di Caserta o al Possevino suo discepolo o a lo Sperone paresse altrimenti: i quali, essendo per altro di contraria opinione, in biasimar Virgilio principe de' poeti latini si mostrano assai concordi. A me nel rispondere sovvengono molte ragioni, de le quali alcune tacerò. E taccio prima di ciascun'altra la ragione di stato, per la quale Enea non si poteva assicurar de le cose d'Italia, vivendo Turno turbator de la pace e de la quiete pubblica; ma questa medesima ragione non poteva muover Achille, il quale non aveva alcuna pretensione nel regno di Troia, né per cupidità di signoreggiare alcuna necessità d'uccidere il nemico, difensore de la patria, non oppressore de l'altrui signoria, com'era Turno, a cui Latino suocero di Enea era costretto di cedere il governo del regno. L'obbligo de la vendetta ne l'uno e l'altro era eguale: obbligo non picciolo, se la vendetta è giusta ed onorevole fra i principi e i cavalieri, come estima il Bernardo ed il Possevino. Ma in Enea a l'obbligo comune de la vendetta s'aggiunge quel de la sua propria parola: perch'egli, rimandando il corpo di Pallante ad Evandro, si duole di non aver sodisfatto a le sue promesse, come si legge in que' versi de l'XI de l'eneida:

Non haec Evandro de te promissa parenti
discedens dederam,

e poco appresso:

Haec mea magna fides!

Ma, non avendo potuto rimandarlo salvo al padre, non poteva mancar al desiderio paterno de la vendetta dimandata da Evandro con efficacissime parole, o negare questa consolazione a l'animo esacerbato de l'infelice vecchio: come si manifesta espressamente in quegli altri versi con le parole dette da Evandro a' Troiani:

Vadite et haec memores regi mandata referte:
quod Vitam moror invisam, Pallante perempto,
dextera caussa tua est, Turnum gnatoque patrique
quam debere vides. Meritis vacat hic tibi solus
fortunaeque locus.

Ma da Menezio padre di Patroclo non era dimandata la vendetta in questa guisa: perciò che egli, troppo più lontano da gli avvisi, non sapeva ancora cosa alcuna de la morte del figliuolo. Era dunque per questa cagione maggior l'obbligo d'Enea; e per giudicio d'Evandro non gli rimaneva altro luogo da meritare. La religione ancora il costringeva, non potendo egli placare in altra maniera l'ombra di Pallante, come si raccoglie da questi versi del x:

quattuor hic iuvenes, totidem, quos educat Ufens,
viventes rapit, inferias quos immolet umbris,
captivoque rogi perfundat sanguine fiammas.
.....................
Hoc patris Anchisae manes, hoc sentit Iulus.

E che da l'ombre de' morti fosse ricercata la vendetta e 'l sagrificio d'umana vittima, si conferma co 'l testimonio d'Euripide ne l'Ecuba, ne la quale è scritto che l'ombra d'Achille dimandava d'esser placata co 'l sangue di Polissena, come si raccoglie da que' versi:

Namque e sepulchro visus Aeacides suo,
Argivm Achilles tenuit omnem exercitum
remum ad penates dirigentem ponticum.
Meam is sororem postulat Polyxenam.

Ma questa difesa è peraventura comune a l'uno ed a l'altro principe de l'eroica poesia; ma sino a la morte solamente: perch'oltre la morte non si dee stender l'ira de gli eroi, né deono a guisa di cani rabbiosi incrudelir ne' corpi morti, almeno poi ch'a l'ira è conceduto giusto spazio d'intepidire. Ma si potrebbe dire a l'incontro che 'l sacrificio d'umana vittima è cosa empia e crudele, benché fosse non solamente ricevuta da' barbari e da' Greci, ma da' Romani istessi: i quali, come scrive Livio, ne' grandissimi pericoli solevano sacrificare Gallum et Gallam, o Graecum et Graecam; tuttavolta fu popolo riputato religiosissimo e giustissimo ed amico de la pietà e de la clemenza. Ma falsa fu quella religione; e però, come dice Lucrezio epicureo filosofo:

Tantum relligio potuit suadere malorum.

Ma questa non è colpa né accusa de l'arte poetica, ma de la religione: laonde se pur è difetto ne' poeti, par difetto non per sé, ma per accidens. Concedasi dunque a Virgilio, nato in quella religione de' gentili, che possa, come buon poeta, dir quelle terribili parole in persona d'Enea, quand'egli diede la morte a Turno, impaurito da le Furie:

Ille, oculis postquam saevi monumenta doloris
exuviasque hausit, furiis accensus et ira
terribilis: Tune hinc spoliis indute meorum
eripiare mihi? Pallas te hoc vulnere, Pallas
immolat et ponam scelerato ex sanguine sumit.

Questa fu dunque la vendetta lecita al cavaliero gentile (il quale non può esser riputato crudele da' gentili, o in comparazione de gli altri), e molto più convenevole che la vendetta fatta da Achille. Però che l'uno, come abbiam detto, uccise il difensor de la patria, che non aveva alcuna colpa nel periurio o nel violar de' patti; ma l'altro tolse la vita al rompitor de' patti ed al perturbator de la pace. Però con alcuna ragione dal nemico Enea son dette quelle parole sovra l'infelice giovane:

... et poenam scelerato ex sanguine sumit.

Non sono ancora pari le ragioni nel timor d'Ettore e di Turno, perché Turno è descritto audace e temerario giovane, Ettore prudente anzi che no; ed oltre a questo, Turno è spaventato da le Furie: laonde il suo timore pare in lui non difetto di natura, ma violenza del Fato, maggiore ch'in Ettore. Era ancora assai conveniente che 'l giovine inamorato si descrivesse temerario; ma 'l tiranno, come Mezenzio, è descritto intrepido ne la sua morte per le cagioni scritte da me altre volte: le quali io pensava di confermare con molte altre, ma bastino queste in questo proposito. Possiamo dunque concludere che Virgilio nel formare il cavaliero si avvicinò più al segno, che non fece Omero.

E dovendo noi considerare l'idea e per lei approvar la definizione de la poesia, debbiamo aver riguardo a l'azione ed al come e a tutte l'altre cose insieme. Ma se crediamo a Massimo Tirio, non mancò questa perfezione ad Omero, perch'egli ci finge in Nestore l'imagine de la virtù perfetta; ma vi manca peraventura la perfezione de l'età, la quale non era più atta a la milizia o ad altra azione, ma solamente al consiglio: perch' un perfetto eroe non si dee peraventura descriver ne la decrepità, avegna che 'l perfetto costume sia costume d'età perfetta. Dunque tra le qualità de' costumi già ricercate debbiam particolarmente considerare quel che si convenga a ciascuna età: perché il vecchio è tardo ne le operazioni, prudente ne le deliberazioni, e maturo ne' consigli, e timido anzi che no di tutte le cose che possono avvenire, com'è descritto in quelle parole:

O praestans animi iuvenis, quantum ipse feroci
virtute exsuperas, tanto me impensius aequum est
consulere, atque omnes metuentem expendere casus;

ed in quell'altre:

Si Turno exstincto, socios sum adscire paratus,
cur non incolumi potius certamina tollo?
Quid consanguinei Rutuli, quid cetera dicet
Italia? Ad mortem si te (fors dicta refutet)
prodiderim, natam et connubia nostra petentem?
Respice res bello varias: miserere parentis
longaevi etc...

Il medesimo è lodator de le cose passate e di se stesso, come ci dimostra Virgilio in Entello dicendo:

Si mihi, quae quondam fuerat, quaque improbus iste
exsultat fidens, si nunc foret illa iuventa,
haud equidem praetio inductus pulchroque iuvenco
venissem, etc.
Quid si quis caestus ipsius et Herculis arma
vidisset tristemque hoc ipso in litore pugnam?

Ed in Evandro che desidera di ringiovenire, come si legge:

O mihi praeteritos referat si Iuppiter annos!
Qualis eram, cum primam aciem Praeneste sub ipsa
stravi scutorumque incendi victor acervos,
et regem hac Herulum dextra sub Tartara misi.

Ma del costume del giovine si vede espressa l'imagine in Turno:

Talibus exarsit dictis violentia Turni;
dat gemitum rumpitque has imo pectore voces:
larga quidem, Drance, tibi semper copia fandi
tum, cum bella manus poscunt, patribusque vocatis
primus ades. Sed non replenda est curia verbis, etc.

E ne' pericoli de la guerra mostrò insieme quasi depinti i costumi de' vecchi, de' gioveni e de le donne:

Arma manu trepidi poscunt: fremit arma iuventus:
flent maesti mussantque patres. Hic undique clamor
dissensu vario magnus se tollit in auras.

Ma del giovane innamorato si vede colorata l'effigie in quegli altri versi:

Illum turbat amor figitque in virgine vultus:
ardet in arma magis paucisque affatur Amatam:
ne, quaeso, ne me lacrymis,

e quel che segue. È figurato il costume dei fanciullo generoso in Ascanio:

At puer Ascanius mediis in vallibus acri
gaudet equo, iamque hos cursu, iam praeterit illos
spumantemque dari pecora inter inertia votis
optat aprum, aut fulvum descendere monte leonem;

ed in quegli altri versi:

Vidisti, quo Turnus equo, quibus ibat in armis
aureus; ipsum illum, clipeum cristasque rubentes
excipiam sorti, iam nunc tua praemia, Nise

Anzi è descritto il buon costume di molti fanciulli e di molti giovani in que' versi:

Ante urbem pueri et primaevo flore iuventus
exercentur equis domitantque in pulvere currus,
aut acres tendunt arcus, aut lenta lacertis
spicula contorquent cursuque ictuque lacessunt

Non solo si deve aver riguardo a quel che convenga a l'età, ma a quel che convenga a la natura, a la fortuna, a la nazione, a l'officio, a la dignità. Ecco la natura come si scopre nel costume de' padri:

Aeneas (neque enim patrius consistere mentem
passus amor) rapidum ad naves praemittit Achaten,
Ascanio ferat haec ipsumque ad moenia ducat;

ed altrove:

omnis in Ascanio cari stat cura parentis

Ma la pietà del figliuolo appare in quegli altri versi:

. . . . . . . Percussa mente dederunt
Dardanidae lacrymas: ante omnes pulcher Iulus,
atque animum patriae strinxit pietatis imago.

Si riconosce la magnanimità d'un povero re in que' versi:

Aude, hospes, contemnere opes et te quoque dignum
finge Deo rebusque veni non asper egenis.
Dixit, et angusti subter fastigia tecti
ingentem Aenean duxit, etc.

e la ricchezza d'un re in quegli altri:

nuntius ingentes ignota in veste reportat
advenisse viros. Ille intra tecta vocari
imperat, et solio medius consedit avito.
Tectum augustum, ingens, centum sublime columnis,
urbe fuit summa, Laurentis regia Pici,

e quel che segue. Il costume de la gente s'esprime in questo modo:

Mos erat Hesperio in Latio, quem protinus urbes
Albanae coluere sacrum, nunc maxima rerum
Roma colit, cum prima movent in proelia Martem,
sive Getis inferre manu lacrymabile bellum
Hyrcanisve Arabisve parant, seu tendere ad Indos,
auroramque sequi Parthosque reposcere signa.
Sunt geminae belli portae (sic nomine dicunt)
relligione sacrae et saevi formidine Martis:
centum aerei claudunt vectes aeternaque ferri
robora; nec custos absistit limine Ianus:
has, ubi certa sedet patribus sententia pugnae,
ipse Quirinali trabea cinctuque Gabino
insignis reserat stridentia limina consul.

In quelli parimente:

Quare agite, o iuvenes, tantarum in munere laudum
cingite fronde comas et pocula porgite dextris,
communemque vocate Deum et date vina volentes.

A l'officio ebbe riguardo Virgilio in que' versi, descrivendoci quello d'un buon re, il qual veglia per la salute comune:

Talia per Latium: quae Laomedontius heros
cuncta videns, magno curarum fluctuat aestu
atque animum nunc huc celerem, nunc dividit illuc,
in partesque rapit varias perque omnia versat:
sicut aquae tremulum labris ubi lumen ahenis
sole repercussum aut radiantis imagine lunae,
omnia pervolitat late loca iamque sub auras
erigitur summique ferit laquearia tecti.

Ed altrove:

Nox erat, et terras animalia fessa per omnes
alituum pecudumque genus sopor altus habebat,
cum pater in ripa gelidique sub aetheris axe,
Aeneas, tristi turbatus pectora bello,
procubuit seramque dedit per membra quietem

Ed in quell'altro luogo nel quale fa officio di capitano:

........castra Aeneas aciemque movebat

Parimente si descrive la religione e la pietà di un re vittorioso in quell'altro:

Aeneas (quamquam et sociis dare tempus humandis
praecipitant curae turbataque funere mens est)
vota Deum primo victor solvebat Eoo.

L'officio del medico si descrive in quelli:

....................Ille retorto
Poeonium in morem senior succinctus amictu,
multa manu medica etc.

Del sacerdote ne gli altri:

Hic Helenus, caesis primum de more iuvencis,
exorat pacem Divum vittasque resolvit etc.

Ma dell'officio de la madre di famiglia ci mostra in quella comparazione:

........cum foemina primum,
cui tolerare colo Vitam tenuique Minerva
impositum, cinerem et sopitos suscitat ignes,
noctem addens operi famulasque ad lumina longo
exercet penso, castum ut servare cubile
coniugis et possit parvos educere natos.

A la dignità d'una regina ebbe riguardo nel primo:

Tum foribus Divae, media testudine templi,
septa armis solioque alte subnixa resedit.
Iura dabat legesque viris operumque laborem
partibus aequabat iustis aut sorte trahebat.

A quella di re ne l'ultimo:

Interea reges, ingenti mole Latinus
quadriiugo vehitur curru, cui tempora circum
aurati bis sex radii fulgentia cingunt,
solis avi specimen etc.

Ma benché si potessino addurre infiniti esempi di questo e de gli altri poeti, ci bastino questi pochi. In somma si dee aver gran considerazione a tutte quelle cose, le quali sono considerate da Aristotele nel secondo de la Retorica e da Orazio ne la Poetica: perché questa parte del costume da molti è stimata poco meno de l'altra ch'è la principale, e non si può quasi separare, avegna che l'azione sempre sia fatta da qualche agente; ma l'agente convien ch'abbia qualche qualità, o buona o rea o degna di lode o di riprensione. Laonde fra tutte le circostanze è prima questa de la persona, ne la quale si deve osservare quel costume che da la fama l'è attribuito: però non estimava Orazio ch'Omero avesse errato nel descriver Achille in questa guisa:

Scriptor, honoratum si forte reponis Achillem,
impiger, iracundus, inexorabilis, acer,
iura neget sibi nata, nihil non arroget armis.

Ma nel finger una nuova persona, abbia il poeta quell'altre considerazioni che c'insegna il medesimo autore. Parve nondimeno al Castelvetro che non fosse lecito di formar nuova persona non conosciuta per fama, e riprese Virgilio che l'avesse formata. Ma Giulio Cesare da la Scala porta altra opinione e, se non m'inganno, migliore: cioè che le persone si formano dal necessario o dal verisimile che di ciò sia cagione l'azione istessa, la quale principalmente è irnitata. Io nondimeno più lodo l'opinione di Atanasio nel libro contra' gentili, nel qual si legge che se l'azioni son finte da' poeti, essi ne' nomi ancora hanno mentito; ma se dissero il vero de' nomi, il dissero de l'opere sirnilmente. Ma si potrebbe aggiungere a le cose dette che l'azione è o tutta vera o tutta finta o parte vera o parte falsa: se tutta vera, tutte le persone ancora dovrebbono esser vere; se tutta falsa, converrebbe che tutte le persone fossero false; se parte vera e parte falsa, le persone ancora potrebbeno esser in questo modo vere e finte. Nondimeno l'ardimento de' poeti s'è steso più oltre, fingendo una falsa azione di vera persona, sol che l'abbiano finta verisimilmente, perché la persona accresce autorità a l'azione. Ne le persone si considerano non solo la natura, la fortuna, l'età, la nazione, ma gli abiti e gl'istrumenti e 'l tempo e 'l luogo nel quale sogliono operare. Gli abiti, come quel di Venere in forma di cacciatrice:

Namque humeris de more habilem suspenderat arcum
venatrix dederatque comas diffundere ventis,
nuda genu nodoque sinus collecta fluentes.

O quel di Camilla:

attonitis inhians animis, ut regius ostro
velet honos leves humeros, ut fibula crinem
auro internectat, Lyciam ut gerat ipsa pharetram
et pastoralem praefixa cuspide myrtum.

E l'armi che si possono annoverar fra gl'istrumenti, li quali da Virgilio son descritti nel catalogo, come quelli de gli Ernici e de' Prenestini e d'altri popoli:

.............Non illis omnibus arma,
non clypei currusve sonant; pars maxima glandes
liventis plumbi spargit, pars spicula gestat
bina manu fulvosque lupi de pelle galeros
tegmen habet capiti; vestigia nuda sinistri
instituere pedis, crudus tegit altera pero.

E quelle de gli Aurunci e de gli Osci:

...............Teretes sunt aclides illis
tela; sed haec lento mos est aptare flagello:
laevas cetra tegit, falcati cominus enses.

E quelle de' popoli Sarrasti:

Teutonico ritu soliti torquere cateias;
tegmina quis capitum raptus de subere cortex,
aerataeque micant peltae, micat aereus ensis.

E fra gl'istrumenti sono gli arieti e 'l cavallo troiano, di cui si legge:

aut haec in nostros fabricata est machina muros etc.

Il tempo è descritto in que' versi:

Tempus erat, quo prima quies mortalibus aegris
incipit, et dono Divm gratissima serpit:
in sommis ecce ante oculos moestissimus Hector.

E la mezza notte in quegli altri.

Nox erat, et placidum carpebant cuncta soporem,

e quel che segue. E 'l nascer de l'aurora:

Postera iamque dies primo surgebat Eoo
humentemque Aurora polo dimoverat umbram.

E ne l'istesso libro:

Iamque rubescebat stellis Aurora fugatis,
cum procul obscuros colles humilemque videmus
Italiam.

E nel quarto:

Et iam prima novo spargebat lumine terras
Tithoni croceum linquens Aurora cubile.
Regina e speculis ut primum albescere lucem
vidit et aequatis classem procedere velis etc.

E la sera è descritta in quegli altri:

Sol ruit interea et montes umbrantur opaci.
Sternimur optatae gremio telluris ad undam
sortiti remos, passimque in litore sicco
corpora curamus: fessos sopor irrigat artus.

E le qualità del tempo sono descritte similmente:

Nam neque erant astrorum ignes, nec lucidus aethra
siderea polus; obscuro sed nubila caelo,
et lunam in nimbo nox intempesta tenebat.

E la tempesta, come quella del primo:

Talia iactanti stridens Aquilone procella
velum adversa ferit fluctusque ad sidera tollit.
Franguntur remi; tum prora avertit et undis
dat latus: insequitur cumulo praeruptus aquae mons.

E la tranquillità, di cui si legge:

Sic ait, et dicto citius tumida aequora placat
coliectasque fugat nubes solemque reducit.

E la peste è descritta nel terzo similmente:

.............subito cum tabida membris,
corrupto caeli tractu, miserandaque venit
arboribusque satisque lues, et lethifer annus.

Ne la descrizione di luoghi ancora è meraviglioso Virgilio, come in quello accomodato a gli aguati:

Est curvo anfractu valles, accomoda fraudi
armorumque dolis, quam densis frondibus atrum
urget utrinque latus, tenuis quo semita ducit,
angustaeque ferunt fauces aditusque maligni.
Hanc super in speculis summoque in vertice montis,
planities ignota iacet tutique receptus:
seu dextra laevaque velis occurrere pugnae,
sive instare iugis et grandia volvere saxa.

Si consideri ancora l'eccelentissimo artificio del poeta divino in quegli altri versi:

Est locus, Italiae medio sub montibus altis,
nobilis, et fama multis memoratus in oris,
Amsancti valles: densis hunc frondibus atrum
urget utrinque latus nemoris, medioque fragosus
dat sonitum saxis et torto vertice torrens.
Hic specus horrendum et saevi spiracula Ditis
monstrantur, ruptoque ingens Acheronte vorago
pestiferas aperit fauces.

Considera la medesima felicità in quella descrizione:

Portus ab Eoo fluctu curvatus in arcum etc...

Ma quello fu divinissimo:

Est in secessu longo locus: insula portum
efficit obiectu laterum, quibus omnis ab alto
frangitur inque sinus scindit sese unda reductos.
Hinc atque hinc vastae rupes geminique minantur
in caelum scopuli,

e quel che segue. Tuttavolta alcun potrebbe dubitare perché Virgilio descrivesse un porto appresso Cartagine, il quale veramente non è in quella parte di Africa, ma, come Servio ed alcuni altri hanno creduto, in Cartagine nuova, città di Spagna, ora detta Cartagena. Ma peraventura egli ebbe risguardo non al vero, ma a la bellezza, se non mi fosse lecito il dire a l'idea del porto; e volendoci descrivere il più bel porto che potesse imaginarsi, fece la finta descrizione del luogo, e v'aggiunse l'antro de le ninfe e l'altre cose, ne le quali volle imitare Omero; e questa finzione peraventura sarebbe soggetta a maggiore opposizione s'ella fosse ne la geografia, quantunque gli errori de la geografia ancora o de la descrizione universale de la terra sian per accidente ne l'arte poetica; ma essendo una topotesia, cioè una particolar descrizione del luogo, può di leggieri esser lodata, non sol tolerata: perché dopo lungo spazio di anni più agevolmente avengono le mutazioni ne le picciole parti de la terra che ne le grandi, benché ne le grandi ancora sogliono avvenire, come c'insegna non solamente Aristotele ne' libri De le cose sublimi e Strabone ne la Geografia, ma il medesimo poeta in quel verso:

tantum aevi longinqua valet mutare vetustas.

Oltre a ciò, la spelunca riceve molte allegorie, come l'antro di Platone figurato per lo mondo, e quello d'Omero, del qual Porfirio compose un picciolo, ma dotto libretto; e questo ancora può aver la sua occulta significazione e i suoi meravigliosi misteri. Ma non è ora mia intenzione parlar di questa materia, de la quale non ragiona Aristotele; ma forse ne' libri seguenti toccherò alcuna cosa de la opinione d'altri eccelenti scrittori, a l'autorità de' quali molto dovrebbe esser creduto.




LIBRO QUARTO


Dovendo io trattare de l'elocuzione, si tratterà per conseguente de le forme del parlare, perché, essendo egli pieghevole a guisa di cera, prende molte forme e quasi molti caratteri, ciascuno de' quali è diverso da gli altri ed ha la sua propria eccelenza e la sua propria laude. Ma intorno a ciò sono state varie l'opinioni, come sa V. S. illustrissima, a cui non è occulta alcuna cosa ch'appartenga al bene intendere o al bene scrivere. Laonde non è chi meglio sappia giudicar le cose scritte, o trovarle prima che sieno scritte, se pur ve n'è alcuna che in sì lungo corso di secoli e d'anni sinora non sia ritrovata. Ma se 'l rinovar l'opinioni o le ragioni con le quali si posson provare e confermare sarà quasi un nuovo ritrovamento, io e gli altri possiamo sperar qualche nuova lode ne l'invenzione, la qual più volentieri riceverei da voi, mio signore, come da quello ch'è lodatissimo da ciascuno. Ma in questa materia poche sono le cose che non sieno scritte e confermate con buone ragioni e con grande autorità, e grande è il numero de l'opinioni e de gli autori che n'hanno ragionato. Laonde io non avrei tanta fatica in raccor molte cose da molte parti, quanto in elegger le migliori e de' migliori Greci e Latini.

Ma prima ch'io venga a trattar di questa ultima parte di qualità, non estimo inconveniente che si tratti de la proposizione de l'opera e de l'invocazione, la quale il poeta dee fare poi ch'avrà ritrovata e disposta la favola, avanti ch'egli cominci a spiegarla: perciò che non si può proporre quello che non s'è ancora ritrovato ed ordinato. E come che l'invocare l'aiuto divino in tutt'i luoghi ed in tutti i tempi sia necessario, nondimeno gli scrittori sogliono farlo assai spesso nel principio de l'opere loro; alcuna volta nel mezzo o nel fine, e sempre che s'avvengono a cosa che paia ricercarlo: dico gli scrittori, perché non invocano solamente i poeti, ma i filosofi e gli oratori, com'appresso Platone Timeo, il quale n'ammonisce che si debba invocare in tutte le cose, e grandi e picciole. E ne l'Eutidemo s'invocano le Muse e la Memoria, de la quale elle furono generate; Lucrezio invoca Venere, dea ch'è sovra la generazione; Demostene, ne la sua orazione de la Corona, tutti gli dei e tutte le dee. E non è vero quel che n'insegna il Castelvetro sotto la persona del Grammaticuccio, ch'a' poeti soli si convenga d'invocare, perché soli i poeti sian mossi da divino furore, avvegna che la retorica ancora abbia la sua divinità, come prova Aristide ne l'orazione ne la quale egli la difende da l'opposizioni fattele da Platone; e la sua invenzione è non altrimenti attribuita a Mercurio che quella de la poesia ad Apolline. Molto meno è vero che non si convenga l'invocare ne le cose picciole: perché niuna cosa è così picciola che non abbia bisogno de l'aiuto divino; e i piccioli poemi sogliono spesso apportar seco grandissima difficoltà. Però ne le brevi poesie invocarono Mosco e Teocrito; e non si disdice a' lirici l'invocare, com'estimò il Grammaticuccio; ed invocò Pindaro, principe de' poeti lirici, ne l'Agesidamo (ch'è la decima oda de l'Olimpiche), la Musa e la Verità figliuola di Giove; ne l'Ergotele (ch'è la duodecima) supplicò a la Fortuna; nel Ierone (ch'è la prima ode fra le Pizie) invocò Apolline e le Muse. Taccio del Psaumide, perché quella è più tosto consecrazione de l'inno a Giove. Orazio similmente, ne la prima oda del primo libro, invocò Polinnia. Dante invocò Amore, che si mostrava ne gli occhi de la sua donna; ed in un'altra canzone gli chiese non solamente la voglia di piangere, ma la scienza di saper acconciamente lagrimare: in quella, la qual comincia: «Voi ch'intendendo il terzo ciel movete», volle gl'intelletti divini per auditori. Il Petrarca, che molte volte ragionò d'Amore, una volta sola, ch'io mi ricordo, il chiamò in aiuto, dicendo:

Deh porgi la mano a l'affannato ingegno.

Il Bembo chiamò le Muse in que' leggiadrissimi versi:

Dive, per cui s'apre Elicona e serra,
date a lo stil, che nacque de' miei danni,
viver quando io sarò spento e sotterra.

Monsignor de la Casa invocò similmente le Muse nel primo sonetto:

Oh se cura di me, figlie di Giove,
talor vi punge al primo suon di squilla,
date al mio stil costei seguir volando.

S'inganna parimente il Grammaticuccio quando egli dice che l'invocazione è argomento di superbia e di presunzione. Opposizione somigliante fece l'antico sofista Protagora ad Omero, dicendo ch'egli chiama la Musa con un modo imperioso, quasi egli voglia comandarle. Ma Aristotele ne la sua Poetica, difendendo i poeti, rispose ancora a questa opposizione, mostrando che ciò avveniva più tosto per difetto di colui che recitava i versi, il quale poteva pronunciarli in altro modo; e senza fallo le medesime parole si possono pronunciare imperiosamente e supplichevolmente: laonde il difetto era più tosto ne l'arte de l'istrione. Altri ha voluto che l'invocare sia segno di modestia, ma io direi più tosto che fosse argomento di pietà e di religione, sì veramente che non sia invocata deità che 'l poeta riputi falsa, o non con questa intenzione perché alcuni ebbero opinione che Dante invocasse il buono Apollo ed il Petrarca il chiamasse immortale a differenza de gi'idoli o pur de' demoni che sono mortali, come disse Plutarco in quella operetta ne la quale egli disputò de la cagione per la quale gli oracoli son mancati; ma perdonisi questa licenza a' poeti, e mutisi il nome, purché la buona intenzione non sia condennata. Più sicuramente Dante ne la sua Comedia invocò l'ingegno e la mente:

O Muse, o alto ingegno, or m'aiutate;
o mente che scrivesti ciò ch'io vidi etc.,

come prima Orfeo aveva invocato l'intelletto. Sarà dunque lecito al poeta cristiano invocar la mente e l'intelligenze, imperò che le Muse non furono credute altro che intelligenze.

Ma nel modo del proporre e de l'invocare è tenuto diverso ordine. Omero, Esiodo e gli altri greci fanno insieme l'invocazione e la proposizione, cominciando da l'invocare. Virgilio e gli altri latini prima sogliono proporre, poi invocare; alcuni rivolgono il parlare a' principi, come l'stesso autore ad Augusto ne' libri de l'agricoltura, ed Ovidio ne' suoi Fasti a Germanico: il quale uso fu seguito da' moderni. Orazio diede per ammaestramento, ne la proposizione e ne l'invocazione, che non si cominciasse da parole troppo gonfie, biasimando Antimaco il quale diè principio al suo poema con questo verso:

Fortunam Priami cantabo, et nobile bellum,
lodando a l'incontra Omero, il quale cominciò l'Odissea con questo altro:
Dic mihi, Musa, virum captae post tempora Troiae:

quantunque la comparazione si potesse fare tra l'Iliade e 'l poema biasimato, nel quale era cantata la fortuna di Priamo. Ma la proposizione dell'Iliade, o l'invocazione, può esser considerata da chi meglio suol giudicare lo stil de' poeti greci. Pindaro peraventura portò diversa opinione, estimando che 'l principio de' poemi dovesse esser grande, magnifico e luminoso, e simile a' frontispici de' palagi, come scrisse in que' versi l'Agesia:

Kruseas hupostasantes euteikhei prothuro thalamou
kionas hos hote thaeton megaron
paxomen. arkhomenou d'ergou prosopon etc.

Ma forse Pindaro diede esempio ai lirici. Orazio ammaestrò gli epici con l'autorità d'Omero; e per mio avviso non biasimò Orazio tutti i principii alti ed illustri, ma quelli solamente a' quali non corrispondono l'altre parti: però che non si conviene, com'egli dice, dare ex fulgore fumum, sed ex fumo lucem; ma il dare ex luce lucem non sarebbe biasimato da Orazio medesimo. Diremo adunque che o si dà luce da luce, o luce da fumo, o fumo da luce, o fumo da fumo; e con parole proprie diremo: o che sono principii chiari e l'altre cose chiare, o dopo gli oscuri principii seguitano più chiare narrazioni, o da chiari principii nascono l'oscure, o da gli oscuri similmente l'oscure, e parimente le basse dopo i bassi, e le basse dopo gli alti, e l'alte appresso gli alti, e l'alte che seguono i bassi cominciamenti. Di queste quattro coppie, che i Latini chiamano combinazioni, due per mio parere sono degne di biasimo, l'altre di lode: merita biasimo il dar le cose oscure dopo l'oscure e l'oscure dopo le chiare. L'altre due sono laudevoli molto; e l'istesso giudizio si può fare de l'altre quattro coppie, se l'alte cose e le basse insieme s'accoppieranno. Virgilio accoppiò l'alto stile e l'illustre ne la proposizione:

Arma virumque cano:

e simili sono i seguenti versi; e sempre avrebbe continuato ne la medesima altezza e nel medesimo splendore, s'alcuna volta non avesse voluto variar le forme del parlare. Laonde io non posso riprovare in modo alcuno il giudicio di Tucca e di Varo, seguito assai arditamente da Lucano in que' primi versi de la sua proposizione: Bella per Emathios plusquam civilia campos
iusque datum sceleri canimus;

e più arditamente da Stazio in quegli altri:

Fraternas acies alternaque regna profanis
decertata odiis, sontesque evolvere Thebas
pierius menti calor incidit;

o pur in quelli:

Magnanimum Aeacidem formidatamque Tonanti
progeniem canimus;

e con grande animo ancora da Silio Italico, quando egli disse:

Ordior arma quibus coelo se gloria tollit
Aeneadum;

né con minore da Claudiano in quelli:

Inferni raptoris equos afflataque curru
sidera Taenario, caligantesque profundae
Iunonis thalamos, audaci prodere cantu
mens concussa iubet.

Non posso adunque biasimare la proposizione alta, chiara ed illustre, ove il poeta eroico, che da Orazio è detto «promissi carminis auctor», non manchi de le sue promesse; anzi, se la proposizione è quasi un proemio del poeta, il muover espettazione ed il fare attento il lettore è molto convenevole per mio giudizio ne la proposizione, la qual peraventura si fa alcuna volta nel mezzo de' poemi, come il proemio ne l'orazione: ma l'invocazione senza fallo suol farsi molte, e n'abbiamo esempio da Omero e da Virgilio, il quale, dopo la prima invocazione, invocò di nuovo:

Nunc age, qui reges, Erato, quae tempora rerum,
quis Latio antiquo fuerit status, advena classem
cum primum Ausoniis exercitus appulit oris,
expediam, et primae revocabo exordia pugnae.
Tu vatem, tu, Diva, mone: dicam horrida bella,
dicam acies actosque animis in funera reges
tyrrhenamque manum totamque sub arma coactam
Hesperiam. Maior rerum nihi nascitur ordo,
maius opus moveo:

ne' quai versi dopo l'invocazione segue la proposizione quasi congiunta. Invoca ne gli altri libri ancora:

Pandite nunc Helicona, Deae, cantusque movete etc.
Vos, o Calliope, precor, adspirate canenti etc.

Ora consideriamo quel ch'appartiene a l'elocuzione, ne la quale si dimanda l'aiuto divino per favellare altamente, non meno che per la memoria de le cose già sepolte ne l'oblivione. Io dico che l'elocuzione altro non è che uno accoppiamento di parole, la qual si risolve ne' nomi e ne' verbi e ne l'altre parti ond'è composta; e queste ne le sillabe; e le sillabe ne le lettere, che sono chiamate elementi con l'istesso nome co 'l quale si chiamano i quattro principii de le cose di cui è composto l'universo. E quantunque le parole siano ad placitum, come vuole Aristotele ne' libri de l'Interpretazione, ed Alessandro ne le Questioni, nondimeno si possono dire in qualche modo per natura, s'essi son composti in quel modo che c'insegna Ammonio nel medesimo libro, come diremo appresso più lungamente. Ora darò la definizione de le parti de l'elocuzione: le quali sono l'elemento, la sillaba, la congiunzione, il nome, il verbo, l'articolo, il caso, l'orazione.

Elemento è una voce indivisibile; ma non ogni voce indivisibile è elemento: perché quelle de le bestie non si posson chiamar con questo nome, ma quelle solamente le quali possono esser intese; ma di queste alcune sono vocali, altre semivocali, altre mute. Vocali son quelle le quali senza percossa hanno voce che può esser udita, come A ed O; semivocale è quella la quale con la percossa ha voce che può udirsi, come S e R; muta quella che con la percossa non ha voce, ma diviene sì fatta in compagnia de l'altre che l'hanno, in guisa che ella può esser udita, come F e D. E queste son differenti fra loro per le figure de la bocca, per luogo, per grossezza e sottigliezza, per longhezza e brevità, e oltre a ciò per acume e gravità e per quello accento ch'è mezzo tra l'uno e l'altra.

Sillaba è una voce che non significa cosa alcuna, composta da la lettera muta e da la voce, come Gra.

La congiunzione è una voce che non significa alcuna cosa, e non impedisce, né fa una voce significativa di molte voci, e può aver luogo nel mezzo e ne gli estremi, se più non le si convenisse il principio; o ver diremo che la congiunzione sia una voce che non significhi, ma sia atta a fare una voce di più voci che significhino insieme, cioè un parlare di molte parole: perché gli espositori non intendono de' nomi congiunti, ma de le parti de l'orazione legate insieme, come staltri dicesse: «Sotto essa giovanetti trionfaro Scipione e Pompeo».

L'articolo è una voce che non significa, la qual distingue i generi e i numeri o casi di quelle che hanno significazione; e per sua natura ne la nostra lingua si mette nel principio solamente, benché in quella de' Greci alcuni dimostrassero il principio, i quali sono chiamati protaktikoi, altri dichiarassero il fine, i quali da gli stessi furono detti hupotaktikoi; altri ne l'istessa lingua separano una cosa da l'altre; ed in luogo di questi i Latini posero ille ed iste, come dechiara il Vittorio nel suo comento sovra la Poetica d'Aristotele.

Nome. . . . . . . . . . . . . . .

Verbo è una voce composta, la qual significa insieme co 'l tempo, di cui niuna parte separata significa per sé, come abbiamo detto de' nomi: perciò che dicendosi uomo o bianco, non è significato il quando; ma chi dice camina o caminò, significa insieme quando: l'uno il tempo presente, l'altro il passato. Il caso è quel che dimostra ne' verbi e ne' nomi la mutazione de' numeri e de le persone: perciò ch'egli si trova ne gli uni e ne gli altri. Ne' nomi diremo di questo ed a questo, overo l'uomo e gli uomini; ne' verbi dicendosi camina e caminò, perciò che l'uno e l'altro cade da camino, ch'è prima persona del presente.

L'orazione è una voce, overo un parlar composto, il qual significa; e le sue parti significano ancora per sé qualche cosa. Ma l'orazione si dice una in due modi: o quella che significa una sola cosa, come la definizione de l'uomo, l'uomo è animal ragionevole; o quella la qual, congiungendo molte cose insieme, ne fa una di molte, come l'Iliade.

Ma le specie de' nomi son la semplice e la doppia, che si può dir composta; ed ogni nome è o proprio o straniero o trasportato o usato per ornamento, o fatto o allungato o accorciato o mutato. Proprio è quello ch'usa ciascuna gente e lingua. Straniero è quello ch'usa la diversa: perché straniero e proprio può essere il medesimo, ma non a' medesimi, avvenga che retaggio a' Francesi sia proprio, a noi è strano. Traslazione è trasportamento di nome proprio o da genere a spezie, o da spezie a genere, o da spezie a spezie, o secondo la proporzione: dico da genere a spezie come in que' versi di Dante, quando egli, parlando de' giganti, disse:

Certo Natura, quando lasciò l'arte
di sì fatti animali, assai fe' bene.

Da spezie a genere, dicendo mille volte in vece di molte, perché mille son molte, come fece il Petrarca:

Mille fate, o dolce mia guerrera.

Da la spezie a la spezie quando si pone l'una per l'altra, come fece Dante, il qual chiamò volo la navigazione, la quale è un'altra spezie di movimento:

de' remi facemmo ale al folle volo.

Per proporzione si farà la metafora, se chiamaremo la morte occaso de la Vita o l'occaso morte del giorno, ad imitazione di Dante, il qual disse:

che paia 'l giorno pianger che si more:

perché la medesima proporzione è tra 'l secondo e 'l primo ch'è tra il quarto e 'l terzo, cioè tra la morte e la vita, la qual è tra l'occaso e 'l giorno. Laonde sogliamo prendere il secondo in luogo del quarto e 'l quarto in luogo del secondo; ed alcuna volta s'aggiunge quello, perché si dice, come feci io in que' versi:

Muto poeta di pittor canoro.

Fatto o finto è quel nome che, non essendo mai stato usato da alcuno, il poeta il fa di nuovo: come fece Dante binato, e similmente intuassi, immii, inciela, impola, imparadisa, inoltra, insempra; ma particolarmente son lodati quelli che son più atti a l'imitazione ed al por le cose avanti gli occhi, come quello in quel verso:

Alto sospir che duolo strinse in hui

Anzi il poeta dal finger de' nomi prende il suo nome, perché egli è detto poeta dal verbo greco poiein, che significa tanto fare quanto fingere. Laonde così dal finger i nomi come dal far la favola è denominato. Il nome usato per ornamento è l'epiteto, o 'l nome aggiunto che vogliam dirlo: il qual Aristotele chiamò co 'l nome greco kosmon; e questo nome significa quella sorte d'epiteti che son detti oziosi e vani, come piace al Vittorio; overo quello che da' Greci è detto oikeion, cioè proprio o appropiato, come dechiara il Maggi: benché più mi piace l'altra opinione, perché la proprietà non suole apportar grande ornamento. L'allungato sarebbe s'altri dicesse simìle in vece di sìmile, il quale ha la penultima breve, o ignudo in vece di nudo. L'accorciato, chi dicesse secol o pensier o caval in vece di secolo, di pensiero o di cavallo. Il mutato è quando rimane una parte del nome, e l'altra si cambia: come dicendosi desiro in vece di desire, o desire in vece di desiderio, o alloro in vece di lauro, o allegiamento in cambio d'alleviamento.

Ma la virtù de la elocuzione, se crediamo ad Aristotele, è che sia chiara, non umile, quasi ne l'umiltà non possa essere alcuna virtù. Chiarissima veramente è quella, la quale è composta de' nomi propri; ma è umile, come sono i Capitoli del Bernia o del Mauro. Ma quella sarà grave, la quale userà vocaboli affatto peregrini. Peregrini chiama Aristotele la varietà de le lingue, l'accorciamento e l'allungamento, e ciascuno altro nome che non sia proprio; ma s'alcuno mescolasse insieme tutte queste cose, farebbe enigma o barbarismo; se mischiasse le traslazioni, enigma; se le lingue, barbarismo. I nomi dunque stranieri e i traslati e gli ornati e l'altre forme potranno fare il parlare non umile, ma sublime; e i propi il faranno chiaro e manifesto. Ma perché da una medesima cagione suol nascere l'oscurità e la grandezza e derivar quasi da un medesimo fonte, e da l'altro la umiltà e la chiarezza, fa di mestieri di gran giudizio e di grand'arte in accoppiare le voci proprie con le straniere e con le trasportate e con l'altre in guisa che ne risulti un parlare tutto splendido e tutto sublime. Dovrà dunque scegliere il poeta quelle traslate ch'averanno maggior vicinanza. con le proprie e che non saranno trasportate cosi di lontano. Dee ancora sceglierle da cose gratissime a la vista ed a gli altri sensi e schivar quelle che sono spiacevoli ad alcun di loro, come deveva far Dante, il qual, chiamando il sole «lucerna del mondo», ci fe' quasi sentir l'odor de l'olio. E si debbiamo fuggire la suspizione di tutte le cose brutte e troppo plebeie e popolari, come quella la qual è tratta dal chiavar de le porte, e l'altre somiglianti. Però non lodo colui il qual disse che la Republica era castrata per la morte di Scipione; né meritò molta lode il Caro chiamando i Francesi Galli intieri. Si deono anco lasciar quelle metafore, le quali per l'uso sono divenute proprie: perch'alcune cose ne le traslazioni si dicono più pienamente e più propriamente che non con le proprie e medesime, come dice Demetrio Falereo. Non dee il poeta trasportar la metafora da le cose minori a le maggiori, come il suono de la tromba al tuono; ma da le maggiori a le minori, come il torreggiar a' giganti:

torreggiavan di mezzo la persona
gli orribili giganti.

In somma le metafore deono esser vaghe, piacevoli, agevolmente intese ed illustri, com'e quella:

ridono i prati, il ciel si rasserena;

e quell'altre:

e le rose vermiglie infra la neve
mover da l'ra e discovrir l'avorio
che fa di marmo chi da presso 'l guarda;

e quelle:

perle e rose vermiglie, ove l'accolto
dolor formava ardenti voci e belle;
fiamma i sospir, le lagrime cristallo;

e facilmente intese, illustri, sublimi e magnifiche, come quelle altre:

Io pensava assai destro esser su l'ale,
non per lor forza, ma di chi le spiega;

e quelle:

Rotta è l'alta colonna e 'l verde lauro,
che facean ombra al mio stanco pensiero;

e quelle:

spargendo a terra le sue spoglie eccelse,
mostrando al sol la sua squallida sterpe.

Dee ancora schivar le metafore troppo oscure, le quali paiono quasi enigma, come alcune de la canzone:

Mai non vo' più cantar com'io soleva;

né si deono continuar le metafore, ma interporre tra le parole traslate le proprie, se vogliamo che 'l parlar sia chiaro e sublime; altrimenti se ne farebbe allegoria: perché allegoria è la metafora continuata, come è quella:

Passa la nave mia colma d'oblio
per aspro mare a mezza notte il verno
infra Scilla e Cariddi; ed al governo
siede il signore, anzi 'l nemico mio.
A ciascun remo un pensier pronto e rio,
che la tempesta e 'l fin par ch'abbi' a scherno:
la vela rompe un vento umido eterno
di sospir, di speranze e di desio ecc.

La metafora continuata nondimeno conviene al grave dicitore e ne' misteri e ne le minacce; ma oltre tutte le metafore che son lodate da Aristotele, è quella che si chiama metafora in atto, cioè quella che pone la cosa innanzi a gli occhi, e le dà quasi movimento ed anima, e di inanimata la fa quasi animata. Perché s'alcuno dicesse che l'uomo dabene è «ben tetragono a' colpi di ventura», fa metafora, perché l'uno e l'altro e perfetto; ma non significa alcuna operazione, però che non mette alcuna cosa innanzi gli occhi; ma dicendosi:

Nell'età sua più bella e più fiorita,

pare che quasi ci rappresenti la primavera. Similmente metafora in atto è quella:

Pon mano in quella venerabil chioma
sicuramente, e ne le treccie sparte,
sì che la neghittosa esca del fango:

perché segue l'operazione; e quell'altra, pur del Petrarca:

vinca il ver dunque e si rimanga in sella;
e vinta a terra caggia la bugia;

e quella di Dante:

..............infin che 'l ramo
rende a la terra tutte le sue spoglie;

e quell'altra:

io chinai 'l viso; e quei sen venne a riva
con un vasello snelletto e leggiero
tanto che l'acqua nulla ne 'nghiottiva;

e quella del Boccaccio ne la Teseide:

Ad un'ora ruggiàr tutte le porte.

Si vede adunque che ciascuno di questi poeti si compiacque di far le cose animate d'inanimate, come prima s'era compiaciuto Omero, con questa medesima traslazione, la quale è cagione di grandezza, perché dà anima a le cose e dà chiarezza, perché le pone innanzi a gli occhi. Dee similmente il poeta, per accoppiar queste due condizioni, pigliar le parole straniere da quelle lingue le quali hanno qualche similitudine con la nostra, come è la spagnuola e la francese, si veramente che lor si dia il fine de le parole toscane, ad imitazione di Cesare e d'altri, i quali a le parole barbare diedero la terminazione latina. Laonde non è da lodare il Guicciardino, il qual disse «Monsignor de l'Escu», potendo dir Monsignor de lo Scudo, benché in ciò abbia avuto infiniti imitatori. E ciò similmente conviene avvertire non solo ne le voci traslate e ne le straniere, ma ne le fatte di nuovo; altrimenti il parlare sarebbe simile a quello de gli Sciti, come dice Demetrio, o pur a quel de' Tedeschi e de gli Schiavoni. Laonde io non posso lodare affatto que' versi di Dante:

.............che se Tabernicch
vi fosse su caduto o Pietrapiana,
non avria pur da l'orlo fatto cricch.

Similmente per congiunger queste qualità ne la scelta de' nomi antichi si deono schivar quelli c'hanno del vieto e quasi del rancido, come son quelli:

e non v'era mestier più che la dotta;

e quelli:

E se miseria d'esto loco sollo
rende in dispetto noi e' nostri preghi,
cominciò l'uno, e 'l tristo aspetto e brollo ecc.

E quell'è biasimata da Dante medesimo nel libro de la Volgare eloquenza: «e andavamo introcque». Ma per risolver questo dubbio con le parole usate da Aristotele ne la Retorica, io dirò che la virtù de l'elocuzione è che sia chiara, perché, stella fosse oscura, non farebbe il suo officio; ma non dee esser umile, né più gonfia che non conviene: la poetica non è umile; ma non è conveniente. Da le quali parole si raccogliono due cose: L'una, che la virtù de l'elocuzione oratoria è la chiarezza e la convenevole altezza; l'altra, che 'l parlare ne' poeti sia più sublime che ne gli oratori, ma non già proprio: perché i poeti, come dice Marco Tullio, parlarono quasi con lingua aliena; ma da l'altre parole che seguono si raccoglie che le parole proprie fanno l'orazione piana, ma non ornata, e gli altri nomi, i quali più convengono al poeta, le accrescono ornamento, e particolarmente le parole disusate la fanno più venerabile, perché sono come forestieri tra' cittadini: laonde paiono peregrine e producono meraviglia; ma la meraviglia sempre apporta seco diletto, perché il dilettevole è meraviglioso. Tuttavolta il parlar sì fatto è più convenevole nel verso che ne la prosa, ne la quale si deono usar poche volte le parole straniere e le finte e l'altre ch'abbiamo annoverate. Ma le metafore sono più accomodate a l'oratore: de le quali abbiamo detto alcune cose e dato quasi alcuni precetti. E, riepilogando, possiam dire con Egidio (interprete d'Aristotele) che tre sian le proprietà de la metafora: ch'ella sia presa da cose convenevoli, da vicine e da manifeste; o che sian quattro, seguendo l'opinione d'altri ed aggiungendovi ch'ella sia presa da cose belle e grate a la vista; anzi, potendo esser presa da due cose belle, debbiam prenderla da la più bella, come fece il Petrarca, il quale, parlando de l'aurora, disse:

con la fronte di rose e co' crin d'oro.

Ma Dante prima avea detto che le guance de l'aurora

per troppa etate divenivan rance.

Laonde non si doverebbe dire che l'aurora fosse rossa, ma purpurea più tosto. Si possono a le dette proprietà aggiungerne due altre: ch'elle sian prese da cose maggiori e da migliori, sì veramente che la nostra intenzione sia di lodare: perché s'ella fosse di vituperare, possiamo prenderla da le peggiori, come fece Dante nel biasimar la sua donna:

questa scherana micidiale e ladra.

A queste cose, dette da Aristotele e da Demetrio Falereo, aggiunge Cicerone alcun'altre de l'origin de le metafore, dicendo ch'elle son fatte o per bisogno o per diletto: per bisogno come quelle che sono uscite da villani, i quali dicono gemmar le viti e lussureggiar le biade e l'altre simili; per diletto, come l'altre che son ritrovate per ornamento del parlare. Ma Porfirio non vuol che quelle le quali sono usate per necessità sian metafore, ma nomi equivoci più tosto: la quale opinione egli raccolse da le parole d'Aristotele medesimo, il qual nel terzo de la Retorica disse che la metafora porta diletto oltre la necessità. Laonde par ch'escluda quelle che son ritrovate per bisogno. Comunque sia, le traslazioni, usate con queste condizioni, accrescono molto la bellezza del parlare con gran lode di chi le trova; né può ritrovarle convenienti chi non conosce la similitudine de le cose ne la dissimilitudine. Laonde par ch'a gl'ingegni filosofici propriamente convenga il ritrovarle; e Platone oltre tutti gli altri le ritrovò e l'usò senza risparmio, e per ciò fu tenuto arditissimo. Senofonte si servì più volentieri de le imagini o de le similitudini che vogliam dirle: e c'è dato per consiglio di trasmutar in imagine la metafora pericolosa: il che si fa agevolmente con la giunta de la particella quasi, come fece il Petrarca:

e d'intorno al mio cor pensier gelati
fatto avean quasi adamantino smalto;

e 'l Caro dopo lui:

Giace quasi gran conca infra due mari.

Si può assicurar ancora la traslazione con un altro aiuto, cioè con l'epiteto, come assicurò Dante, il quale, parlando de gli alberi pieni di neve, disse:

Sì come neve tra le vive travi.

E 'l Petrarca, per opinione d'alcuni, chiamò a l'incontro una cassa di legno «secca selva»:

E pria sarò sotterra in secca selva;

e spesso usò questo aiuto, come chiamando gli occhi di madonna Laura «angeliche faville», ed in un altro luogo il destro occhio «destro sole», e 'l volto «calda neve». Alcuna volta i nostri poeti hanno usato gli aggiunti per ammollir l'asprezza del nome che sta per sé, come usò il Petrarca dicendo:

O viva morte, o dilettoso male;

e monsignor de la Casa:

Pietosa tigre ad amar diemmi, e scoglio;

ed altrove:

..........serena e piana
procella il corso mio dubbioso face.

Ma benché questo nome di metafora paia tanto ristretto da Aristotele quanto abbiam veduto, nondimeno alcune volte l'usò in larghissimo significato, perch'egli suole chiamar metafora ogni nome che non è proprio. Laonde Cicerone estima ch'Aristotele comprendesse sotto il nome di metafora tutto quel che da' grammatici e da' maestri del dire (i quali dividono e spezzano le cose) vien chiamato con vari nomi; e senza fallo i nomi d'ipallage, di metonimia e d'allegoria furono dopo Aristotele di nuovo ritrovati: perciò ch'egli riprese alcuni sofisti, i quali posero nomi diversi a cose che non erano diverse in modo alcuno. Laonde non è meraviglia se di poche figure ritroviamo appresso Aristotele alcuna menzione; ma non era convenevole ch'Aristotele facesse menzione di quelle cose che non si possono raccogliere sotto alcuna arte; ma le figure peraventura si possono multiplicare in infinito. Laonde Cicerone ne la Topica disse che le figure de le parole o de le sentenze, le quali i Greci chiamano skhemata, eran cosa infinita: però può cadere più tosto sotto la distribuzione de le parti che sotto la divisione. Son dunque anzi parti de l'orazione che forme o spezie; e s'elle fossero forme, come piace a Boezio, e spezie del genere, potrebbono ricever l'istesso nome, perciò che a ciascuna di loro conviene il nome del genere, là dove a le parti non si conviene quel del tutto; nondimeno ciò nulla rileva, perciò ch'essendo in potestà del dicitore multiplicare le figure del parlare, può multiplicarle in infinito, perché, insieme co 'l mutar de l'elocuzione, si mutano le figure, fra le quali non è alcuna differenza sostanziale, ma solamente accidentale. Laonde par che non possano avere genere comune, perché ciascun genere ha le sue differenze specifiche. È meglio dunque seguir l'altra opinione di Cicerone, seguita da Boezio istesso, che l'elocuzione sia il tutto, e le figure sieno alcune parti in lei tessute in molti e diversi modi, quasi tronconi o foglie o animaluzzi o altre si fatte imagini nel drappo de la seta e de l'oro. Ma se ciò è vero, non debbiam diffinir la figura forma fatta di nuovo con qualche artificio; ma una parte artificiosamente rinovata e mutata e diversa la l'altre. Ma se le figure son parti, di loro non si può dare arte esquisita, perché non si posson raccogliere sotto certo numero. Non errò dunque Aristotele in tralasciarle; o più tosto non le tralasciò, perché tutte le raccolse sotto la metafora e le distinse da le parole proprie; né si può imaginare altra più perfetta divisione o altra più certa partizione di quella ch'egli fece ne la Poetica. Ma non deono esser però disprezzate le cose dette da gli altri. Demetrio divise le figure in quelle de le sentenze e de le parole; ma ne l'insegnare confuse questo ordine egli medesimo. L'istesse divisioni fece da poi Marco Tullio, o l'autore ad Erennio; ma perturbò l'ordine similmente, perché le figure de le sentenze son prima che quelle de le parole, si come son prima le cose de le parole; ma peraventura ebbe riguardo a qualche comodità de l'insegnare o disprezzò l'avvertimento come troppo minuto. Il Trapezunzio confuse ne l'istesso modo le figure del parlare con quelle del sentimento. Quintiliano le numera per ispezie. Aldo Manuzio, seguendo gli antichi grammatici, subdivide quelle de le parole in tre generi: cioè de la voce, de la construzione e de l'elocuzione. Ma Giulio Cesare da la Scala promette di darne arte esquisita: e difinisce la figura un disegno de le specie o de le forme ch'abbiamo ne la mente, e vuol che tanti sieno i sommi generi de le figure quante sono le scienze; e fra le scienze mette la dialettica per principale, le cui figure sono la disposizione del mezzo termine, perché in questo modo le chiamò Aristotele. La grammatica ha le sue figure, che sono mutazioni fatte nel parlare contra le sue leggi, o contra le sue regole che vogliam dirle; e sono sotto una somma scienza, la qual contiene la poesia, l'istoria e l'arte oratoria. Ma peraventura quelle de la grammatica sono confuse con quelle ch'usano i poeti, gli istorici e gli oratori; anzi i grammatici non ne conoscono altre. Oltre a ciò, se molti sono i sommi generi de le figure, non vi è un genere universo il quale contenga tutti e sia superiore a gli altri: laonde non so come si possa darne una sola definizione.

Lasciam dunque ora da parte le figure de la logica, perch'in questo nome è qualche equivocazione; ma non biasimo già la divisione fatta in quelle ch'appartengono a la poesia, ch'alcune figure significano quel ch'è, altre il contrario; e di quelle che significano quel ch'è, altre il significano egualmente, altre meno, altre altrimenti: tuttavolta questa divisione è sua propria fatta per le specie. Nondimeno non l'ha potute raccoglier tutte sotto i suoi generi: né io prenderò questa fatica, o impossibile o malagevolissima molto; e voglio più tosto presupporre, come ho detto, ch'elle sian parti de l'elocuzione. Ma forme son quell'altre ch'idee son state chiamate: le quali altri chiamò caratteri, altri generi, ciascun de' quali ha la sua propria laude e la sua propria eccellenza. Ma questa divisione fu fatta dopo Aristotele, il quale non distinse le forme del parlare in quel modo che dopo lui furono distinte da Demetrio o da alcuno più antico, se non m'inganno, e da poi da Marco Tullio e da Ermogene e da' retori e da' grammatici greci e latini. E cominciando da l'opinione di questi che sono più vicini, quattro sono i generi del parlare: il breve e 'l lungo, il mezzano e 'l fiorito. Ma il primo vizio in questa divisione, come piace a Giulio Cesare da la Scala, è che le parti de la divisione sian troppe; l'altro, ch'elle non sian separate per le differenze specifiche; il terzo, che così il lungo come il breve può esser fiorito. A le medesime opposizioni mi par quasi soggetta la divisione che Ermogene fa de le idee: le quali sono la chiara, la grande, la bella, la veloce, l'affettuosa, la grave e la vera, perciò che sono molte e non son divise per contrarie differenze; e s'alcuno la volesse chiamar partizione, non divisione, ne seguirebbe ch'elle fossero parti, non forme, né idee, come vuole Ermogene; ma noi abbiam presupposto che sian forme, a differenza de l'altre che son parti. Oltre a ciò, se pur si trova la forma del dire veloce, perché non si trova la tarda ? e se ci è la vera, perché non ci è la falsa? benché non si può dubitar ch'ella non vi sia, perché molti ammaestramenti si potrebbon dare di questa forma, solamente considerando la narrazione di Sinone appresso Virgilio. Più breve e più spedita mi par la divisione di Cicerone nel suo Oratore, che tre siano i generi del parlare: l'alto, il mediocre e l'umile: perciò che il mediocre si fa o inalzando l'umile o abbassando il sublime. Laonde due generi solamente sono i principali: e questi sono gli estremi. Ne l'istesso modo può esser difesa la divisione di Demetrio, il qual divide le forme in quattro semplici: ne la tenne, o sottile che vogliamo dire, ne la magnifica, ne l'ornata e ne la grave, e ne l'altre che di queste son mescolate. Ma tutte non sono miste con tutte; ma l'ornata con la sottile, e l'ornata ne l'istesso modo con l'una e con l'altra; sola la magnifica non si mescola con la sottile; ma sono quasi forme poste a l'incontra e contrarie. Per la qual cagione volsero alcuni che fosser due forme solamente, e l'altre due poste nel mezzo; ma l'ornata è attribuita a la tenue, e la magnifica a la grave, come se l'ornata avesse qualche sottigliezza, e la grave, mole e grandezza. Ma 'l parer di costoro parve a Demetrio degno di riso: perch'egli vide tutte l'altre mescolate insieme, non solo le due già dette; e conobbe che ne' versi d'Omero e ne le prose di Platone e di Senofonte e d'altri molti è molta magnificenza mescolata con molta gravità e con molta bellezza. Tanta differenza è tra la felicità del comporre e la sottigliezza del disputare. Nondimeno ne l'assegnare i nomi a' caratteri, egli non fece grande stima de l'autorità d'Aristotele, il quale nel terzo de la Retorica riprese coloro che trasportavano questo nome di magnificenza da' costumi a l'elocuzione, e peraventura non si ricordò d'aver ciò letto; ma più sicuramente si chiamerebbono le forme semplici co' nomi opposti, cioè alto e basso, se la bassezza non fosse vizio. Ma questa è lite de' nomi; e pur ch'intendiamo e siamo intesi, poco importa comunque sian detti. Dicansi dunque o caratteri, come li nomina Demetrio; o generi, come Marco Tullio; o specie o forme, come son dette da l'uno e da l'altro; o idee, come le disse Ermogene e prima di lui Plutarco. Ma la forma si può difinire l'effigie del parlare, e 'l carattere, il segno. Chiamandosi generi, pare che le spezie quasi più minute sotto a lui sian contenute. Laonde se le forme sono spezie, conviene che sian soggette al genere. E se ciò è vero, il sublime e l'alto genere avrà, come sue spezie, la grande, la bella, la splendida, la grave forma, che è quella ch'è piena di dignità, e l'aspra, l'affettuosa e la veemente; il mediocre: la graziosa, la soave, la dolce, la piacevole, l'ornata e la fiorita; l'umile: la chiara o ver la facile, la semplice, l'acuta, la sottile, la motteggevole o ver quella che muove a riso, ed altre simiglianti: benché Giulio Cesare da la Scala abbia voluto che alcune di queste siano più tosto affetti che spezie: perché, se fossero spezie, sarebbon separate per differenze contrarie; ma aviene altrimenti, come egli estima, perché la chiarezza e la bellezza sono necessarie ad ogni sorte d'orazione, ma la grandezza non a tutte. Nondimeno per l'opinione de gli antichi si potrebbe replicare chtal parlar de gli oracoli ed a quel che s'usa ne' misteri non è necessaria la chiarezza; né la bellezza nel parlar di colui che vitupera e che rimprovera altrui le sue colpe. Laonde Beatrice, nel riprender Dante, non usò questa forma quando ella disse:

O tu che ancor di là dal fiume sacro
per udir se' dolente, alza la barba;

del che egli s'avvide; però soggiunse:

e quando per la barba il volto prese,
ben conobbi il velen de l'argomento.

Ma molto meno usò questa forma il Boccaccio nel riprender la vedova che l'aveva schernito: anzi raccolse i più sozzi vocaboli e i più vili ch'usasse il popolo fiorentino, come fece Dante ancora spesse fiate ne l'Inferno, cioè nel primo canto del suo poema: perché si fece lecito di riprendere e di morder le persone co 'l proprio nome, si come s'usava ne la comedia vecchia: benché per altra cagione ancora gli poté dare questo nome, come altrove ho detto. Ma lasciando questa questione da parte, io dico che le forme si mescolano insieme in guisa ch'è difficil cosa trovarle mai separate, eccettuatene quelle che sono contrarie. Talché possiamo assomigliare il parlare ad una cera, la qual prende diversi segni e diverse figure. Ma le parole sono imagini de' concetti, i quali sono ne l'animo nostro, come dice Aristotele; e i concetti de le cose che son fuori de l'intelletto. Le parole adunque sono imagini de l'imagini: però deono assomigliarle; e benché il concetto, il quale è quasi un parlare interno, sia fatto in uno instante, le parole nondimeno sono pronunziate in qualche tempo; e il tempo è numero: laonde il numero ancora si dee considerare ne le parole. Tre condizioni dunque concorrono in queste che noi dimandiamo forme del parlare: le parole, quasi materia che dee ricever la forma; il numero; e 'l concetto, o sentenza che vogliam dirla. Consideriam dunque quali parole, quai numeri e quai concetti a le forme sian più convenienti; e poi andremo ricercando quai figure sian proprie di ciascuna. Io non ho fatta menzione de le cose, perché Demetrio ancora disse che la magnificenza consisteva in queste tre: cioè ne la sentenza, ne la elocuzione e ne la composizione de le parole convenienti, da la quale nasce il numero; ma da poi considerò la quarta condizione, dicendo che la magnificenza era ne le cose, ove si tratti e descriva alcuna grande ed illustre battaglia terrestre o navale, e dove si ragioni del cielo e de la terra. De la qual opinione fu ancora Nicia pittore, il qual volle che l'argomento non fosse picciola parte de l'arte del dipingere, perché alcuno, dipingendo cosa somigliante, dee mostrar molte figure di cavalli, de' quali alcuni corrano, altri caggiano, altri stiano dritti, e molte ancora di cavalieri, i quali saettino o caggiano dal cavallo saettando; ma gran fallo commetterebbe se quasi spezzasse l'arte in molte minutissime parti, dipingendo fiori ed uccelletti. Ma gli esempi non si ritrovan più belli o maggiori che ne' versi di Virgilio; de la battaglia terrestre in quelli:

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Anceps pugna diu, stant obnixa omnia contra.
Haud aliter Troianae acies, aciesque Latinae
concurrunt: haeret pede pes densusque viro vir.
At parte ex alia, qua saxa rotantia late
intulerat torrens arbustaque diruta ripis,
arcadas, insuetos acies inferre pedestres,
ut vidit Pallas Latio dare terga sequaci etc.;

e in quelli altri del medesimo poeta:

Caedicus Alcathoum obtruncat, Sacrator Hydaspem,
Partheniumque Rapo et praedurum viribus Orsen,
Messapus Cloniumque Lycaoniumque Ericeten:
illum infraenis equi lapsu tellure iacentem,
hunc peditem. Pedes et Lycius processerat Agis,
quem tamen haud expers Valerus virtutis aVitae
deiicit: Thronium Salius Saliumque Nealces,
insignis iaculo et longe fallente sagitta.
Iam gravis aequabat luctus et mutua Mavors
funera: caedebant pariter pariterque ruebant
victores victique; neque his fuga nota neque illis;

e quel che segue. Molti altri esempi e quasi vive imagini de la battaglia terrestre sono nel divin poeta; ma la navale è figurata ne lo scudo, come si legge:

Haec inter tumidi late maris ibat imago
aurea, sed fluctu spumabant caerula cano;
et circum argento clari delphines in orbem
aequora verrebant caudis aestumque secabant.
In medio classes aeratas, Actia bella
cernere erat; totumque instructo Marte videres
fervere Leucaten, auroque effulgere fluctus.
Hinc Augustus agens Italos in praelia Caesar,
cum patribus, populoque, Penatibus et magnis Dis,
stans celsa in puppi; geminas cui tempora flammas
laeta vomunt patriumque aperitur vertice sidus.
Parte alia ventis et Dis Agrippa secundis,
arduus agmen agens, cui, belli insigne superbum,
tempora navali fulgent rostrata corona.
Hinc ope barbarica variisque Antonius armis
victor ab Aurorae populis et littore rubro
Aegyptum, viresque Orientis, et ultima secum
bactra vehit sequiturque (nefas!) Aegyptia coniux.
Una omnes ruere, ac totum spumare reductis
convulsum remis rostrisque tridentibus aequor.
Alta petunt; pelago credas innare revulsas
Cycladas, aut montes concurrere montibus altos:
tanta mole viri turritis puppibus instant.
Stuppea flamma manu telisque volatile ferrum
spargitur.

Ma l'esempio de le cose del cielo e de la natura si vede in quelli altri del medesimo poeta:

Principio caelum ac terras camposque liquentes
lucentemque globam Lunae Titaniaque astra
spiritus intus alit totamque infusa per artus
mens agitat molem et magno se corpore miscet.

Ma per la medesima cagione suol esser la magnificenza ne' versi de' nostri poeti, come in quelli di Dante:

La gloria di colui che tutto move,
per l'universo penetra, e risplende
in una parte più e meno altrove.

Le cose adunque possono ancora accrescer la magnificenza, quantunque Giulio Cesare Scaligero porti contraria opinione, dicendo che non è necessario che nel carattere grande sian grandi le cose, e nel sottile sottili, ma che basta nel poeta l'usar parole scelte, sonore, depinte, e la composizione de le cose numerosa. Ma in queste parole doppiamente s'inganna: prima perché lascia a dietro i concetti e le sentenze, il qual errore è insopportabile; da poi, perché esclude le cose. Ma questo errore più facilmente può esser perdonato, perciò che le cose picciole possono esser trattate con grand'ornamento, come trattò Virgilio quelle de l'api, dicendo:

Protinus arii mellis caelestia dona
exsequar. Hanc etiam, Maecenas, aspice partem.
Admiranda tibi levium spectacula rerum
magnanimosque duces totiusque ordine gentis
mores et studia et populos et praelia dicam.
In tenui labor, at tenuis non gloria: si quem
numina laeva sinunt auditque vocatus Apollo:

ne' quai versi il poeta formandosi ne l'animo il concetto o d'una città o d'un esercito ch'abbia legge, costumi e studi, e popoli e duci magnanimi, agevolmente usò parole gravi ed ornate. Né basta che 'l numero e le parole siano sonore e depinte, se non corrispondono i concetti e le sentenze, perché già abbiam detto che le parole sono imagini de le passioni de l'animo; ma le imagini deono esser simili a l'imaginato. Tutta volta i concetti ancora sono imagini de le cose; e quantunque le cose concorrano egualmente a la grandezza de la forma, nondimeno Demetrio Falereo dice che le cose ampie si deono dire ampiamente, e tutte l'altre deono esporsi con parole acconce e proprie del concetto; e facendosi altrimenti par che si scherzi. Laonde ne le materie gravi non è lecito che le parole discordino da le cose, benché alcuni stimassero che sia gran segno d'eloquenza il dir le cose picciole altamente. Ma ciò si concede per gioco o per altra cagione; e perché scherzava, fu lodato il Berno quando egli disse:

Dal più profondo e tenebroso centro
ove ha Dante alloggiato i Bruti e i Cassi,
fa, Florimonte mio, nascere i sassi
la vostra mula per urtarvi dentro.

Di quella opinione fu Giulio Camillo, il quale scrisse ne la sua orazione De l'eloquenza queste parole: «At in iisdem libris, ut summissa mirabiliter dicantur, his verbis praecepit: “In eloquentia autem multa sunt quae teneant; quae si omnia summa non sunt, et pleraque tamen magna sunt, necesse est ea ipsa quae sunt, mirabilia videri”». Ma da queste parole di Cicerone ne l'Oratore io raccoglio più presto che non solamente le cose grandissime, ma le grandi ancora, benché non sian le somme, possono ricever meraviglioso ornamento: né Marco Tullio portò opinione lontana da questa. Lasciamo dunque co' suoi seguaci Giulio Camillo e Giulio Cesare da la Scala, il quale più presto dovrebbe esser seguito in un'altra opinione, estimando egli che l'umiltà di Virgilio ne lo stile sublime, cioè ne l'Eneide, sia differente da quella de la Buccolica in spezie; ma l'altezza da la umiltà de l'Eneide sia diversa non di spezie, ma di modo. Più sicuramente nondimeno si può affermare che il temperato e 'l sublime e l'umile de l'eroico non sia il medesimo con quelli de gli altri poemi; e se fosse pur lecito al poeta usar lo stil dimesso ne l'epopeia, non dee però inchinarsi a quella bassezza ch'è propria de' comici, come fece l'Ariosto quando egli disse:

ch'a dire il vero egli v'avea la gola;
e riputata avria cortesia sciocca,
per darla altrui, levarsela di bocca;

e in quelli altri:

E dicea il ver; ch'era viltade espressa
conveniente a un uom fatto di stucco etc.
Che tuttavia stesse a parlar con essa,
tenendo basse l'ale come il cucco.

Troppo, per dir il vero, sono vili e disonesti questi modi; e per la bruttezza de la cosa che ci si mette avanti a gli occhi, o che s'accenna, non convengono al poeta eroico. Di questo numero sono ancora quegli altri:

e fe' raccorre al suo destrier le penne,
ma non a tal che più l'avea distese.
Del destrier sceso, a pena si ritenne
di salir altri.

E come c'insegna Marco Tullio nel libro Del perfetto genere de l'oratore: «In tragaedia comicum vitiosum est; et in comaedia turpe tragicum». Laonde, essendo questi modi convenienti a la comedia, son disconvenevolissimi a la tragedia, e ne l'epopeia o nel poema eroico parimente. E perch'è maggior conformità tra il lirico e l'epico, non s'abbassò a la mediocrità lirica senza decoro, ma seguì l'esempio di Catullo in quelli altri:

La verginella è simile a la rosa
ch'in bel giardin su la nativa spina,
mentre sola e sicura si riposa,
né gregge, né pastor se le avvicina;
l'aura soave e l'alba rugiadosa,
l'acqua, la terra al suo favor s'inchina:
gioveni vaghi e donne innamorate
bramano averne e seni e tempie ornate.

Il qual fu poi imitato nel suo Canzoniere con molta convenevolezza da monsignor de la Casa:

Qual chiuso in orto suol purpureo fiore,
cui l'aura dolce 'l sol tepido e 'l rio
corrente nutre, aprir tra l'erba fresca etc.

Lo stile eroico adunque non e lontano da la gravità del tragico, né da la vaghezza del lirico; ma avanza l'uno e l'altro ne lo splendore d'una meravigliosa maestà. Non è disconvenevole nondimeno al poeta epico ch'uscendo alquanto da' termini di quella sua illustre magnificenza, alcuna volta pieghi lo stile a la gravità del tragico, il che fa più spesso; alcun'altra al fiorito ornamento del lirico, il che fa più di rado. Ma lo stile de la tragedia, quantunque descriva avvenimenti illustri e persone reali,l per due cagioni dee esser meno sublime e più semplice de l'eroico: l'una, perché suol trattar materie più affettuose; e l'affetto richiede purità e semplicità, perch'in tal guisa è verisimile che ragioni uno che sia pieno d'affanno o di timore o di misericordia o d'altra simile perturbazione; l'altra cagione è che ne la tragedia non parla mai il poeta, ma sempre coloro che sono introdotti agenti ed operanti, a' quali si dee attribuire una maniera di parlare men disusata e men dissimile da l'ordinaria. Ma 'l coro peraventura dee parlar più altamente, perch'egli, come dice Aristotele ne' Problemi, è quasi un curatore ozioso e separato; e per l'istessa ragione parla più altamente il poeta in sua persona, e quasi ragiona con un'altra lingua, sì come colui che finge d'esser rapito da furor divino sovra se medesimo. Ma lo stile del lirico non è pieno di tanta grandezza quanta si vede ne l'eroico; ma abonda di vaghezze e di leggiadria, ed è molto più fiorito: perché i fiori e gli ornamenti esquisiti sono propri de la mediocrità, come c'insegna Marco Tullio ne l'Oratore; e Pindaro prima di lui nominò gli ornamenti de la sua poesia hymnorum flores. Le materie ancora il ricercano, e la persona del poeta che quasi mai non si nasconde; ma se lc cose fossero piene d'affetti e di costumi, sarebbono peraventura contente di minor ornamento, o non vorrebbono i medesimi, perciò che non tutte le figure convengono a tutte le forme ne la medesima composizione di parole, ma alcune sono più convenevoli a l'una ch'a l'altra, com'estima Demetrio. Ora seguirò questa opinione, lasciando quella del Trapezunzio, che tutte le figure siano usate in tutte le forme: non perch'io voglia imporre alcuna necessità a gli altri o a me stesso, ma perché l'ammaestramento non mi par soverchio, né degno d'essere disprezzato.




LIBRO QUINTO


Fra i più cari e preziosi doni fatti da Iddio a la natura umana è stato quello del parlare, il quale ne la dignità e ne l'eccelenza si pareggia quasi a la ragione. Però tra' Greci ebbero l'istesso nome di logos, nome che significa l'uno e l'altra parimente; e quantunque la ragione sia quella che ci distingua da gli animali bruti e ci faccia simili a l'intelligenze ed a le nature divine, nondimeno, per opinione di molti filosofi, fu creduto che gli animali participassero di ragione; ed Aristotele medesimo, ne l'Istoria loro e ne'libri De la generazione e de le parti, attribuisce a le fere l'ingegno e l'avvedimento e la prudenzia; ma nel parlare elle non hanno con gli uomini alcuna convenienza, se già non vogliam credere a le favole d'Apollonio Tianeo ed a la meravigliosa filosofia di Porfirio. Però par che la favella separi l'uomo principalmente da le bestie, e il faccia lor superiore e quasi re e principe de gli animali. Anzi se fu mai alcun tempo nel quale egli pacificamente a le bestie signoreggiasse, ciò solamente avvenne per virtù del parlare. Taccio quel che si favoleggia d'Orfeo e d'Anfione, i quali, se crediamo a Marco Tullio, in quegli antichissimi secoli con la virtù de l'eloquenza raccolsero insieme gli uomini che prima viveano vita salvatica e bestiale; ma non debbiam dubbitare che l'uomo non fosse colui che prima imponesse i nomi a' bruti e, chiamandoli imperiosamente in virtù de' nomi, li facesse obedienti al suo imperio, come si legge in Filone ebreo e ne gli scrittori de le sacre lettere. È dunque nobilissimo dono del primo donatore il parlare, ch'altramente si dice elocuzione, e potentissimo ministro de l'intelletto e vero interprete de l'animo nostro. Però l'eloquenza, che prende il nome da l'elocuzione, non cede a la prudenza, se fosse possibile che l'una da l'altra si separasse, avvenga che molti uomini prudenti, privi di questo dono, furono esclusi dal governo de' regni e de le republiche e riputati quasi infanti. Grande è stato adunque l'errore di coloro ch'estimarono che l'elocuzione non fosse propria de l'oratore e de l'eloquente, ma parte che si concede a l'istrione: fra' quali fu monsignor Antonio Bernardi cognominato il Mirandulano. Si fondava questo filosofo sovra l'autorità d'Aristotele, o che gli pareva, raccogliendo da le sue parole ne la sua Retorica a Teodette ch'oltre l'entimema e l'esempio, co' quali persuade l'oratore, l'altre cose siano accessorie e quasi estrinseche da l'arte sua, come quelle che per se stesse non persuadono né fanno alcuna prova, ma servono a commover gli animi de gli uditori. Aristotele nondimeno ne la Poetica assegna quattro parti di qualità a la tragedia, che sono proprie di quell'arte: fra le quali numera l'elocuzione; ed a queste aggiunge le due estrinseche, che sono la musica e l'apparato. Ma se l'elocuzione è parte del poeta e non de l'istrione, tutto che l'istrione sia ordinato a' servigi de la poesia, è ragionevole e quasi necessario che sia parte ancora de l'oratore, il quale non ha alcun commercio con l'istrione. Aristotele medesimo conobbe quanta virtù di persuadere consista ne le parole: laonde se la retorica è un'arte la qual considera e ritrova tutto quello ch'è atto al persuadere, dee principalmente essere investigatrice e quasi giudice de l'elocuzione e di quelle forme del dire che sono più acconce a la persuasione, com'io mi sforzerò di provare quando tratterò di tutta l'eloquenza, in quanto in lei si contengono quasi egualmente gli ammaestramenti de' poeti e de gli oratori e de gl'istorici, e de' filosofi ancora che vogliono scrivere e parlare con qualche ornamento. Ora mi basta di confermare che la poesia è un'arte subordinata a la logica o veramente una sua parte; non solamente perch'ella è arte de l'orazione, la qual cerca il diletto, non altrimenti che la grammatica il regolato parlare, e la retorica la persuasione; ma perché nel parlar poetico, il quale non è senza imitazione, è una tacita prova e molte volte efficacissima: perché non si può imitare senza similitudine e senza esempio; ma ne l'esempio ed in ogni cosa che paia verisimile è la prova.

Seguendo adunque il trattar de l'elocuzione, io dico che la lunghezza de' membri e de' periodi, o de le clausole che vogliam dirle, fanno il parlar grande e magnifico non solo ne la prosa, ma nel verso ancora, come in quelli:

Tu c'hai, per arricchir d'un bel tesauro,
volte l'antiche e le moderne carte,
volando al ciel con la terrena soma,
sai da l'imperio del figliuol di Marte
al grande Augusto, che di verde lauro
tre volte trionfando ornò la chioma,
ne l'altrui ingiurie del suo sangue Roma
spesse fate quanto fu cortese etc.;

ed in quelli altri:

Quel che d'odore e di color vincea
l'odorifero e lucido Orrente,
d'ogni rara eccellenzia il pregio avea,
dolce mio lauro, ov'abitar solea
ogni bellezza, ogni virtute ardente,
vedea a la sua ombra onestamente
il mio signor sedersi e la mia dea etc.;

e in quelli altri:

Quand'io mi volgo indietro a mirar gli anni
c'hanno, fuggendo, i miei pensieri sparsi,
e spento 'l foco ov'agghiacciando i' arsi,
e finito il riposo pien d'affanni,
rotta la fé de gli amorosi inganni,
e sol due parti d'ogni mio ben farsi,
l'una nel cielo, e l'altra in terra starsi,
e perduto 'l guadagno de' miei danni;
i' mi riscuoto etc.

In queste rime e cagione di grandezza ancora il senso che sta largamente sospeso: perché avviene al lettore com'a colui il qual camina per le solitudini, al quale l'albergo par più lontano quanto vede le strade più deserte e più disabitate; ma i molti luoghi da fermarsi e da riposarsi fanno breve il camino ancora più lungo.

L'asprezza ancora de la composizione suol esser cagione di grandezza e di gravità, come in quel verso:

Come a noi il Sol, se sua soror l'adombra;

o 'n quelli altri:

né gran prosperità il mio stato avverso
può consolar di quel bel spirto sciolto;

ed in quelli:

ch'ogni dur rompe, ed ogni altezza inchina;

ed in quelli:

Ella si sta pur come aspr'alpe a l'aura.

Il concorso de le vocali ancora suol producere asprezza o piacevol suono, come in quel verso:

fu consumato, e 'n fiamma amorosa arse;

ed in quelli altri di Dante, ne' quali non s'inghiottono le vocali, ma si fa quasi una apertura ed una voragine:

poi è Cleopatras lussuriosa;

ed in quello:

là onde il carro già era sparito;

ed in quelli altri:

Queste parole di colore oscuro
vid'io scritte al sommo d'una porta;

e quelli:

Nel ciel che più de la sua luce prende
fu' io etc.,

quantunque il concorso dell'I non faccia così gran voragine o iato, come quello de l'A e de l'O, per cui sogliamo più aprir la bocca. Tutte queste cose sogliono senza dubbio esser cagion de' medesimi effetti, perché la composizione molle ed eguale è forse più cara e piacevole a gli orecchi, ma non ha loco ne la magnificenza; però fu molto schifata da monsignor de la Casa, perché quel di Dante io non mi risolvo a dire se fosse o artificio o caso: l'uno e l'altro nondimeno sono somiglianti a colui ch'intoppa e camina per vie aspre; ma questa asprezza sente un non so che di magnifico e di grande.

I versi spezzati, i quali entrano l'uno ne l'altro, per la medesima cagione fanno il parlar magnifico e sublime, come quelli:

I dì miei più leggier che nessun cervo,
fuggir com'ombra; e non vider più bene
ch'un batter d'occhio e poch'ore serene,
ch'amare e dolci ne la mente servo;

ed in quelli parimente:

Ora hai fatto l'estremo di tua possa,
o crudel Morte; or hai 'l regno d'Amore
impoverito; or di bellezza il fiore
e 'l lume hai spento, e chiuso in poca fossa.

In molti altri sonetti ancora del Petrarca, in molti del Bembo, in molti di monsignor de la Casa si può osservar il medesimo; ma particolarmente in quello:

O sonno, o de la queta, umida, ombrosa
notte placido figlio; o de' mortali
egri conforto, oblio dolce de' mali
sì gravi, ond'è la via aspra e noiosa;
Soccorri al core omai che langue, e posa
non ave; e queste membra stanche e frali
solleva; a men ten vola, o Sonno, e l'ali
tue brune sovra me distendi e posa.

Ma oltre tutte le cose che facciano grandezza e magnificenza ne le rime toscane, è il suono o lo strepito per così dire de le consonanti doppie, che ne l'ultimo del verso percuotono gli orecchi; come in quel sonetto lodatissimo dal Bembo:

Mentre che 'l cor da gli amorosi vermi
fu consumato e 'n fiamma amorosa arse,
di vaga fera le vestigia sparse
cercai per poggi solitari ed ermi;

ed in quell'altro:

Al cader d'una pianta che si svelse,
come quella che ferro o vento sterpe,
spargendo a terra le sue spoglie eccelse,
mostrando al sol la sua squallida sterpe;
vidi un'altra, ch'Amor obietto scelse,
subietto in me Callope ed Euterpe;
che 'l cor m'avvinse e proprio albergo felse,
qual per tronco o per muro edera serpe;

ed in quegli altri versi d'una canzone:

A le pungenti, ardenti e lucid'arme,
a la vittoreosa insegna verde,
contra cui 'n campo perde
Giove, ed Apollo, e Polifemo, e Marte.

Conviene ancora ordinare i nomi in guisa che gli ultimi vadano sempre accrescendo, come si conosce ne l'esempio pur ora addotto:

A le pungenti, ardenti e lucid'arme;

ed in quell'altro:

Il dì s'appressa, e non pote esser lunge,
sì corre il tempo e vola,
Vergine unica e sola:
e 'l cor or conscenzia, or morte punge;

ed in quel mio:

né tanto scoglio in mar, né rupe alpestra,
né pur l'alpe s'inalza o 'l mauro Atlante.

E ciò conviene particolarmente osservar ne l'iperbole e ne lo smoderamento, nel qual le cose dette in ultimo tanto deono esser accresciute, che le prime ci paiano picciole, quantunque fossero grandi per se stesse, come ci mostrò Omero prima de gli altri in que' versi del Ciclope, ne' quali dice ch'egli non è pare a gli uomini c'hanno il nutrimento da la terra, ma ad uno scoglio o ad un colle selvaggio, anzi ad un alto monte che superi gli altri monti:

. . . . . . . . oude eokei
Andri ge sitophago alla rhio huleenti etc.

Le congiunzioni ancora, essendo raddoppiate, alcuna volta accrescono forza al parlare, come in quel verso di Dante:

S'io avessi le rime et aspre e chiocce;

ed in quello del Petrarca:

fe' mia requie a' suoi giorni e breve e rara;

e in quelli altri:

più leggiera che 'l vento,
e reggo e volvo quanto al mondo vedi etc.
al tuo nome e pensieri e 'ngegno e stile.

Alcuna volta ancora la dissoluzione, ch'è contraria a la congiunzione, fa il parlar grande e più magnifico, come in que' versi:

Cercar m'ha fatto deserti paesi;
fiere e ladri rapaci: ispidi dumi;
dure genti e costumi,
ed ogni error ch'i pellegrini intrica;
monti, valli, paludi e mari e fiumi;
mille lacciuoli in ogni parte tesi;

ne' quali il parlar non è affatto disciolto, ma pur vi mancano molte congiunzioni. Ma con maggiore artificio la dissoluzione accresce grandezza in quelli altri:

Fammi sentir di quell'aura gentile
di fuor, sì come dentro ancor si sente;
la qual era possente,
cantando, d'acquetar gli sdegni e l'ire,
di serenar la tempestosa mente,
e sgombrar d'ogni nebbia oscura e vile,
ed alzava il mio stile etc.;

e ne la seguente stanza:

Fa' ch'io riveggia il bel guardo, ch'un sole
fu sopra 'l ghiaccio, ond'io solea gir carco;
fa' ch'io ti trovi al varco,
onde senza tornar passò 'l mio core.
Prendi i dorati strali e prendi l'arco;
e facciamisi udir, sì come sòle,
col suon de le parole,
ne le quali io 'mparai che cosa è amore.
Movi la lingua, ov'erano a tutt'ore
disposti gli ami ov'io fui preso, e l'esca
ch'i' bramo sempre; e i tuoi lacci nascondi
fra i capri crespi e biondi:
che 'l mio voler altrove non s'invesca.
Spargi con le tue man le chiome al vento:
ivi mi lega; e puomi far contento.

Ho detto con maggior artificio, perché, numerando molte cose, è meglio raddoppiar le congiunzioni, come ci ammonisce Demetrio Falereo, perché l'istessa congiunzione replicata dimostra un non so che d'infinito. Ma questa considerazione non ebbe peraventura il Petrarca in que' versi:

Non Tesìn, Po, Varo, Arno, Adige e Tebro,
Eufrate, Tigre, Nilo, ermo, Indo e Gange,
Tana, Istro, Alfeo, Garonna e 'l mar che frange,
Rodano, Ibero, Ren, Sena, Albia, Era, Ebro.

Tutta volta al Petrarca ciò poteva esser lecito per un'altra cagione, perché il numerar senza congiunzione par che dimostri la fatica del numerare, rimovendosi le parole quasi soverchie. Anzi se la congiunzione fa una cosa di molte, come dice Aristotele, rimovendosi quel ch'è uno per sé, parrà uno esser molte cose, e maggiormente apparirà la moltitudine; ed oltre a ciò, il parlar usato in questi versi è di maggior suono e di maggior pienezza. Laonde, benché si debba considerar la ragion di Demetrio, più si dee stimar quella d'Aristotele istesso.

L'antipallage similmente, che si può dire mutazione de' casi, può accrescer la magnificenza del parlare, come in que' versi del Petrarca nel primo Trionfo d'Amore:

Que' duo pien di paura e di sospetto,
l'uno è Dionisio, e l'altro è Alessandro;

ed in que' de la mia tragedia:

De' duo pesci lucenti il petto e 'l tergo,
l'uno al borea inalzarsi, e l'altro scendere:

perché, secondo la diritta forma del parlar, si dovrebbe dire: De' duo pesci lucenti l'uno al borea inalzarsi. E questa medesima figura o simile è forse in quegli altri del Petrarca:

Due rose fresche e colte in paradiso,
. . . . . . . . . .
bel dono, e d'un amante antiquo e saggio,
tra duo minori egualmente diviso;
. . . . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . . . .
di sfavillante ed amoroso raggio
a l'uno e l'altro fe' cangiare il viso:

perché il dritto uso del parlare ricercherebbe che si dicesse: Un bel dono di due rose fresche, tra duo minori egualmente diviso, fece cangiare il viso a l'uno ed a l'altro. Ma senza dubbio ne la mutazione de' casi, quanto più ci allontaniamo da l'uso comune, tanto lo stile diviene più nobile e più sublime. Porta ancora grandezza ne le figure il non fermarsi ne' medesimi casi, come in que' versi del Petrarca che si leggono ne' Trionfi:

Con questi duo cercai monti diversi,
andando tutti e tre sempre ad un giogo:
a questi le mie piaghe tutte apersi.
Da costor non mi può tempo, né luogo
divider mai (sì come spero e bramo)
in fin al cener del funereo rogo.
Con costor colsi 'l gloroso ramo,:
onde forsi anzi tempo ornai le tempie
in memoria di quella ch'i' tant'amo.

E 'l cominciar il verso da casi obliqui suole esser cagione del medesimo effetto nel parlare, il quale si può chiamar obliquo o distorto, come in que' versi:

Del cibo onde 'l signor mio sempre abbonda,
lagrime e doglia, il cor lasso nudrisco;

ed in quelli altri:

La sera desear, odiar l'aurora
soglion questi tranquilli e lieti amanti;

ed in quelli altri similmente:

A qualunque animale alberga in terra
se non se alquanti c'hanno in odio il sole
tempo da travagliare è quanto è 'l giorno.

E 'l duplicare le parole ancora è ornamento ch'arricchisce e fa magnifica la poesia; e possono addursi per esempio que' versi:

Veramente siam noi polvere ed ombra;
veramente la voglia è cieca e 'ngorda;
veramente fallace è la speranza.

Ma in altri modi ancora si posson replicar le parole, cioè non cominciando la replica dal principio, ad imitazione del Petrarca, il qual disse:

Nestor, che tanto seppe e tanto visse.

E si possono replicare in due versi seguenti, come io replicai in un mio sonetto al signor P. Antonio Caracciolo:

Ma che? la mia Fortuna è la mia Parca;
perché Febo m'è scarso, e secco il fonte
io ritrovo in Parnaso, e secco il lauro.

Ma particolarmente gonfia il parlare la voce raddoppiata, s'ella sarà grande per significazione o per suono, come quella:

Di qua da lui chi fece la grand'arca;
e quel che cominciò poi la gran torre.

Ha del grande ancora l'allegoria: però fra tutte le canzoni del Petrarca si può dare il principato a quella:

Nel dolce tempo della prima etade;

ma da una stanza sola si posson conoscere l'altre:

Ella parlava sì turbata in vista
che tremar mi fea dentro quella petra
udendo: I' non son forse chi tu credi.
E dicea meco: Se costei mi spetra,
nulla Vita mi fia noiosa o trista;
a farmi lagrimar, signor mio, riedi,

e quel che segue. E la medesima grandezza si può conoscere ne l'allegoria di quell'altra canzone:

D'un bel diamante quadro e mai non scemo
vi si vedea nel mezzo un seggio altero,
ove sola sedea la bella donna,
dinanzi una colonna
cristallina, ed iv'entro ogni pensero
scritto; e fuor tralucea sì chiaramente
che me fea lieto e sospirar sovente.

Ma altissima, oltre tutte l'altre di questa o d'ogn'altra lingua, è quella allegoria de la statua ch'avea la testa d'oro e il petto d'argento e l'altre parti di ferro e rame e 'l piè di terra cotta: quantunque Dante la prendesse da la Sacra Scrittura. Simile a questa è l'altra nel Purgatorio, dopo l'invocazione :

Or convien che Elicona per me versi,
et Urania m'aiuti co 'l suo coro
forti cose a pensar, mettere in versi.
Poco più oltre sette alberi d'oro ecc.,

anzi tanto maggiore, quanto la dignità de la Chiesa è maggior di quella de l'Imperio. E ragionevolmente fu detto che l'allegoria fosse simile a la notte ed a ale tenebre: laonde ella dee esser usata ne' misteri; e per conseguente ne' misteriosi poemi, com'è il poema eroico. Però molte cose sono scritte de l'allegoria d'Omero; e particolarmente Porfirio compose un picciol libretto de l'Antro d'Omero. Aristotele non fa menzione de l'allegoria, non perch'egli non la conoscesse, ma perché questo nome allora non era in uso. La conobbe Platone similmente, ma non la chiamò con questo nome quando egli scrisse nel Fedro, ragionando in persona di lui e di Socrate:

Fedro - «O Socrate, pensi che questa favola sia vera?

Socrate

Già s'io non pensassi come pensano i savi, non sarebbe però sconvenevole la mia opinione; da poi, interpretando le cose, direi che 'l vento di Borea gittò da le vicine pietre Oritia mentre scherzava con Farmacia; e però, essendo morta in tal guisa, si finge che da Borea fosse rapita. V'è un'altra fama, che non da questo luogo, ma da un altro fosse rapita; ma io, o Fedro, stimo queste cose assai piacevoli, ma d'uomo troppo curioso ed affannato e non aventuroso; non per altra cagione se non perché gli sarebbe necessario interpretar la forma de' Centauri e de le Chimere; vi concorre ancora una moltitudine di Gorgoni e di Pegasi e d'altre imagini mostruose: onde stalcuno di queste cose porterà altra opinione di quella che si narra, e vorrà ridurre ciascuna d'esse a senso conveniente, fidandosi d'una rustica sapienza, averà bisogno d'ozio soverchio». Ma s'egli chiama rustica sapienza quella di coloro ch'abitano in villa, dove Socrate non volle mai abitare, dice, per mio avviso, il vero senza alcun dubbio, perché l'investigazione di sì fatte cose conviene ad uomo poco occupato: tutta volta Platone, che non volle interpretarle, lasciò a molti altri filosofi la cura, anzi la noia de l'interpretazione non solo di quel suo Glauco maritimo, ma del Tartaro e de' fiumi che passano sotto terra, de' quali abbiamo la dichiarazione in alcuno de' suoi interpreti e nel comento d'Olimpiodoro sovra Aristotele. Da Plotino ancora è dechiarato quel che significhino le Parche e 'l fuso fatale e 'l simolacro d'Ercole: anzi non è favola de le sue (che sono molte) che da vari filosofi non sia ampiamente illustrata. Possiamo adunque affermare ch'egli non biasimasse l'allegoria, ma non la nominasse, né si degnasse d'esser l'interprete. Fra i primi che la nominarono fu Demetrio Falereo. Plutarco, dopo lui, nel libro De l'udire i poeti, lasciò scritte queste o somiglianti parole: «Appresso Omero tacitamente è ascosa una sorte di dottrina di non inutile contemplazione, massimamente ne le favole interposte fra le narrazioni, le quali, con l'annotazioni de gli antichi, e come ora dicono con l'allegorie, alcuni vanno torcendo e volgendo in altro sentimento, e dicono che l'adolterio di Marte e di Venere significa che, nel congiungimento del Sole con la stella di Venere, Marte sia causa de l'adultera generazione, la qual, per la presenza del Sole e per la vicinanza, non può essere occulta». Dichiara appresso la favola del cesto di Venere, ed alcune altre similmente; e non è ricusata questa difesa de' poeti che, fra l'altre sue, o fu ricusata da Aristotele o, com'io stimo, non considerata; direi non conosciuta, ma dubito alcuna volta che l'enigma e l'allegoria non siano cose diverse: laonde s'Aristotele parlò de l'enigma, parlò de l'allegoria, ma con altro nome. Nondimeno se l'enigma è una questione da scherzo e giocosa, come si legge appresso Ateneo, non pare che sia una cosa medesima. Ma se gli enigmi o simboli di Pitagora non sono proposti per giuoco, ma per ammaestramento de la vita, potrebbe facilmente l'enigma e l'allegoria essere l'istesso di spezie, o di genere almeno. De l'una e de l'altro si vagliono i poeti. Con l'allegoria è difeso, anzi è lodato Omero non solamente da' già detti scrittori, ma da molti altri, come si legge in Ateneo fra' Greci, e fra' Latini in Macrobio nel Sogno di Scipione, ove dechiara che significhi che Giove e gli altri iddii vadano al convito de l'Oceano. Ma infinite sono l'interpretazioni date a' sensi misteriosi da gli autori de le due lingue più famose. Ne la nostra toscana favella Dante, oltre tutti gli altri, accrebbe riputazione a l'allegorie: perché nel suo maggior poema non è parte che non sia allegorica; ma egli non dichiara se stesso, benché accenni alcuna volta che 'l velo sia molto sottile. Ne le canzoni egli medesimo manifesta la sua intenzione; e nel comento c'insegna che quattro sono i sensi: il literale, il morale, l'allegorico e l'anagogico: de' quali il primo è assai semplice ed inteso senza difficultà; il secondo è per ammaestramento de' costumi; gli altri due servono più a la parte intellettiva: ma 'l terzo conduce a la speculazione de le cose inferiori; il quarto a quella de le superiori; e con l'uno e con l'altro si possono scusare gli errori che sono fatti dal poeta ne l'imitazione; ma se la difesa è con qualche difetto del primo senso, e congiunta con difetto nel decoro, e con qualche bruttezza o sconvenevolezza ne le cose imitate, non è buona né lodevole difesa. Però Aristotele non la numerò fra l'altre; e se l'allegoria fosse perfezione accidentale nel poema, non sarebbe ragionevole che potesse scusare i vizi de l'arte, che sono vizi per sé. L'enigma ancora non fu rifiutato da' poeti, come si legge in Sofocle di quello che la Sfinge propose ad Edippo; e Teodette ne la medesima tragedia, per relazione d'Ateneo, ci descrive la notte e la giornata con questo enigma:

Germanae geminae, gignit quarum altera semper
alteram, et inde parens fit filia nata vicissim.

Ma non era questo luogo di trattar de l'enigma o de l'allegoria, se non considerandoli come figure di parlare; però soverchiamente e quasi a caso n'ho sì lungamente discorso, dovendo ciò fare in altro luogo più opportuno: seguirò dunque il primo proponimento.

Magnifica similmente è quella figura che da' Latini è detta reticenza, perch'ella suol lasciar sospizioni di cose maggiori di quelle che son dette, bench'alcuna volta non apporti tanta magnificenza, come è quella ne l'Inferno quando scende l'Angelo per aprir le porte, e Virgilio aspetta il suo venire:

Attento si fermò com'uom ch'ascolta,
ché l'occhio no 'l potea menare a lunga
per l'aer nero e per la nebbia folta.
Pure a noi converrà vincer la punga,
cominciò ei; se non . . . tal ne s'offerse.
Oh quanto tarda a me ch'altri qui giunga!
I' vidi ben sì com'ei ricoperse
lo cominciar con l'altro che poi venne,
ché fur parole a le prime diverse.
Ma nondimen paura il suo dir dienne;
perch'io traeva la parola tronca
forse a peggior sentenzia ch'e' non tenne.

L'esempio ancora di questa figura è ne' Trionfi del Petrarca in quel luogo:

Ma non si ruppe almeno ogni vel, quando
sola i tuoi detti, te presente, accolsi
«Dir più non osa il nostro amor» cantando?

Ma gravissima oltre tutte l'altre è quella di Virgilio ne l'Eneide, ne la quale Nettuno irato ritiene la collera e le parole insieme:

Quos ego . . . Sed motos praestat componere fluctus.

Ma in somma l'epifonema (così la chiamano i Greci) par che avanzi tutte l'altre, e somiglia le pompe de' ricchi, ne le quali è sempre qualche cosa la quale è soverchia. Laonde questa figura si può divider in due parti: L'una de le quali serva a l'intelligenza, l'altra a l'ornamento. Serve a l'intelligenza quel verso e 'l mezzo che segue:

di sé, nascendo, a Roma non fe' grazia,
a Giudea sì;

e sono gli altri per ornamento:

. . . . . . . tanto sovra ogni stato
umiltate esaltar sempre gli piacque.

De la medesima figura la prima parte è in que' versi:

Le stelle e 'l cielo e gli elementi a prova
tutte lor arti ed ogni estrema cura
poser nel vivo lume, in cui natura
si specchia, e 'l sol, ch'altrove par non trova.

Ma con grandissimo ornamento seguita poi l'altra:

L'opra è sì altera, sì leggiadra e nova,
che mortal guardo in lei non s'assecura;
tanta ne gli occhi bei for di misura
par ch'amore e dolcezza e grazia piova.

Ed in quegli altri, se non bastano a la dichiarazione i primi:

poco vedete e parvi veder molto;
che 'n cor venale amor cercate o fede.
Qual più gente possede,
colui è più da' suoi nemici avvolto.

Gli altri abbondano ne la ricchezza de lo stile:

O diluvio raccolto
di che deserti strani
per inondar i nostri dolci campi!

Può parer questa figura simile a l'entimema, cioè a lo sillogismo imperfetto; ma sono differenti: perché l'entimema s'usa per provare; e questo per adornare. Laonde più tosto si pone in suo luogo la sentenza, la qual sia con l'esclamazione; e benché non sia questa figura, nondimeno occupa la sua sede, come quella:

O nostra Vita, ch'è sì bella in vista,
com' perde agevolmente in un mattino
quel che 'n molt'anni a gran pena s'acquista!

Anzi, se crediamo a Teone sofista, la sentenza che dopo la narrazione d'alcuna cosa insegni ed adorni, parimente e sentenza ed insieme epifonema.

Ma non è minor cagione di grandezza e di ornamento, a mio giudizio, la prosopopea, ne la quale si danno persona e voce e parole a le cose inanimate, come il Petrarca in que' versi a Fiorenza:

L'aspetto sacro de la terra vostra
mi fa del mal passato tragger guai,
gridando: Sta su, misero; che fai?
E la via di salir al ciel mi mostra.

E l'usar la definizione in vece del nome, come fece il Petrarca che, parlando del lauro, disse:

de l'arbor, che né sol cura, né gielo.

E 'l salir quasi per gradi, figura che da' Latini e detta gradatio, e da' Greci klimax, non si convien meno al magnifico ch'al grave dicitore. L'esempio l'abbiamo in Dante:

onde la vison crescer conviene,
crescer l'ardor che di quella s'accende,
crescer lo raggio che da esso viene.

Ma questa è peraventura mescolata con la repetizione, o con la replica che vogliamo dirla. Semplice e quell'altra:

. . . . . Noi semo usciti fuore
del maggior corpo al ciel ch'è pura luce;
luce intellettpal piena d'amore;
amor di vero ben pien di letizia;
letizia; che trascende ogni dolzore.

Dice de la metafora similmente molte cose Demetrio Falereo; e, seguendo il giudizio d'Aristotele, loda più quella che pone le cose in atto, com'abbiamo già conchiuso; e questa, al mio giudizio, particolarmente conviene al poeta, perciò ch'egli e imitatore; e gli convengono ancora le similitudini e le comparazioni assai più ch'a l'oratore, il quale schiva le troppo lunghe, come son quelle di Dante:

un fracasso d'un suon pien di spavento
. . . . . . . . . . . .
non altrimenti fatto che d'un vento
impetoso per gli avversi ardori,
che feer' la selva, e senza alcun rattento
li rami schianta, abbatte e porta fuori:
dinanzi polveroso va superbo,
e fa fuggir le fere e li pastori.

E quelle del Petrarca ne la battaglia tra madonna Laura e Amore:

Non fan sì grande e sì terribil suono
Etna, qualor da Encelado è più scossa,
Scilla e Cariddi quand'irate sono.

Il Boccaccio vide quel ch'era conveniente, come in quella de la Teseide:

Né saria stato, se giunto vi fosse
quel che Lipari fece, o Mongibello,
o Strongile, o Vulcan, quand'e' più scosse;
né quando Giove più crucciato e fello
Tifo di spavento più percosse,
tonando forte: omai chente fu quello,
pensil ciascun di voi etc.

E molte altre somiglianti se ne leggono in questi tre poeti toscani. Ma quelle più de l'altre si convengono al magnifico dicitore, ne le quali non si ritrova solamente similitudine, ma l'ornamento e l'accrescimento. Oltre le forme assegnate dal Falereo a questa forma magnifica del dire, ve ne sono peraventura alcune altre egualmente da lei ricercate, fra le quali e la prima la conversione, come quella:

Rettor del ciel, io chieggio
che la pietà che ti condusse in terra,
ti volga al tuo diletto almo paese.
Vedi, Signor cortese,
di che lievi cagion che crudel guerra.

poi l'esclamazione:

O mondo, o pensier vani,
o mia forte ventura, a che m'adduci!

massimamente stella è fatta con qualche sdegno, come in que' versi:

Ahi nova gente, oltra misura altera,
irreverente a tanta ed a tal madre!

Si può annoverar con queste il pervertimento de l'ordine, quando si dice innanzi quel che devrebbe esser detto dopo, perché al magnifico dicitore non si conviene una esquisita diligenza. Questa usò il Petrarca in que' versi:

talor, ov'Amor l'arco tira ed empie;

ed in quell'altro:

Amor con tal dolcezza m'unge e punge.

E quando si pone per lo tutto la parte, figura che da' Greci e da' Latini fu detta sinedoche, come quella:

umida gli occhi e l'una e l'altra gota,

benché alcuni vogliano che sia più tosto greca costruzione.

E la parentesi, o interposizione che vogliamo chiamarla, come quella:

A qualunque animale alberga in terra,
se non se alquanti c'hanno in odio il sole,
tempo da travagliare è quanto è 'l giorno.

E quella ch'è da' grammatici detta endiadys in que' versi:

onde vanno a gran rischio uomini ed arme.

E la figura detta zeugma, la qual si fa quando il verbo o 'l nome discorda ne la voce da quello a cui si rende, ma concorda nel significato: di cui si ritrovano alcuni esempi in Virgilio:

pars in frusta secant;

e l'altro:

Hic manus ob patriam pugnando vulnera passi.

E 'l Boccaccio ne la Teseide fece questa figura nel numero, ad imitazione del primo luogo:

E 'n guisa tal la turba sì piangente
co' fuochi i corti morti consumaro.

E Dante ne l'Inferno fece l'altra nel genere solo:

Supin giaceva in terra alcuna gente.

E la trasportazione de le parole, perch'ella s'allontana da l'uso commune, come quella:

ch'e belli, onde mi strugge, occhi mi cela.

E 'l perturbar l'ordine naturale, posponendo quelle che doveriano esser anteposte; come:

per la nebbia entro de' suoi dolci sdegni.

E l'hyperbaton, che si può dir distrazione o interponimento, di cui si ha l'esempio:

Quel che d'odore e di color vincea
l'odorifero e lucido orente,
frutti, fiori, erbe e frondi; onde 'l ponente
d 'ogni rara eccellenzia il pregio avea,
dolce mio lauro etc.

E l'abbondanza, che pleonasmo fu chiamata ne l'altre lingue, a me par che mostri molta magnificenza ne' molti aggiunti, come in quelli:

santa; saggia, leggiadra, onesta e bella;

e in quelli altri:

A le pungenti, ardenti e lucid'arme.

Ed alcuna particella soverchia suol far quasi il medesimo effetto; e n'abbiamo l'esempio in quel verso:

Orso, e' non furon mai fiumi né stagni;

ed in quello:

tal che mi fece or quand'egli arde il cielo,

benché questa possa parere uso leggiadro più tosto.

E quella ne la qual il verbo s'accorda co 'l nome più vicino, e ne gli altri bisogna supplire, come:

Ivi era il curoso Dicearco,
ed in suoi magisteri assai dispari
Quintil ano e Seneca e Plutarco;
cioè: ivi erano ecc.

E commune ancora a questa figura, ne la quale il numero singolare concepisce il plurale, è quella figura la quale attribuisce a duo quello ch'è proprio d'uno; ed ha similmente del magnifico, perciò chc dimostra un certo disprezzo de la soverchia diligenza; e questa fu usata da Omero quando egli disse ne l'Iliade:

. . . . anemoi duo ponton orineton ikhthuoenta,
Borees kai Zephuros, to te Threkethen aeton;

cioè: due venti perturbano il mare piscoso, Zefiro e Borea, i quali spirano da Tracia: essendo proprio di Borea solamente lo spirar da Tracia, perché Zefiro soffia da l'occaso, come vogliono i gramatici, quantunque Strabone difenda questo luogo altrimenti nel primo de la Geografia, mostrando che Zefiro ancora spira da la Tracia a coloro che sono ne l'isola di Lenno e ne la Samotracia. Tuttavolta di questa sorte di silepsi abbiamo altri esempi; ed in questa guisa parlò figuratamente il Petrarca dicendo:

. . . . . . . . e 'n quali spine
colse le rose e 'n qual piaggia le brine etc.:

perché l'esser colte si conviene a le rose, ma non a le brine.

E l'apposizione, ne la quale si congiungono due nomi sostantivi, come quella:

Arbor vittorosa tr'onfale,
onor d'imperadori e di poeti;

e quell'altra:

rotte l'arme d'Amor, arco e saette.

Oltre le quali se ne potrebbono peraventura ritrovar alcune altre conosciute da' retori o da' gramatici; ma bastano quelle de le quali sin ora abbiamo ragionato, in questa forma di parlare sublime e magnifica, ne la quale non abbiamo stimate le più minute divisioni e compartimenti. E perché la forma sublime e magnifica è propria de l'eroico, e quantunque possa mescolarsi con l'altre, nondimeno il poeta eroico è detto magnifico e sublime dicitore, non sarà necessario trattar de l'altre forme così lungamente; ma non tralasceremo in tutto alcune figure che possono essere usate nel poema eroico, ne gli altri ammaestramenti i quali deono esser da lui considerati. Nel parlar ornato e grazioso (ch'in questo modo voglio chiamar quello che da' Latini è chiamato venusto, e da' Greci glaphuros) sono alcune piacevolezze ed alcuni scherzi e giuochi, per così dire, maggiori e più nobili, che sono propri de' poeti lirici; altri più umili, che si convengono a la comedia. Scherzi convenienti a' poeti lirici son quelli meravigliosi:

qual fior cadea sul lembo,
qual su le trecce bionde,
ch'oro forbito e perle
eran quel dì a vederle:
qual si posava in terra, e qual su l'onde:
qual con un vago errore
girando parea dir: Qui regna Amore.

A' comici sono convenienti quelli che mordono, ed a gli scrittori de la satira parimente: e quegli ancora che non son molto lontani de la buffoneria. Ma Omero usò gli scherzi per acerbità; e scherzando parve terribile ne' suoi motti, come in quel del Ciclope: Outin ego pumaton edomai. E parte di questa acerbità ritenne l'Ariosto nel suo poema, come ne la spelunca dove Orlando trova Isabella; sopraggiungendo i malandrini, dice un di loro:

. . . . . . . . Ecco quel nuovo
a cui non tesi, e ne la rete il trovo.

E la risposta d'Orlando muove riso con sdegno:

Sorrise amaramente in piè salito
Orlando, e fe' risposta al mascalzone:
Io ti venderò l'arme ad un partito
che non ha mercatante in sua ragione.

Ma le grazie particolarmente convengono a la poesia lirica, ed a l'eroica quasi prestate da lei: e gl'imenei, e gli amori, e le liete selve, e i giardini, e l'altre cose somiglianti, de le quali è piena la poesia del Petrarca, e particolarmente quelle due canzoni:

Se 'l pensier che mi strugge etc.
iare, fresche, e dolci acque etc.

e quella ancora:

In quella parte dove Amor mi sprona,

la quale è piena di vaghissime similitudini; ma quella è meravigliosa oltre tutte l'altre:

Non vidi mai dopo notturna pioggia
gir per l'aere sereno stelle erranti
e fiammeggiar fra la rugiuda e 'l gielo,
ch'i' non avesse i begli occhi davanti,
ove la stanca mia Vita s'appoggia,
qual io li vidi a l'ombra d'un bel velo;
e sì come di lor bellezze il cielo
splendea quel dì, così bagnati ancora
li veggio sfavillar; ond'io sempre ardo.
Se 'l sol levarsi sguardo,
sento 'l lume apparir che m'innamora;
se tramontarsi al tardo,
parmel veder, quando si volge altrove,
lassando tenebroso onde si move.

Ne' Trionfi ancora la casa d'Amore è descritta con la medesima vaghezza e con la medesima felicità, come si può conoscer in que' versi:

E rimbombava tutta quella valle
d'acque e d'augelli, ed eran le sue rive
bianche, verdi, vermiglie, perse e gialle:
rivi correnti di fontane vive;
e 'l caldo tempo su per l'erba fresca;
e l'ombra folta, e l'aure dolci estive etc.;

e in molti altri del medesimo Trionfo. Né si dipartì da questa imitazione il Poliziano, il quale ne la descrizione de la casa d'Amore versò quasi tutti i fiori e tutte le grazie de la poesia. Grandissima lode ancora meritò in questa maniera di poetare il signor Bernardo Tasso mio padre ne le canzoni, ne le sestine, ne le ode, ne gli inni, e ne l'epitalamio fatto ne le nozze del duca Federico (il quale fu peraventura il primo che si leggesse in questa lingua), e nel suo maggior poema, ed in tutte l'altre sue poesie; ma si posson legger con meraviglia la canzone de la Notte, e quella ne la quale loda il giorno in cui nacque Antiniana, e l'inno a Pane, ed alcun'altre ch'io tralascio per brevità.

Ma in questa forma di poetare al lirico ed a l'eroico non dee peraventura esser conceduta la medesima licenza, perciò che in ciascuna forma, oltre il numero, sono considerate l'elocuzioni e i concetti; e non è dubbio che maggior non sia la virtù de' concetti de la bellezza de le parole; ma quando uno discordasse da gli altri, si conoscerebbe in loro quella disconvenevolezza la qual si vedrebbe in uom di contado vestito di robba. Per ischivarla adunque, è convenevole di vestire i concetti grandi con elocuzione magnifica, siccome fece il Petrarca; ma Dante ne' sonetti e ne le canzoni non ebbe sempre la medesima avvertenza. Ma potrebbe forse alcuno dubitare di quel che s'e detto, perché se ciò fosse vero, usando il lirico i medesimi concetti ch'usa l'eroico, lo stile dovrebbe esser l'istesso. A questo io rispondo che 'l lirico e l'eroico alcuna volta trattano peraventura de le medesime cose, cioè de gli dii e de gli eroi e de le vittorie, ma non usano sempre i medesimi concetti. Laonde da la varietà de' concetti nasce in loro la diversità de lo stile più che da quella de le cose, quantunque questa ancora non sia picciola cagione di tal diversità: perciò che la materia del poeta lirico non è determinata, quantunque Orazio ne la Poetica gli assegnasse qualche soggetto; ma si spazia per tutte le cose e per tutte le materie proposte, come l'oratore; e benché alcuna volta mostri timore di cantar le cose grandi, come dimostrò Orazio, tuttavolta il suo proprio soggetto sono le lodi de gl'iddii e de gli eroi, e quelle di Bacco particolarmente: però la poesia ditirambica fu nobilissima parte di questa poesia che melica è detta da Marco Tullio; comunque sia, usa alcuni concetti suoi propri, che non sono così convenienti al tragico e a l'epico. Non direi dunque che la poesia lirica prendesse la forma da la dolcezza, dal numero e da la sceltezza de le parole, e da la pittura de' traslati, e da gli altri colori, e da gli altri lumi de l'elocuzione, come alcuno ha giudicato; ma più tosto da la piacevolezza, da la grazia e da la beltà de' concetti, da' quali trapassa alcuna volta ne l'elocuzione un non so che di lascivo e di ridente.

Ma consideriamo come il lirico e l'eroico poeta ne le medesime cose usino diversi concetti. Ci dimostra Virgilio la bellezza d'una donna ne la persona di Didone:

regina ad templum forma pulcherrima Dido
incessit, magna iuvenum stipante caterva.
Qualis in Eurotae ripis aut per iuga Cynthi etc..

Semplicissimo concetto è quello: «forma pulcherrima Dido»; hanno alquanto di maggior ornamento gli altri, ma non tanto che siano soverchi. Ma se questa medesima bellezza dovesse descrivere il Petrarca, non si contenterebbe di questa gravità di concetti; ma direbbe che la terra si gloria d'esser tocca da' suoi piedi; che l'erbe e i fiori desiderano d'esser calcate da lei e che hanno riposti i suoi vestigi; che 'l cielo, percosso da' suoi dolci rai, s'infiamma d'onestà e che si rallegra d'esser fatto sereno da sì begli occhi; che 'l sole si specchia nel suo volto, non trovando altrove paragone; ed inviterebbe Amore che si fermasse a contemplar la sua gloria. Ma paragoniamo altri luoghi de l'uno e de l'altro, acciò che questa verità si conosca di leggieri. Descrivendo Virgilio l'abito di Venere cacciatrice, disse:

. . . dederatque comam diffundere ventis;

ma il Petrarca v'aggiunge:

Erano i capei d'oro a l'aura sparsi
che 'n mille dolci nodi gli avvolgea;

e l'uno e l'altro conobbe il convenevole ne la sua poesia, perché Virgilio superò tutti i poeti eroici di gravità, il Petrarca tutti gli antichi lirici di vaghezza; e niuno più se gli avvicinò del Tasso. Si loda ne l'eroico quello:

ambrosiaeque comae divinum vertice adorem spiravere;

ma forse soverchie sariano state quell'altre vaghezze:

E tutto il ciel, cantando il suo bel nome,
sparser di rose i pargoletti Amori.

Descrive Virgilio l'innamorata Didone, che sempre avea fisso il pensiero ne l'imaginato Enea, e dice:

. . . Illum absens absentem auditque videtque.

Intorno a l'istessa materia trova concetti meno acuti e men gravi, ma più vaghi, il Petrarca:

I' l'ho più volte (or chi fia che mel creda?)
ne l'acqua chiara e sopra l'erba verde
veduta viva, e nel troncon d'un faggio;
e 'n bianca nabe sì fatta che Leda
avrìa ben detto che sua figlia perde;
come stella che 'l Sol copre col raggio;

e di simili concetti ne l'istessa materia è quasi piena tutta quella canzone. Or consideriamo come Virgilio descriva il pianto di Didone:

Sic effata, sinum lacrimis implevit obortis:

bastava tanto per una vedova. Molto maggior ornamento ne' concetti e ne le parole cerca nel duodecimo, ponendoci innanzi gli occhi il pianto di Lavinia:

Accepit vocem lacrimis Lavinia matris,
flagrantes perfusa genas; cui plurimus ignem
subiecit rubor, et calefacta per ora cucurrit,
indum sanguineo veluti violaverit ostro
si quis ebur, aut mixta rubent ubi lilia multa
alba rosa; tales virgo dabat ore colores.

Fioriti son questi e quasi convenevoli al lirico; ma più meravigliosi sono quelli altri, né si converrebbono a poeta che non fosse innamorato:

Amor, senno, valor, pietate e doglia
facean piangendo un più dolce concento
d'ogn'altro che nel mondo udir si soglia;
ed era 'l cielo a l'armonia sì 'ntento
che non si vedea in ramo mover foglia:
tanta dolcezza avea pien l'aere e 'l vento.

Semplicissimi concetti son quelli di Virgilio nel descrivere l'aurora:

humentemque Aurora polo dimoverat umbram.
Oceanum interea surgens Aurora reliquit.

Con più ornamento fu descritto il nascer de l'aurora dal Petrarca:

Il cantar novo e 'l pianger de gli augelli
in su 'l dì fanno risentir le valli,
e 'l mormorar de' liquidi cristalli
giù per lucidi freschi rivi e snelli.

Nel paragone dunque de l'eccellentissimo epico e de l'eccellentissimo lirico chiaramente si manifesta che la diversità de lo stile nasce da la diversità de' concetti. Laonde, quando Virgilio vuol descriver le cose con grandissimo ornamento, non è agguagliato da lirico alcuno, come appare più manifestamente ne la descrizione de la medesima notte:

Nox erat, et placidum carpebat fessa soporem
corpora per terras, silvaeque et saeva quierant
aequora, quum medio volvuntur sidera lapsu,
quum tacet omnis ager, pecudes pictaeque volucres,
quaeque lacus late liquidos, quaeque aspera dumis
rura tenent, somno positae sub nocte silenti
lenibant curas, et corda oblita laborum.

Più brevemente la descrisse il Petrarca; nondimeno usò alcuni de gl'istessi concetti in que' versi:

Ora che 'l ciel e la terra e 'l vento tace,
e le fere e gli augelli il sonno affrena,
notte 'l carro stellato in giro mena,
e nel suo letto il mar senz'onda giace.

E quinci si può raccogliere che se l'epico e 'l lirico trattasse le medesime cose co' medesimi concetti, adoprerebbe per poco il medesimo stile. Possiamo dunque concludere che le parole seguono i concetti, e 'l verso parimente. Ma di questa materia tratteremo nel fine del libro che segue, più lungamente.




LIBRO SESTO


Il trattar de le forme in tutti modi, illustrissimo signore, apporta seco grande oscurità e gran malagevolezza: perciò che s'altri considera le forme separate, ch'idee sono state dette da' filosofi, può di leggieri esser persuaso ch'elle o non siano o nulla giovino a' nostri umani arteficii ed a l'operazioni de' mortali; e, se non persuaso, almeno da la contraria ragione e costretto di lasciar così alta contemplazione; ma, contemplando le forme ne la materia, trova ancora grandissima difficultà, perciò che la materia è cagione d'incertitudine e d'oscurità: laonde a le tenebre ed a gli abissi da gli antichi filosofi fu assomigliata; ma separandole con l'imaginazione, divien quasi bugiardo e, se pur non dice menzogna, non contempla a fine d'alcun bene. Ne le parole similmente molti dubbi apporta la contemplazione de le forme, e 'l conoscerle e 'l distinguerle è così malagevole che niuna più difficile impresa si prepone a l'eloquente. Tutta volta è quasi necessario, perché la natura, o l'arte sua imitatrice, ha segnate le cose tutte de' propri caratteri, o de le proprie note che vogliam dirle, de le quali altre sono maggiori, altre minori. Talché di acutissimo intelletto fa mestiere in discerner le più minute; e noi l'abbiam tralasciate, o come fatica poco utile, o come troppo noiosa. Ma de le maggiori abbiamo discorso ne' precedenti e ne tratteremo ne' seguenti; e quantunque il contemplar l'idea del bene fosse studio più conveniente a questa età ed a questa fortuna, ed io potessi farlo con maggior grazia di V. S. illustrissima, nondimeno credo che non le debba esser grave di legger quel che ragionevolmente si può conchiudere de l'idea del bello, ne la quale la poesia è più intenta che in tutte l'altre. Laonde alcuni hanno creduto che questa sola fosse il segno e quasi la meta di tutti i poeti, fra' quali è il Fracastoro; ma, considerando le sue proprietà, questo inganno di leggieri ci sarà manifesto.

Molti hanno creduto che 'l diletto che nasce da le cose piene di grazia e 'l riso sia l'istesso; però in tutte hanno cercato di moverlo, e tutte le scritture hanno pieno di questo loro artificio: le novelle, le lettere, l'orazioni, le satire e gli altri capitoli burleschi, le comedie e 'l poema eroico ancora hanno voluto quasi sparger di questo sale, e per poco la tragedia medesima, la qual volentieri riceve le grazie, ma e nemica del riso, come dice Demetrio Falereo. E de l'istessa natura è, per mio avviso, il poema eroico, il quale mosse peraventura un riso terribile co 'l Ciclope; ma ne l'istesso modo poteva moverlo la tragedia d'Euripide chiamata co 'l suo nome, se pur è tragedia, e non satira come alcuni hanno creduto; ma essendo poema tragico, è de' meno perfetti, perché ne' perfettissimi il riso non avrebbe peraventura alcun luogo, come non l'ha nel poema eroico, se non in quel modo che s'è detto, pieno di acerbità e di spavento e lontano da la disonestà: anzi questo non è propriamente riso, perché il riso nasce da le cose brutte, senza dolore. Le parole dunque che mettono innanzi a gli occhi la bruttezza possono muover a riso: le quali, essendo quasi imagini de le cose brutte, sono brutte parole. Ma le belle parole sono cagione di quel grazioso diletto ch'al poeta eroico ed al lirico oltre tutti gli altri è conveniente; e conviene ancora a la tragedia, ma non tanto. Da cagioni opposte dunque nascono il riso e 'l grazioso: cioè l'uno da le belle, e l'altro da le brutte; e sono differenti, come Tersite ed Amore. Ma l'uno e l'altro nondimeno nasce con la meraviglia, perch'ella suole accompagnare l'une e l'altre. Laonde ci maravigliamo de' nani e de le brutte vecchie c'hanno volto di bertuccia, come avea Gabrina; e ci maravigliamo ancora de la bellezza giovenile: però Laura ancora fu chiamata mostro dal suo gentil poeta:

o de le donne altero e raro mostro.

Ma benché la meraviglia nasca da l'una e da l'altra poesia, cioè da quella ch'imita le cose brutte e da quella che rassomiglia le belle, nondimeno non è così propria de l'una come de l'altra: perché tosto suol mancare la meraviglia de le cose brutte, le quali con la novità perdono ancora l'estimazione; ma la meraviglia de le cose belle è più durevole e di maggiore estima. E bellissimo oltre tutti gli altri poemi è l'eroico: laonde questo diletto è suo proprio. Ed ancora il poema eroico e magnificentissimo; e per questa altra ragione ancora gli si conviene. Né per altro, s'io dritto estimo, l'opere di altissima e di regale magnificenza furono chiamate miracoli del mondo. E quantunque io non biasimi il Pontano, il qual volle che l'officio di ciascuno poeta fosse muover meraviglia, nondimeno a tutti gli altri stimo assai meno convenirsi ch'al poeta eroico; e se di questo solo avesse inteso il Fracastoro, non avrebbe peraventura errato soverchiamente, assignandogli per fine l'idea del bello. Ma se molte sono l'idee, e quelle de la magnificenza e de la gravità sono differenti da quella de la bellezza, a molte idee rivolge gli occhi il poeta eroico, ed in questa non meno che ne l'altre; e già s'è detto che le parole belle e le vaghe e le graziose sono appropriatissime a questa forma, de le quali il Petrarca e 'l Tasso e gli altri composero le loro composizioni, intessendo gli amori e i lusignuoli e i gigli e i ligustri e le rose ne la meravigliosa testura de le rime toscane: perché in niuno altro si leggono questi nomi o gli altri sì fatti così spesso. Ma i concetti e le cose ancora deono essere convenienti, perché 'l poeta indarno proverebbe con la forza de le parole far ch'una Furia infernale rassomigliasse una Venere; ma dee quasi dipingere co 'l suo stile la sua donna ora in forma di ninfa, or d'altra diva «che del più chiaro fondo di Sorga esca», o far verdeggiare il lauro e 'l ginebro, e descriverci e quasi ponere innanzi gli occhi le selve, i colli vestiti d'alberi, e le campagne e i prati ornati di fiori, e i fonti, e i fiumi

ch'avean pesci d'argento, arene d'oro;

e le carole de le ninfe, in guisa che noi veggiamo come

su le minute arene e 'n su le sponde
danzava Dori, ed Aretusa a paro
sovra i delfini, di vermiglie rose
coronati;

e l'altre cose che seguono o che precedono. In due modi adunque il grazioso è differente dal ridicolo: ne la materia e ne l'elocuzione. La materia che muove riso è quella ch'abbiamo quasi dimostrata; ed oltre a ciò le favole, come quelle d'Esopo, e l'altre note ne le satire, e le imagini, come quella del tedesco dimostrata da Cicerone. Ma de le cose che paion graziose, abbiam già detto a bastanza.

De l'elocuzione possiamo anco ragionare. Il parlare è spesse volte grazioso per la brevità; ma dilatandosi perde la grazia: e di ciò abbiamo uno esempio lodatissimo appresso Senofonte, oltre molti altri che si potrebbon raccogliere dal medesimo autore e da gli altri. L'esempio è quel del fiume Telesboa addotto dal Falereo, ad imitazione del quale io dissi parlando del Metauro:

O del grande Appennino
figlio picciolo sì, ma gloroso:

là dove s'lo avessi spiegato questo concetto con più giro di parole, di leggieri avrebbe perduta ogni grazia. Assai graziosi sogliono esser per la medesima cagione i piccioli poemi, e ne' piccioli poemi i piccioli versi, come quelli di Guido Cavalcanti:

Perch'io no' spero di tornar giamai,
ballatetta, in Toscana,
va' tu leggiera e piana
dritto a la donna mia,
che per sua cortesia
ti farà molto onore.

Ma le figure de la forma graziosa possono più agevolmente esser ricevute dal poema eroico e mescolate con quelle de la magnificenza e con l'altre. Una fra l'altre è la repetizione, o la replica che vogliam dirla, la quale, come che sia attissima ad irritar gli animi, può esser nondimeno usata per acquistar grazia, come in quella canzone del Tasso:

E cantando diceano: Udite, udite
l'aventuroso fato di costei,
mortali fortunati, età beata.

Nasce ancora da la traslazione o da la metafora, la quale s'accomoda ancora in questa forma, come in que' versi del Petrarca:

tu 'l vedi, Amor, che tal arte m'insegni.
Non so s'i' me ne sdegni:
che 'n questa età mi fai divenir ladro
del bel lume leggiadro etc.

e in quelli altri:

una chiusa bellezza è più soave.
Benedetta la chiave che s'avvolse
al cor e sciolse l'alma etc.

E da le parole basse e volgari suol nascere alcuna volta il grazioso, e da' proverbi più che da l'altre, come ne la istessa canzone del Petrarca:

Un'umil donna grama, un dolce amico.
Mal si conosce il fico.

E da la comparazione ancora nasce la grazia, come ne la canzone ch'abbiamo addotta:

e come augello in ramo,
ove men teme, ivi più tosto è colto;
così dal suo bel volto
l'involo or uno ed or un altro sguardo;
e di ciò insieme mi nutrico ed ardo.

E quella è comparazione graziosissima:

che 'l poverel digiuno
vene ad atto talor che 'n miglior stato
avria in altrui biasmato.
Se le man di pietà invidia m'ha chiuse,
fame amorosa, e 'l non poter mi scuse.

E 'l dire alcuna cosa soverchia, quasi per abbondanza, suol esser fatto con leggiadro artificio, o per usanza più tosto, come quello:

tal che mi fece or quand'egli arde il cielo;

e quell'altro:

Se Virgilio ed Omero avessin visto
quel sole, il qual vegg'io con gli occhi miei.

Gli scherzi ancora, che allusiones furono dette da' Latini, convengono a questa forma più ch'a tutte l'altre, come è quel del Petrarca:

L'aura, che 'l verde lauro e l'aureo crine;

o quell'altro, nel quale graziosamente par che scherzi de la sua vecchiezza:

o s'infinge, o non cura, o non s'accorge
del fiorir queste innanzi tempo tempie;

e quel de' Trionfi:

Quest'è colui che 'l mondo chiama Amore;
amaro, come vedi, e vedrai meglio ecc.

Ma perché in questa forma bella ed ornata si ricerca principalmente il diletto, e 'l diletto nasce da le metafore, da l'efficacia e da l'opposizione, tutte tre son proprie di questa figura; e particolarmente mi paion belli i contrapposti, come son quelli del Bembo:

Non son, se ben me stesso e te risguardo,
più da gir teco; i' grave, e tu leggiero;
tu fanciullo e veloce, i' vecchio e tardo.
Arsi al tuo foco, e dissi: Altro non chero,
mentre fui verde e forte: or non pur ardo
secco già e fral, ma incenerisco e pero.

E 'l render a ciascuna cosa il suo proprio suol esser cagione di grandissimo ornamento, come in quel sonetto:

Amor m'ha posto come segno a strale,
come al sol neve e come cera al foco
e come nebbia al vento, e son già roco,
donna, mercé chiamando, e a voi non cale.

Ma questa figura, propria de l'ornato dicitore, e talora sprezzata dal magnifico: però a torto fu ripreso il Caro dal Castelvetro, quando egli disse:

E tu mi desta, e avviva
lo stil, la lingua e i sensi,
perch'altamente io ne ragioni e scriva.

Bellissimi ancora sono ed ornatissimi gli aggiunti, i quali implicano contrarietà e contradizione, come quelli:

e dannoso guadagno ed util danno;
e gradi, ove più scende chi più sale;
stanco riposo e riposato affanno;
chiaro disnor e gloria oscura e nigra;
perfida lealtate e fido inganno:

ad imitazione de' quali disse monsignore de la Casa:

. . . avversità seconda
mi diede Amore, e foco
m'accese al cor di refrigerio pieno.

Ed altrove:

Pietosa tigre il Ciel ad amar diemmi,
donne; e serena e piana
procella il corso mio dubbioso face.

Ma questa figura è propria de' Toscani, quantunque da' Greci e da' Latini ne siano usate altre assai simili, ed alcuna volta con la negazione espressa, come son quelle adora dora, agamous, gamous, ed insepulta sepultura che fu detto da Marco Tullio, e da Catullo funera nefunera, e da Ovidio iusta iniusta; ed Ennio molto prima avea detto artem inertem. E la distribuzione o 'l componimento stimo ancora proprio di questa forma bella ed ornata, come per esempio:

Amor, Fortuna e la mia mente schiva
di quel che vede, e nel passato vòlta,
m'affliggon sì ch'io porto alcuna volta
invidia a quei che son su l'altra riva.
Amor mi strugge 'l cor; Fortuna il priva
d'ogni conforto: onde la mente stolta
s'adira e piange etc.

Massimamente se vi è alcuna opposizione, come quella:

I' da man manca, e' tenne il cammin dritto;
i' tratto a forza, ed ei d'Amore scorto;
egli in Gerusalem, ed io in Egitto.

E i membri e le parole c'hanno il medesimo fine sono dolcissime in questa forma:

non è sì duro cor che, lagrimando,
pregando, amando, talor non si smova;
né sì freddo voler che non si scalde.

Anzi la rima stessa ha peraventura avuto origine da quella figura ch'e Latini chiamano similiter desinens o pariter cadens; e ne la rima le parole piene di vocali sono più dolci e più atte in questa forma vaga e fiorita di poesia, come quelle:

Da' be' rami scendea
(dolce ne la memoria)
una pioggia di fior' sovra il suo grembo;
ed ella si sedea
umile in tanta gloria,
coverta già de l'amoroso nembo:

perché l'ultima rima, piena di consonanti, vi è giunta per temperamento, avenga che la forma bella sia insieme la temperata, la quale schiva i freni de l'orazione, che son fatti dal concorso d'asprissime lettere, come è il polysigma in cui si fanno sentire molte s; e schiva ancora il metacismo e l'altre figure sì fatte, come dice Marzian Capella ne le Nozze di Mercurio. Nondimeno, per giudicio del Falereo, e amica del labdacismo, perché grandissima grazia e bellezza ancora suol nascer da quelle lettere che son dette liquide e, più che da l'altre, da la l; anzi quando molte parole cominciano da questa lettera, se ne fa un dolcissimo composito che da' Greci fu chiamato melismo, o una figura che vogliam dirla, come in quelle parole di Virgilio:

quaeque lacus late liquidos;

ed in quelle dolcissime del Petrarca:

e le frondi e gli augei lagnarsi e l'acque.

Ed in questa forma, più che in tutte l'altre, è convenevole la dolcezza e la soavità de le rime, e la composizione de le parole e de' versi tenera, molle e delicata. Laonde tanto son più lodati i versi, quanto sono meno interrotti e perturbati ne l'ordine de le sentenze e de le parole, sì veramente ch'elle siano scelte e sonore e depinte e traslate, e da l'altre figure, quasi gemme intessute in un lavoro d'oro e di seta di vari colori: sia per esempio quel sonetto del Petrarca:

Erano i capei d'oro a l'aura sparsi,
che 'n mille dolci nodi gli avvolgea;
e 'l vago lume oltra misura ardea
di que' begli occhi ch'or ne son sì scarsi;
e 'l viso di pietosi color farsi,
non so se vero o falso, mi parea:
i' che l'esca amorosa al petto avea,
qual meraviglia se di subit'arsi?

e quel che segue. E quell'altro di monsignor de la Casa, nel quale una volta sola l'un verso entra ne l'altro:

Dolci son le quadrella ond'Amor punge;
dolce braccio le avventa; e dolce e pieno
di piacer, di salute è 'l suo veneno,
e dolce il giogo ond'ei lega e congiunge:
quant'io, Donna, da lui vissi non lunge,
quanto portai suo dolce foco in seno,
tanto fu 'l viver mio lieto e sereno;
e fia finché la Vita al suo fin giunge.
Come doglia fin qui fu meco e pianto,
se non quando diletto Amor mi porse,
e sol fu dolce, amando, il viver mio;
così fia sempre; e loda aronne e vanto;
ché scriverassi al mio sepolcro forse:
questi servo d'Amor visse e morìo.

Ma l'usar molte parole, le quali abbiano principio da la m, conviene al pianto; e peraventura in questa medesima forma è conveniente, come:

di me medesmo meco mi vergogno.

Ma s, r sono asprissime oltre l'altre; però ne la magnifica avranno luogo più agevolmente, e ne la grave ancora, ne la quale tre cose parimente si considerano: le sentenze, le parole e la composizione. Ma alcune cose sono gravi per se stesse, ch'essendo narrate, fanno più grave il parlare; ma non basta che le cose sian gravi, s'elle non son dette con gravità, come quelle:

Per le camere tue fanciulle e vecchi
vanno trescando e Belzebù in mezzo
co' mantici e col foco e con gli specchi.
Già non fostu nudrita in piume al rezzo,
ma nuda al vento e scalza fra gli stecchi;
or vivi sì ch'a Dio ne venga il lezzo.

La brevità in questa forma si richiede più ch'in tutte l'altre, perciò che il molto nel poco si mostra molto più grave: però gli Spartani, ch'erano di natura gravissima, parlavano brevemente. Il comandar ancora si fa con brevi parole; e 'l riprender le cose presenti porta seco non mediocre gravità, come si conosce in que' versi:

. . . . . . . . . . . .
né trovo chi di mal far si vergogni.
Che s'aspetti non so, né che s'agogni
Italia, che suoi guai non par che senta,
vecchia, ozosa e lenta.
Dormirà sempre, e non fia chi la svegli?

Nondimeno è pericoloso; e 'l lusingar è pieno d'indignità; e tra questo e quello è quasi mezzo il riprender il vizio de gli amici ne gli altri, facendo insieme due effetti, cioè di conservar il decoro e di por le cose in securo. Ma con molta gravità si lodano le cose passate, quando vi sia mescolata insieme alcuna riprensione de le presenti, come in que' versi:

L'antiche mura, ch'ancor teme ed ama
e trema 'l mondo, quando si rimembra
del tempo andato e 'n dietro si rivolve;
e i sassi dove fur chiuse le membra
di ta' che non saranno senza fama,
se l'universo pria non si dissolve;
e tutto quel ch'una ruina involve,
per te spera saldar ogni suo vizio.

I simboli ancor sono gravi, e l'allegorie, come quelle:

. . . ed or siam giunte a tale,
che costei batte l'ale
per tornar a l'antico suo ricetto;
io per me sono un'ombra etc.

Ma niuna cosa par più grave che 'l por nel fine quello ch'oltre tutte l'altre cose è gravissimo, come è quello:

Ira è breve furor; e chi nol frena
è furor lungo, che 'l suo possessore
spesso a vergogna, e talor mena a morte.

Là dove rivolgendosi l'ordine de le parole, molto perderebbe la sentenza de la sua gravità. In questo modo è quello del Bembo:

Questo è le mani aver tinte di sangue;

assai parrebbe men grave, tramutandosi:

Questo è le mani aver di sangue tinte.

E quell'altro di monsignor de la Casa

Crudele, or non è questo a Dio far guerra?

in qualunque modo si trasmutasse, ponendo nel fine quel ch'è nel mezzo, diverrebbe più languido per la mutazione. L'oscurità suole ancora in molti luoghi esser cagione de la gravità: perciò che tutto quello ch'è piano ed aperto suole esser sprezzato. Alcuna volta ancora lo spiacevol suono fa gravità, come quello:

Però, al mio parer, non gli fu onore
ferir me di saetta in quello stato,
e a voi armata non mostrar pur l'arco.

E quell'altro:

e per tardar ancor vent'anni o trenta,
parrà a te troppo; e non fia però molto.

La dolcezza del suono a l'incontra, o più tosto la tenerezza, per così dire, e l'egualità, suole esser nemica de la gravità: nemici ancora de la gravità son i contraposti e le sentenze contrarie fatte con affettata diligenza e con arte viziosa; e, s'io non m'inganno, di questo vizio possono esser biasimati molti moderni dicitori: tuttavolta i contraposti soglion gonfiare il verso; laonde, mescolati con la figura de la gravità, fanno il parlar più riguardevole e più magnifico e più bello; e noi cerchiamo la bellezza e la magnificenza oltre tutte l'altre cose. Laonde lodiamo quelle orazioni e que' poemi i quali sono esattissimi ed insieme magnificentissimi, e somigliano le statue di Fidia, ch'erano fatte con politissima arte ed aveano insieme de l'esquisito e del grande; e possiamo in ciò securamente approvar il giudizio di Demetrio e d'Aristotele più tosto che l'esempio o l'autorità de' poeti antichi.

Ma tra le figure de le sentenze che fanno la gravità, principalissima è la prosopopeia: la qual si fa introducendo a parlare la patria, come abbiamo detto, o Italia, o Roma, ch'abbia presa la forma feminile: come fece il Petrarca ne la canzone a Cola di Rienzo, de la quale abbiamo già fatta menzione:

di costor piagne quella gentil donna
che t'ha chiamato, acciò che da lei sterpi
le male piante che fiorir non sanno.

Si posson introdurre ancora i padri e gli avi e quelli che son morti, come ne l'istessa canzone:

E se cosa di qua nel ciel si cura,
l'anime che lassù son cittadine
ed hanno i corpi aobbandonati in terra,
del lungo odio civil ti pregan fine ecc.,

perché quelle parole saran più gravi e più illustri, le quali fien dette non in propria persona, ma in persona de' trapassati, come c'insegnò a fare Platone nel suo Epitafio.

E la reticenza e l'omissione, che noi possiam dir tralasciamento, sono usate acconciamente in questa forma del parlare: come quella:

Cesare taccio, che per ogni piaggia
fece l'erbe sanguigne
di lor vene, ove 'l nostro ferro mise;

e quell'altre:

Passo qui cose glorose e magne
ch'io vidi, e dir non oso: a la mia donna
vengo ecc.,

quantunque possano esser fatte per altra cagione che per quella che c'insegna il Falereo. Io numerarei ancora tra le figure, le quali convengono a questa forma, l'ironia, de la quale son pieni i ragionamenti di Socrate, e n'abbiamo ancora l'esempio in Dante:

tu ricca, tu con pace, tu con senno.

E quella la qual, benché non sia ironia, ha similitudine con l'ironia, e lascia dubbio stella sia fatta con disprezzo o meraviglia.

E la dimostrazione, come quella:

questo fu il fel, questi gli sdegni e l'ire,
più dolci assai che di null'altra il tutto.

Le parole in questa forma deono esser le istesse che ne la magnificenza sono scelte. Ma tra le figure del parlare, il raddoppiar le parole si fa acconciamente e con molta gravità, come fece Dante:

Ah Pistoia, Pistoia, che non stanzi etc.

Gravissima ancora e quella detta da' Greci Epanaphora, perché non solo comincia ne la medesima parola, ma finisce ne l'istessa, e i membri sono senza congiunzione; e bisogna sapere che la dissoluzione, o 'l discioglimento che vogliamo chiamarlo, e buon maestro de la gravità: laonde non conviene meno a questa forma ch'a la magnifica, fra le quali sono comuni molte figure.

Grave ancora è l'interrogazione, perché più dimanda che non dice; e richiama in dubbio l'uditore, quasi egli non sappia rispondere e sia confuso, come in quelle che già sono state addotte:

vecchia, oznosa e lenta
dormirà sempre, e non fia chi la svegli?

Ed in quell'altra:

Voi, cui fortuna ha posto in mano il freno
de le belle contrade,
di che nulla pietà par che vi stringa,
che fan qui tante pellegrine spade?

E 'l moderarsi e 'l correggersi, come:

Vergine saggia, e del bel numero una
de le beate vergini prudenti,
anzi la prima.

E 'l affermar certamente, in quel modo:

Fammi (ché puoi) de la sua grazia degno.

E 'l fermarsi molto in una cosa, e farci quasi fondamento, giova molto a la gravità, come in que' versi del Petrarca:

E per dir a l'estremo il gran servigio,
da mill'atti inonesti l'ho ritratto etc.
Ancora (e questo è quel che tutto avanza)
da volar sopra 'l ciel gli avea dat'ali
per le cose mortali.

Ma le comparazioni non son convenienti a questa forma, perché sono troppo lunghe. Ritiene ancora qualche parte di gravità colui il quale dice le cose odiose come piacevoli; s'ascondano alcune volte con parole pietose, come, volendo persuadere un prencipe vittorioso a la crudeltà, il consigliero gli disse che doveva usar la vittoria, ed un altro, che doveva assicurarsi del nemico. Molte altre cose son dette de la gravità, le quali noi tralasceremo, perché sono più appartenenti a l'oratore che al poeta.

Ora consideriamo l'umil forma di parlare, se non la vogliamo chiamar più tosto tenue o sottile: de la quale diremo poche cose, perché le molte non son necessarie al nostro proponimento. Le cose picciole sono accomodate a questa maniera, e le parole deono esser proprie ed usate: perché tutto quello che s'allontana da la consuetudine è magnifico. Non si convengono dunque i nomi trasportati o finti, o i peregrini, o gli altri detti di sopra; e l'elocuzione dovrebbe esser piana e chiara. Ma quella ch'è senza congiunzioni è oscura, come erano gli scritti d'Eraclito: però non le si conviene. Non è disdicevole nondimeno ne la comedia, perché la dissoluzione è propria de l'azione de l'istrione: laonde riesce molto meglio disciolta che legata. Ma ne le scritture dee aver le congiunzioni, quasi nodi e legami che la ritengano, acciò che non si dissolva a guisa di scopa dislegata o d'altro fascio. Deve ancora la piana scrittura fuggir tutte l'ambiguità ed usar quella figura che da' Greci si dice epanalepsi: ne la quale si replica la medesima copula o la medesima parola, dove temiamo che l'uditore per lunghezza non se ne sia dimenticato, come in quello esempio:

Ma pur quanto l'istoria scritta
in mezzo 'l cor, che sì spesso rincorro,
con la sua propria man, de' miei martiri,
dirò: perché i sospiri,
parlando, han triegua, ed al dolor soccorro.
Dico che, perch'io miri
mille cose diverse attento e fiso,
sol una donna veggio e 'l suo bel viso.

Si deono fuggire ancora quelle maniere di parlare che si fanno con gli obliqui, perché sono oscure; e si dee usare l'ordine naturale di parlare; e ne le narrazioni si dee cominciar dal caso retto, o dal quarto caso almeno, perché gli altri sogliono apportar oscurità. Non convengono ancora a questa forma né i membri lunghi, né i versi spezzati, e si deono fuggire i concorsi de le vocali lunghe e de' dittonghi, e le figure troppo riguardevoli e l'illustri, e tutto quello che s'allontana da l'uso comune. Ma la repetizione si può usare in questa forma. Ed oltre tutte cose è in lei richiesta quella probabilità e quella che da' Latini è detta evidenzia, da' Greci energia; da noi si direbbe chiarezza o espressione non men propriamente; ma è quella virtù che ci fa quasi veder le cose che si narrano, la quale nasce da una diligentissima narrazione, in cui niuna cosa sia tralasciata, come si vede ne le narrazioni del conte Ugolino:

La bocca sollevò dal fero pasto
quel peccator forbendola a' capelli
del capo ch'egli avea di retro guasto;

e ne l'altre cose ch'ivi sono narrate. E quella compatazione ancora è piena di grande evidenza:

Come le pecorelle escon dal chiuso
ad una, a due, a tre, e l'altre stanno
timidette atterrando l'occhio e il muso;
e ciò che fa la prima, e l'altre fanno,
addossandosi a lei s'ella s'arresta,
semplici e quete, e lo perché non sanno etc.

Nasce ancora questa virtù quando, essendo alcuno introdotto a parlare, non solamente si descrivono le parole, ma si dipingono gli atti e i movimenti, come nel ragionamento di Farinata:

guardommi un poco, e poi quasi sdegnoso;

ed in quel di Massinissa:

Mirommi, e disse: Volentier saprei
chi tu se' innanzi;

ed appresso:

Intanto il nostro e suo amico si mise,
sorridendo, con lei ne la gran calca,
e fur da lor le mie luci divise.

E ne' medesimi Trionfi, parlando d'Antioco:

Ed egli al suon del ragionar latino,
turbato in vista, si ritenne un poco;
e poi, del mio voler quasi indovino,
disse ecc.;

ed espresso:

Poi che da gli occhi miei l'ombra si tolse,
rimasi grave, e sospirando andai.

Suol nascer ancor questa evidenza quando si dicono cose consequenti a le cose narrate; così nel descrivere il viaggio de la nave si dirà che l'onda rotta diviene spumante e le fa rumore intorno. E descrivendo il suono de la tromba, acconciamente Ennio finse il nome di taratàntara in quel verso:

At tuba, terribili sonitu, taratantara dixit:

ad imitazion del quale disse poi il Tasso nel suo Amadigi:

La tromba ostil co 'l suo tarantantàra.

E l'asprezza del suono ne' nomi finti:

Che Giove irato per vendetta tone;

o quell'altro:

Io sentia già da la man destra il gorgo
far sotto noi un orribile stroscio.

E la dolcezza, come quel del Petrarca:

. . . ed acque fresche e dolci
spargea soavemente mormorando.

E tutti i nomi finti, come rombo, rimbombo, susurro, mormorio, sibilo, fischio, e gli altri sì fatti, perché in tutti è imitazione; ed ogni imitazione ha seco l'evidenza.

Ma perché l'imitazione è propria del poeta, è necessario che in questa parte consideriamo l'eccelenza d'Omero e di Virgilio, a' quali i poeti toscani non si possono paragonare di leggieri. L'arte, de' poeti, come disse Dion Crisostomo, è molto licenziosa; e quella d'Omero massimamente, il quale usò grandissima libertà, e non elesse una lingua, o con un carattere solamente, ma tutte volle adoperare, e tutte insieme le mescolò. Laonde niun tintore tinse mai sete di tanti colori, di quante egli fece l'opere sue; né contento d'usar le parole del suo tempo e di tutta la Grecia, usò l'antiche, a guisa di vecchia moneta cavata da' tesori di qualche ricchissimo signore; molte ancora ne ricevé da' barbari, e non s'astenne da alcuna, sol che gli paresse aver in sé qualche piacevolezza o qualche veemenza; né trasporta solamente i nomi vicini da' vicini, ma i lontani da' lontani, purché addolcisca l'auditore e, riempiendolo di stupore, l'incanti con la meraviglia; né però gli lascia nel proprio paese o ne la propria natura, ma questi allunga, altri accorcia, altri trasmuta e quasi volta sottosopra; ed in somma si dimostra non sol facitor di versi, ma di parole, o ponendo semplicemente nomi a le cose, o sopra i propri imponendone altri di nuovo, quasi imprimendo sigillo sovra sigillo; né si guardò da suono o da strepito alcuno di parole; ma, per dirlo brevemente, imitò le voci de' fiumi, de le selve, de' venti, del fuoco e del mare e, oltre a ciò, de' metalli e de le pietre e de le fiere, de gli uccelli, de le piume, ed in universale di tutti gl'istrumenti e di tutti gli animali; e primo ritrovò kanakhas e bombous ed altre sì fatte cose, e nominò i fiumi mormuronta, e le saette klaxontas, e l'onde boonta, e i venti kalepainontas, e disse molte altre cose somiglianti, ch'in vero paiono meraviglie e riempiono gli animi di tumulto e di perturbazione. Ma Virgilio, bench'usasse alcuni nomi antichi raccolti da Ennio e da gli altri poeti ed alcune terminazioni similmente ad alcune poche cose de' barbari, l'usò nondimeno con arte e con giudizio grandissimo e maturo, e rade volte; e mescolò le forme e i caratteri, ma gli dispose in guisa che nel suo poema sono molti quasi gradi d'un teatro, «onde si scende poetando e poggia», ma non si trova alcun precipizio o alcuno intoppo soverchiamente spiacevole, il quale offenda il lettore, e, quasi stanco, l'astringa a fermarsi mal suo grado. Ne l'espressione de le cose nondimeno, ed in quella che i Greci chiamano energia, fu meraviglioso ed eguale ad Omero, e co 'l suono e co 'l numero le imita in guisa che ce le pone innanzi a gli occhi, e ce le fa quasi vedere e udire. Veggiamo quasi cader il bue e precipitar la notte in quelle parole:

. . . procumbit humi bos. . . . ruit oceano nox.

Vedi quasi la furia de' cavalli che s'urtano insieme, ed odi lo strepito di quelle altre:

. . . perfractaque quadrupedantum pectora pectoribus rumpunt.

Né meno in quelle odi il rumor de le onde, e le vedi quasi rotte e biancheggianti:

. . . spumas salis aere ruebant. convulsum remis rostrisque tridentibus aequor.

Ed odi il suono parimente in quelli altri:

. . . longe sale saxa sonabant. . . . nec fracta remurmurat unda.

E s'appresenta innanzi a gli occhi un ruvinoso monte d'acque in quell'altro:

. . . insequitur cumulo praeruptus aquae mons.

La tardanza e la gravità in quello:

Olli sedato respondit corde Latinus.

E la tardanza parimente in quell'altro:

proximus huic, longo sed proximus intervallo.

Ma la velocità in queste:

radit iter liquidum, celeres neque commovet alas. Eia age, rumpe moras etc.;

ed in questo:

turbine corripuit, scopuloque infixit acuto.

La tardanza con lo strepito de l'armi:

quod votis optastis, adest perfringere dextra etc. in clipeum assurgat, quo turbine torqueat hastam.

Ma questo ti fa quasi sentir la debolezza:

. . . telumque imbelle sine ictu;

ed in quelle:

. . . frigentque effoetae in corpore vires.

Ma chi è che, leggendo quest'altra, non gli paia di vedere e d'udire un furioso?

Arma amens fremit, arma toro tectisque requirit;

e in quelle non senta la percossa de la caduta e 'l rimbombo de l'arme ?

. . . collapsa ruunt immania membra; dat tellus gemitum, et clipeum super intonat ingens.

Ma di queste cose hanno scritto più lungamente il Trapezunzio ne la sua Retorica e 'l Vida ne la sua Poetica. Dante è quasi terzo fra costoro, come dice egli stesso, fra cotanto senno; ed è più simile ad Omero ne l'ardire e ne la licenza e nel mescolamento de le parole antiche e barbare ch'a Virgilio; ed il somiglia ancora in quella che da' Latini è stata detta evidenzia; ma egli dice d'esser imitatore e discepolo di Virgilio, e peraventura il somigliò ne la brevità; ma, paragonando le virtù de' duo maestri insieme, si può dubitare qual sia maggiore: perché l'uno mette più le cose innanzi a gli occhi e le particolareggia, come disse il Castelvetro; l'altro, cioè Virgilio, sta più su l'universale e, come pare al Castelvetro, per difetto d'arte; ma, come io stimo, per dir le cose più magnificamente o più gravemente: perché il descriverle minutissimamente non porta seco l'una né l'altra virtù. Ma la virtù d'Omero è virtù propria del poeta, e d'ogni poeta; quella di Virgilio propria del poeta eroico, a cui si conviene servar il decoro e sostener la grandezza oltre tutte l'altre cose. L'uno e l'altro nondimeno mescolò tutti i caratteri, ma questo con maggior temperamento; e perché sì come a la fortezza è vicina l'audacia, a la parsimonia l'avarizia, così ancora a le virtù d'elocuzioni è sempre vicino alcun vizio. Virgilio fu cauto sopra ciascuno in guardarsi da le forme viziose, le quali con diversi nomi furono chiamate da' Greci e da' Latini; ma Demetrio c'insegna che 'l parlar freddo è vicino al magnifico; il cacozelo che noi, seguendo Quintiliano, possiam dire male affettato, al venusto o grazioso; l'asciutto al tenue; l'invenusto o 'l disgraziato al grave. Il freddo, come il diffinisce Teofrasto, è quel ch'eccede la propria esposizione, perch'una cosa picciola e minuta s'espone con parole troppo grandi, le quali, ove siano senza sale, sogliono alcune volte riuscire fredde ed insipide molto, come quel che si racconta del sasso che'l Ciclope gittò nel la nave d'Ulisse, nel quale pascean le capre; ma volle peraventura Luciano far prova del suo ingegno ne le vere narrazioni, descrivendo alcune cose da scherzo in guisa che paiano graziose, quantunque superino la propria esposizione; e fu imitato graziosamente ne l'Orca, la quale aveva i molini ne la gola che macinavano; ed altre si fatte meraviglie si leggono nel medesimo poeta non senza grazia: alcune nondimeno sono fredde, come pare al Vittorio; ma questo difetto e proprio di coloro che scrissero romanzi in questa lingua, i quali dicono cotali cose sciocche, che posson mover riso, e con la sciocchezza solamente. Nasce il freddo, come il magnifico, ne la sentenza, ne le parole e ne la composizione; e ne le parole, per opinione d'Aristotele, in quattro modi: perché o sono mal composte, come usavano i ditirambi; o sono di molte lingue mescolate insieme; o sono aggiunti troppo lunghi e troppo spessi; o sconvenevoli metafore. De le parole composte viziosamente a pena possiamo darne esempio in questa lingua; ma fra le poche è quella ch'usò il Boccaccio: melliflue; la qual riuscirebbe in altro modo assai fredda, come sarebbe quella soaviloqua Musa anacreontica, se 'l poeta non parlasse da scherzo; e si caderebbe di leggieri in questo vizio componendo le parole ad imitazione de' Latini, e dicendo Diana boschicultrice, o la cerva boschivaga, o la prima età floricoma, o altri simiglianti. Ne gli aggiunti, quando dicono il latte bianco, la neve fredda, il foco ardente, peccano più tosto i prosatori che i poeti; e questo e vizio non sol del Polifilo, ma del Boccaccio istesso in alcune de l'opere da lui composte. Ne la varietà de le lingue spesso meritano d'esser ripresi i moderni dicitori; ma n'abbiamo un esempio non lodevole in quella canzone di Dante:

Ahi faulx ris, per qe trais haves oculos meos? et quid tibi feci, che fatto m'hai così spietata fraude? etc.,

il quale non avrebbe per mio avviso, meritato lode alcuna da Aristotele o da Demetrio, ben ch'essi riprendessero più tosto coloro ch'usavano la varietà de le lingue in quel modo ch'oggi e usato da molti. Ma ne le metafore sconvenevoli peccano molti, non se ne avvedendo; laonde non fu detto con tanta grazia:

Altero occhio de' fiumi, o bel Metauro,

con quanta Catullo avea detto: Ocelle fluminum. Ed errò alcun altro che chiamò le stelle chiodi del cielo e che disse a la sua donna:

Son gli occhi vostri archibugetti a ruota, e le ciglia inarcate archi turcheschi;

se pur egli non parlò da scherzo; e quell'altro il quale finse che Caronte avesse fatta la barca de gli strali lanciatigli da Amore, e 'l fiume de le sue lagrime; e colui che chiamò il velo della sua donna vela de la sua fortuna. Altri vi fu che, leggendo nel Petrarca quel leggiadrissimo verso:

umana carne al tuo virginal chiostro,

intendendo del ventre, disse carnal chiostro, e volle intendere di tutto il corpo; e similmente carnal nido. Ma l'artificio di Dante ancora è sospetto in alcune traslazioni, come in quella:

da la vagina de le membra sue;

e 'n quell'altra:

Dentro vi nacque l'amoroso drudo
de la fede cristiana ecc..

Né lodo que' traslati:

Ben se' tu manto che tosto raccorce,
sì che, se non s'appon di die in die,
lo tempo va d'intorno con le force.

Né quella:

La luce in che rideva il mio tesoro.

Né mi piace quella:

e 'n su le vecchie cuoia;

né alcune altre sì fatte. In somma il parlar freddo, come dice Demetrio, è simile a la vanità, perché si come il vano si vanta d'aver quel che non ha, così il picciolo dicitore fa troppa ambiziosa mostra de le cose picciole e minute. L'altre forme viziose, cioè il cacozelo e la invenustà e l'aridità, nascono ne le medesime cose. Ma noi chiamiamo i vizi con altro nome: perch'al sublime facciamo vicino il gonfio; a l'ornato, l'affettato; al piano, il basso; e gli esempi di tutti questi vizi si ritrovano in molti. Ma essendosi conosciute le virtù, si conoscono i vizi di leggieri, i quali tutti dee fuggire il poeta eroico, ora costeggiando gli amenissimi lidi de la poesia, ora spiegando le vele ne l'altissimo mare de l'eloquenza; ma schifi Scilla e Cariddi, e le Sirti, e le Sirene, oltre tutti gli altri mostri di questo mare, perch'elle incantano chi ascolta troppo attentamente l'armonia de l'amorose parole e de' numeri che possono addormentar gli animi ed intenerirli co 'l piacere. Laonde ne l'eleggere il verso ancora dee mostrarsi giudiziosissimo il poeta eroico. I Greci e i Latini non hanno alcun dubbio ne l'elezione, perché il verso di sei piedi è attissimo oltre tutti gli altri a trattar questa materia; ma la difficoltà è in questa lingua, ne la quale egli è quasi straniero, sì come sono tutti gli altri i quali caminano sovra i piedi usati da' Greci e da' Latini; e non hanno la rima, la quale è naturale di questa lingua, e quasi nata con esso lei, né potrebbe farsi ne la lingua latina così acconciamente, o così a lungo, senza generar fastidio, tuttoché si senta in que' quattro versi di Virgilio:

Sic vos non vobis nidificatis, aves;
sic vos non vobis vellera fertis, oves;
sic vos non vobis mellificatis, apes;
sic vos non vobis fertis aratra, boves;

ed in alcuni versi d'Adriano imperatore e in molti inni de gli scrittori sacri. Il medesimo non converrebbe ne l'altre lingue, le cui parole finiscono in consonanti, perché la consonanza non sarebbe così dolce e così grata a gli orecchi. Da l'altra parte la nostra lingua non è avvezza a caminar sovra i piedi che non sono suoi propri, né conosce così bene la brevità e la lunghezza de le sillabe, come faceva la latina, la quale pronunziava diversamente e quasi cantando. Laonde s'ella pur volesse ricever i versi stranieri, non dee lasciare il proprio; ma o ritener questo solamente, o usar gli uni e gli altri a guisa di coltore, il quale con la diligenza e con artificio faccia più belle non solamente le piante del paese e le domestiche, ma le selvagge e le peregrine, perché tutte crescono per coltura e tutte acquistano bellezza e perfezione. Ma fra i versi nostri, quel d'undici sillabe è atto al parlar magnifico, ed è quello che riceve maggior ornamento. Il terzetto ha troppo stretto seno per rinchiudere le sentenze de l'eroico, il quale ha bisogno di maggior spazio per spiegare i concetti, ed oltre a ciò non ricerca una catena perpetua, né i riposi così lontani, come sono nel capitolo; ma, spiegando i suoi concetti in più largo e più ampio giro, spesso desidera dove acquetarsi. Nel sonetto e ne le canzoni è troppa varietà di modi, o di mutazioni che vogliam dirle. Laonde quella maniera di verso è più atta a le mutazioni del canto e de l'armonia conveniente al teatro. Ma ne la stanza d'otto versi d'undici sillabe è maggiore uniformità e maggior gravità e maggior costanza e stabilità: la quale non è propia de la scena, ma conviene a' poemi eroici, come dice Aristotele medesimo ne' Problemi, e può assai acconciamente esser cantata con armonia dorica o con alcuna simile, s'in questa età n'abbiamo simigliante, la qual non riceva molte mutazioni, e somigli quella lodatissima non solo da Socrate e da Platone ne' Dialoghi de la Republica e de le Leggi, ma da Aristotele ancora ne' suoi Problemi e ne l'ottavo de la Politica, e da Plutarco e da Massimo Tirio e da altri gravissimi scrittori. Ma la musica frigia e la lidia, e quella che di queste è mescolata, sono più ricercate ne le tragedie e ne le canzoni, sì come in quelle che possono commover gli animi e quasi trarli di se stessi, ma non sono atte ad ammaestrarli, benché sino a' tempi di Plutarco la tragedia non avesse ricevuto la maniera del canto cromatico e l'enarmonia; ma la cetera, assai più antica, da principio gli aveva cominciato ad usare. E perché la musica non fu trovata solamente per trattenimento de l'ozio o per medicina e quasi purgazione de l'animo, ma per ammaestramento ancora, come piace ad Aristotele ne l'ottavo de la Politica, potrà la musica grave e stabile e simile a la dorica servire meglio d'alcun'altra al poema eroico: però ne' primi tempi furono i medesimi i musici e i poeti, come Lino, Orfeo, Olimpo, Femio. Da poi queste arti fur divise per l'umana imperfezione, per la quale non bastiamo a molte cose. Ed Omero istesso ne l'Iliade, introducendo Achille a cantare i fatti de gli eroi a la cetera, c'insegna chiaramente che l'azioni de gli eroi deono esser cantate. Il medesimo ci dà a divedere ne l'Odissea con l'esempio di Femio ceteratore antichissimo fra' Greci, il quale cantava a la tavola del re de' Feaci. Poi Terpandro, come racconta Plutarco, aggiungendo i modi a' suoi versi ed a quelli d'Omero, diede le leggi a l'armonia, e fu quasi legislatore de la musica; e fu il primo ancora che ponesse il nome e desse le leggi a le corde de la cetera. Nondimeno il canto ritrovato da Terpandro fu quasi semplice sino a l'età di Frinide, famosa cortigiana, la quale adulterò e quasi contaminò la musica, facendo lecito quel ch'era piacevole. E quantunque i canti di Terpandro e quelli d'Olimpo fosser cantati a la cetera di poche corde, nondimeno coloro che poi seguirono ve n'aggiunsero molte, ma non potevano agguagliare, né pur imitare la perfezione di que' primi. Sacada poi, essendo tre toni, il dorio, il frigio e il lidio, in ciascuno d'essi fece un coro con le sue strofe, o vero una canzona che vogliam dirla, con le sue conversioni, ed a ciascuna ancora diede le sue leggi. Laonde le leggi furono, per così dire, tripartite; e ciascuno usò quelle che più gli erano a grado. Gli Spartani nondimeno amavano più le doriche, lor proprie e naturali; e Platone, benché fosse ateniese, l'antepone a l'altre, e ne la composizione de l'anima, ne la quale dimostrò grande studio de la musica, loda più la dorica. Ed Aristotele, dopo lui, conferma ne l'ottavo de la Politica che l'anima nostra è armonia o non senza armonia. E l'istessa opinione ebbe un altro Aristotele, cognominato il Platonico, il quale non solamente ne la composizione de l'animo, ma in quella del corpo dimostra la sua musica. Ma lunga opera farebbe chi volesse referire quel che n'è scritto non solamente da Platone e da l'uno e cla l'altro Aristotele e da Plutarco, ma da Aristosseno ancora e da Tolomeo e da Boezio e da Marzian Capella e da Pietro d'Abano e da altri più moderni. Bastici adunque d'avvertire che nel poema eroico si richiede principalmente la musica, la qual conservi il decoro de' costumi e la maestà, come faceva la dorica, e si schivino quelle soverchie perfezioni o imperfezioni, per le quali Timoteo, che a le sette corde aggiunse molte altre, è biasimato da Ferecrate comico, da cui fu introdotta in scena la Musica a lamentarsi con la Giustizia di essere stata lacerata da Timoteo. Ne' versi latini esametri, oltre tutti gli altri, è gravissimo il verso spondaico, nel quale lo spondeo occupa il luogo del dattilo; e con questa sorte di versi e di piedi, s'io non m'inganno, soleva l'istesso Timoteo frenare il furore d'Alessandro, che da l'altra maniera di musica era concitato a l'armi, come si legge in Dion Crisostomo. Numerosissimo nondimeno è quel verso esametro nel quale il dattilo ha la penultima sede e l'ultima lo spondeo: ed a questa similiuldine sono numerosissimi ancora i nostri endecasillabi, come quel del Petrarca:

battendo l'ali verso l'aurea fronde;

e quelli altri:

fiere e ladri rapaci, ispidi dumi.
ed avea in dosso sì candida gonna;

e gli altri sì fatti, i quali ne le stanze del poema eroico potranno essere usati con gran convenevolezza, avendosi nondimeno risguardo a la variazione del numero: oltre a ciò la testura d'otto versi è capacissima, perché il numero ottonario, come dicono gli aritmetici, è primo fra i numeri solidi e cubi c'hanno pienezza e gravità. È perfetto ancora ed attissimo a l'azione, perch'egli è composto de la dualità, ch'è il primo moto o il primo mobile. E perché la musica e composta da' pari numeri e da gli impari, e dal finito e da l'infinito, per questa cagione ancora è perfetto l'ottonario, sì come quello che si compone dal quaternario duplicato, onde si forma una tessera saldissima, e dal binario quadruplicato, ed oltre a ciò dal ternario e dal quinario, che sono i primi fra' numeri impari. E se non bastasse alcuna volta una stanza sola al concetto, si può trapassar da l'una ne l'altra. Laonde il poeta eroico può elegger questa innanzi ad ogn'altra testura di rime. E 'l Boccaccio, che prima trattò cie l'armi e de gli amori in questa lingua, fece di lei giudiziosa elezione: e ben che ella nel suo nascimento fosse bassetta anzi che no, nondimeno può avvenir di lei quel che del sonetto è avvenuto, il quale con la coltura acquistò grandezza e magnificenza. Scelgasi dunque la stanza, o l'ottava che vogliam dirla, per attissima al poema eroico, oltre tutti gli altri modi di rimare che son propri e naturali de la favella toscana; e seguasi non sol la ragione, ma l'autorità di coloro che l'hanno adoperata in materia d'amore e d'arme: perché, dopo il Boccaccio, in questo verso Luigi Pulci scrisse il Morgante; e 'l fratello il Ciriffo Calvaneo; ed Angelo Poliziano (uomo di gran dottrina e di gran giudizio in que' tempi) l'amore e le giostre di Giuliano de' Medici; e 'l Boiardo Orlando Innamorato; e l'Ariosto Orlando Furioso; Pietro Aretino Angelica innamorata; e Luigi Alemanni Giron Cortese e l'avarchide; e 'l Tasso l'Amadigi e 'l Floridante, oltre il Guidon selvaggio che fu da lui prima cominciato; e 'l Dolce il Sacripante, Achille e gli altri poemi; e 'l Giraldo cantò d'Ercole in questo medesimo modo; e 'l Danese di Marfisa; e 'l Bolognetto del Costante; e 'l Pigna scrisse col medesimo gli Eroici oltre tanti altri nobilissimi ingegni che hanno trattate le favole e le materie d'amore: io dico Lorenzo de' Medici, il Benivieni, il Bembo, il Molza, il Guarino, Egidio Romano, il Martello, gli Academici Intronati di Siena, il Veniero, l'Anguillara, il Guarnello, il Verdizzotto, il Bonfadio, ed altri c'hanno avuta qualche fama ne la lingua toscana.

Ora potrebbe alcuno dubitare qual sia più eccelente, l'epico o 'l tragico: perché de l'una opinione è difensor Platone, de l'altra Aristotele; ed io con gli altri tra l'autorità d'ambedue sono quasi irresoluto; e ben che quella d'Aristotele potesse terminar la questione, nondimeno in questa materia tanto si deono considerar le autorità quanto le ragioni. Dice Platone che l'epopeia è più perfetta, perch'ella ha minor bisogno d'aiuti estrinseci, come quella che si contenta di pochi uditori, e de' più gravi e giudiziosi; là dove a la tragedia, dovendo essere rappresentata in scena, sono necessari gl'istrioni, i quali alcuna volta troppo trapassano il verisimile nel contraffare e ne' movimenti, onde sono somiglianti a le simie; e la tragedia viene in qualche modo a participar de' lor difetti: però dee men nobile esser riputata. A questa ragione risponde Aristotele che l'opposizione non si fa a l'arte poetica, ma a quella de gl'istrioni, potendo avenire che l'epopeia ancora sia recitata con simili movimenti, come fu da Sosistrato, e cantata, come fu da Mnasiteo; e soggiunge poi che la tragedia ancora senza sì fatti movimenti conseguisce il suo fine, come fa l'epopeia, potendo per la lettura mostrar quale ella sia: laonde per l'altre cose migliore, e per questo difetto non è peggiore, non essendo necessario che si trovi ne la tragedia. Dice ancora Aristotele che la tragedia ha le cose le quali sono ne l'epopeia, potendo ella ancor servirsi del verso esametro, ed oltre a ciò ha la musica e l'apparato per la vista; ha maggior evidenza ed in minor tempo conduce la sua favola a fine; laonde il piacere è più unito e più ristretto; ma quella de l'epopeia è simile al vino troppo inacquato. Ultimamente dice che la favola de la tragedia è più semplice e più una, ed eccede ancora ne l'offizio e nel fine de l'arte, ch'è il dilettare: laonde si può conchiudere che sia megliore, perché meglio asseguisce il suo fine. Queste sono le ragioni d'Aristotele, le quali combattono molto contra una. Laonde sarebbe necessario che la ragione di Platone fosse quasi un altro Achille, che non si sgomentasse per la moltitudine de gli avversari. Ma considerisi il valor di ciascuno. L'opposizione di Platone non è fatta a l'arte de gli istrioni solamente, ma a la Poetica o a quella parte d'essa a la quale è necessaria l'Istrionica: perciò che non è vero che tutte le poesie e la tragedia particolarmente possano aver la sua perfezione senza gl'istrioni, avegna che ella sia poema drammatico, o rappresentativo che vogliam dirlo, nel quale non appare la persona del poeta: laonde ha bisogno d'alcuno che la rappresenti; e s'ella non avesse bisogno di chi la rappresentasse, non sarebbe dramatica; ma ne l'epopeia, la qual è poema narrativo, molte volte il poeta parla in sua persona: onde la rappresentazione o non è necessaria o è soverchia e viziosa. Oltre a ciò, se la tragedia non avesse bisogno de la musica e de l'apparato per conseguire il suo fine, Aristotele non avrebbe comprese l'una e l'altra parte ne la diffinizione; ma, avendole raccolte ne la diffinizione, sono necessarie almeno per conseguire l'ultima e propria perfezione, la quale consiste ne l'esser rappresentata. Si può aggiungere a questa un'altra ragione, che l'elocuzione de l'epopeia è fatta per esser letta; ma quella de la tragedia per esser recitata: laonde ha bisogno de la pronunzia de gl'istrioni, come si può raccorre non solo da Demetrio Falereo, ma da Aristotele medesimo nel terzo de la Retorica, il quale conobbe manifesta la differenza fra quella elocuzione che doveva essere scritta, e quella che ricercava l'aiuto de l'azione, chiamata disciolta e pendente ne l'istesso libro de la Retorica. È dunque la tragedia in questa parte gravosa, come dice Platone, e non senza carico. A quello poi che dice che la tragedia ha tutto quello che ha l'epopeia ed alcune cose di più, si può rispondere che quelle cose non sono sue proprie, ma quasi prestate da l'epopeia, come l'esametro, laonde non può usarlo se non rade volte; ma ordinariamente adopera l'iambo ed altri versi che sono minori e di minor suono e meno atti a la grandezza ed a la magnificenza; e le cose ch'ella ha di più sono più tosto impedimenti che perfezioni; e se perfezione è la musica, è perfezione estrinseca: può nondimeno esser ricevuta dal poeta eroico senza alcuna difficoltà de l'apparato e del teatro e de le machine, come abbiam già detto; anzi possono i poemi eroici esser cantati con quella sorte di musica ch'è perfettissima, come furono cantati i poemi d'Omero; e ne la nostra lingua particolarmente il poema eroico ha la rima, la quale è una propria e naturale armonia. Non è anche vero che la tragedia abbia maggiore evidenza, se noi vogliam parlare de l'evidenza propia de l'arte poetica, la quale nasce da una accurata narrazione e da gli aggiunti e da' conseguenti, come è quello:

. . . nec fracta remurmurat unda;

anzi questa evidenza è fatta dal poeta mentre egli parla ne la propria persona. Laonde la tragedia, ne la quale non appare mai la persona del poeta, n'è quasi affatto priva. Ma l'evidenza de la tragedia nasce da l'azione de gl'istrioni, senza la quale l'elocuzione è oscura, perch'ella non è fatta con alcuna diligenza, come dice Aristotele medesimo; ma è agonistica, cioè conveniente a le contese, le quali fanno gl'istrioni nel teatro: però senza l'aiuto de l'azione non fa la propria operazione e par quasi frivola; ma questa medesima imitazione, o simulazione fatta con l'azione e con movimenti de gl'istrioni, non è in modo alcuno necessaria al poema eroico, il quale ha la sua chiarezza per se stesso; e s'alcune volte sono stati recitati i poemi d'Omero, de' quali fu istrione Ermodoro, come racconta Ateneo, furono ancora rappresentate l'istorie d'Erodoto; e l'istrione fu Egesio comico. Ma la rappresentazione non conveniva più a l'uno che a l'altro; e mi perdoni Demetrio Falereo, il quale fu il primo ch'introducesse nel teatro gli omeristi. Anzi se fosse imperfezione alcuna ne la poesia d'Omero, ch'alcuni versi fossero troppo deboli, altri senza capo, altri quasi tronchi nel fine, questa imperfezione egli participò da la musica, a la quale accomodò i suoi versi, come dice il medesimo Ateneo; ma più tosto fu artificio eccellentissimo de la imitazione, ne la quale il musico e 'l poeta deono esser conformi. Non posso già negare che la tragedia in minor tempo non conduca la sua favola a fine e che quel piacere non sia più ristretto; ma aviene del diletto, il quale è ne la tragedia e ne la commedia, come de la virtù de' corpi piccioli e de' grandi: perché niuno è ch'eleggesse d'esser picciolo, quantunque la virtù sia più unita, e più dispersa quella de' grandi; ma a l'incontro è maggior virtù quella d'un corpo grande: così anco è maggiore il piacere de l'epopeia, anzi è vero piacere, là dove quello de la tragedia è mescolato col pianto e con le lagrime e pieno tutto d'amaritudine. Concedo parimente che la tragedia sia più semplice e più una; ma non ha potuto però schivare ogni composizione ed ogni doppiezza: laonde è composta e doppia in qualche modo; e sì come, fra i corpi composti, quelli sono perfetti i quali sono misti e temperati di tutti gli elementi e di tutte le qualità, così aviene peraventura tra le favole che le più composte siano le migliori. Ma non voglio già concedere che la tragedia meglio conseguisca il fine, anzi si move a quello per obliqua e distorta strada; ma l'epopeia per diritta: perciò che, ese.endo duo modi del giovar con l'esempio, l'uno d'incitarci a le buone operazioni mostrandoci il premio de l'eccellentissima virtù e del valor quasi divino, l'altro di spaventarci da le ree con la pena, il primo è proprio de l'epopeia, l'altro de la tragedia, la qual giova meno per questa cagione, e porta ancora minor diletto, perché l'uomo non è di così fiera e scelerata natura che riponga il suo sommo piacere nel dolore e ne l'infelicità di coloro che per qualche errore umano sono caduti in miseria. Concedamisi dunque ch'in questa ed in alcune altre poche opinioni lasci Aristotele per non l'abbandonare in cosa di maggiore importanza: cioè nel desiderio di ritrovar la verità e ne l'amore de la filosofia: perciò che in questa diversità di parere io imiterò coloro i quali ne la divisione de le strade sogliono dividersi per breve spazio, e poi tornano a congiungersi ne l'amplissima strada, la qual conduce a qualche altissima meta o ad alcuna nobilissima città piena di magnifiche e di reali abitazioni ed ornata di templi e di palazzi e d'altre fabriche reali e maravigliose.



EDIZIONE DI RIFERIMENTO: "Torquato Tasso - Prose", a cura di Ettore Mazzali, con una premessa di Francesco Flora, Riccardo Ricciardi editore, Milano - Napoli, 1959







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