Torquato Tasso - Opera Omnia >> Rogo amoroso |
iltasso testo integrale, brano completo, citazione delle fonti, commedie opere storiche opere letterarie in prosa e in versi, operaomnia # Dei maggiori
Dei minori
Pastori
La rappresentazione si figura in Val di Tevere. Piangea dolente e sospiroso Aminta AMINTA Se fu mai dolce il nostro canto o 'l suono, or amaro è via più d' onda marina, più di fèl, più d' assenzio, e più di tòsco; non è più dolce no, non è più canto, ma pianto miserabile e dolente come morte che 'l fa. Corinna è morta. Morta è Corinna, ahi lacrimoso fato! Di queste selve il più bel ramo è svelto, reciso il più bel fior di questa piaggia, di questi giorni il più bel raggio è spento. Pianser le ninfe la tua acerba morte, testimoni voi sète, abeti e faggi ch' udiste il pianto e voi fontane e rivi che più cresceste al lacrimoso umore. Niuno allor condusse a ber gl' armenti, non gustò fèra le turbate fonti, né toccò per dolor l' erba del prato. Gemeva ancor il tuo morir, Corinna, l' africano leon, la tigre ircana, come dicon le selve e i fèri monti. Corinna dimostrò ne' rozzi boschi qual fosse gentilezza e cortesia e 'nsegnò prima a le selvaggie Ninfe a figurar con l' ago i fiori e l' erba e i dipinti augelletti e i vaghi cervi con le ramose corna e i capri e i pardi, tal che le sue vittorie ella dipinse e i suoi propri trofei spiegò ne l' oro, cara a Diana e cara anco a Minerva. Come ad arbor la vita, a vite l' uva, tauro a gli armenti e biada a' grassi campi, così tu fosti a' tuoi, Corinna, onore. Poscia che t' involò l' acerba morte, Pale medesma abbandonò piangendo le sue nude campagne, e seco Apollo; e ne' solchi in cui già fu sparso il grano vi signoreggia l' infelice loglio e la sterile avena o felce appresso sventurata, che frutto non produce, e 'n vece pur di violetta molle, di purpureo narciso o di giacinto, il cardo sorge e con le spine acute il Di verdi fronde voi l' arida terra, o Pastori, spargete e i chiari fonti coprite intorno pur con l' ombra fosa, che l' istessa Corinna il vi comanda. Fate il sepolcro, e nel sepolcro il carme aggiongete piangendo a' bianchi marmi: Giaccio io Corinna qui, da terra al cielo e da le verdi selve all' auree stelle nota per fama di beltà pudica. TIRSI Di bello armento guardian più bello, tale è 'l tuo canto a noi, divin poeta, qual sopra l' erba verde il dolce sonno a l' uom già stanco, e ne l' estivo ardore dolce rivo ch' estingua ardente sete; nè sol con la sampogna il mastro agguagli, ma con la voce e co' soavi accenti. Fanciullo aventuroso, or tu sarai secondo a lui, ma sol d' età secondo; noi cantaremo i nostri versi a prova qualunque paia il nostro modo e l' arte e Corinna alzerem sin alle stelle, sin alle stelle inalzarem Corinna, ch' io non fui degno di vederla in terra, ma spero forse di vederla in Cielo. AMINTA Qual fu di questo mai più caro dono? Ella fu degna del tuo chiaro canto, e 'l tuo canto lodàr Batto e Menalca. TIRSI La candida Corinna il bianco cerchio e 'l candor non usato in ciel rimira e vede sotto i pié le vaghe nubi in mille forme e l' argentata luna e l' altre stelle e 'l lor viaggio torto, però del suo piacer s' allegra il bosco e si riveste omai la verde spoglia, di Pane albergo e di Pastori e Ninfe, né lupo insidia a le lanose greggi, né tendono le reti inganno a' cervi. Ama Corinna l' ozio, è l' ozio in Cielo, ma la fatica s' ange in su le porte del tenebroso Inferno ove dolente sta fra la schiera d' infiniti mali. I monti adorni di fiorite chiome alzano nel piacer le voci al Cielo, suonan l' inculte rupi i vaghi carmi, di vaghe rime ancor suonano i boschi. Diva fu, Diva fu Corinna, o parve; e s' in terra fu Dea, che fia nel Cielo? Ecco (s' a te non basta, o Dea, la tomba) quattr' alziam qui bianchi e politi altari, duo o Corinna a te, duo a Diana, e ciascun anno spargeremo intorno tazze spumanti pur di novo latte; a te duo vasi di liquor d' oliva porrò, Corinna, e le più adorne mense farà Bacco più liete, in ampio vetro versando il prezioso e nobil vino, e canteranno a me Lizio ed Egone, i Satiri saltanti Alfesibeo imiterà. O Dea, riguarda i giochi, ch' avrai perpetui questi onori in terra, e quando renderem solenni voti a le Ninfe de' fiumi e de le selve e quando purgheremo i nostri campi. Mentre il cinghial de' monti i duri gioghi, mentre il pesce amarà gl' ondosi fiumi, mentre si pasceran l' api de' fiori e di rugiada avran celeste cibo le canore cicale, in terra sempre più saldo rimarrà ch' in salda pietra l' onor tuo, la tua laude e 'l chiaro nome. Come a Cerere, a Bacco, a te votivi i doni portarà da' verdi campi il tuo rozzo cultor con larga mano, e tu condannarai co' voti, o Diva. AMINTA Quali a te, quali per sì colti versi render doni potrò degni del canto? Perché non tanto il sibilar de l' Austro né d' onda che si rompa al salso lido udir mi giova il suono, o quel d' un fiume precipitante fra sassose valli. Ma prendi questo vaso in cui soleva Corinna a mezzo dì spenger la sete, stanca de le vittorie e de le prede, ch' ella colmò già d' acque, io poi di pianto due volte il giorno e spargerollo intorno al sepolcro ch' alzar dobbiamo a gara, quando si leva e quando inchina il sole. Ma se non tanto il pianger mio gradisce quanto le rime tue, prendi, Pastore, in sua memoria eterna il caro dono. TIRSI Prendi all' incontro tu, cortese Aminta, questa fistola mia di sette canne, onde già risonar l' elci e l' arene che percuote il mar d' Adria e fiede il vento. Ma qual odo io più che d' umana voce dolcissimo concento, e quali io veggio e luci e lampi? O dolce lume, o suono! Ecco Febo, ecco Amor con mille amori. AMORE A voi non si convene, o dolenti pastori, alzare il tempio o pur alzar la tomba di questa che volò quasi colomba con le sue candid' ali, e bench' ella non sdegni il dolce suono de l' umile siringa, ama più chiara tromba e più nobili esequie e più gradite, e d' altro che di bianchi e tersi marmi ama il sepolcro e i carmi: opra è sola d' Amore farle cotanto onore. Incontro a quel superbo, che là s' innalza con terribil fronte in guisa tal ch' agguaglia orrido monte, l' alzerò di mia mano d' altra materia pur che di terrena, sì che l' argento e l' oro perderà dal lavoro. Dirà il Franco e l' Ispano e chiunque passando il mare e l' alpe giungerà stanco al fine in val di Tebro, là dove io la celebro: ecco due gran sepolcri, ecco due meraviglie del mondo e di natura, ma quella, se ben miro, fecer gl' uomini già, questa li Dei, che non pur io son Divo, ma son Divi ed Eroi fra questi colli, per cui, se dritto estima Amore e Marte, anzi giudice Alcide e Giove stesso, men gloriosa è del leon la spoglia che de l' Orsa famosa il nobil vello, e men degna del cielo e di sue stelle. Dunque terrena è quella, fia questa opra divina, che 'l Ciel sì alta gloria a lei destina. Voi fra tanta volando, o pargoletti miei, spogliate intorno e monti e prati e valli di fior purpurei e gialli, acciò che sparga odori il rogo ardente di questa mia Fenice, come fa quel de l' altra in Oriente. Altri tagli il ginebro, altri l' arbore incida, che troncato già mai ramo né foglia di novo non rinverde e non germoglia; altri sostegno al rogo faccia statue spiranti, e nel cipresso incida le sue palme e i trofei: teste di fère e spoglie, reti, dardi, faretre, archi, quadrella; né le vittorie solo avute ne le selve contra l' erranti belve, ma quella ond' ella vinse uomini e Dei. Altri le care membra al nobil rogo imponga, e le ricopra il puro velo; altri le faci accenda e 'l foco desti. Ecco arde il rogo, ecco la fiamma al cielo: deh cessi il flebil suono, deh cessino i lamenti, dian luogo ad alte lodi alti sospiri e si rasciughi il pianto, ch' a parlar de la Fama par che la terra e 'l ciel risuoni in tanto. FAMA Dolore annunzio e lutto, Pastor, Bifolci e Ninfe, Fauni, Sileni e Pani, e Satiri e Silvani, l' annunzio a voi che nell' alpestri cime abitate de' monti o presso l' onde de l' arenoso lido, a voi che 'l mar circonda, a voi che cinge la palude e 'l fiume, a voi Dive del mare. A voi del Cielo Dive e Divi io ragiono, ma solo annunzio a voi diletto e pace dell' alma che sen vola a' vostri cori. Morta è Corinna, anzi tra voi salita, lasciando il mondo in lacrimoso orrore, scuro, dolente e fosco. Qual senza fronde il bosco e senza fiori il prato e senza l' acque il fonte e senza stelle il cielo, tale è senza i suoi pregi la terra e, senza il suo lucente raggio, d' alpestre e di selvaggio, e d' orrido deserto ha faccia oscura. Piange il mondo e natura: qual meraviglia è poi se piange ancor la Fama che dovrebbe lodarla, e per mill' occhi lacrime distilla? Ma tu non piangi, Amore, perché speri goderne e goder solo, non in Pafo od in Gnido, ma su nel terzo Cielo, e a me sol qui lasci il nome e 'l grido. S' io tante lingue avessi e tante penne quante ella ebbe virtù, quante bellezze, sarebbe eterno il suono, eterno il volo onde il suo nome portarei cantando da l' uno a l' altro polo. Ma non basta a' suoi merti ogni favella, però taccio piangendo quanto leggiadra fosse e quanto accorta, taccio che nel fiorir de' suoi verd' anni vinse di senno i saggi, di fede i più fedeli, vinse di gravità matura etate, non pur di leggiadria la più leggiadra. Solo io dirò ch' a lei cotanto piacque l' esser casta e pudica che le spiacque esser bella, e le spiacque il bel nome che le acquistò cantando il suo fedele. Io medesma le spiacqui, io che tanto la lodo e lodo il vero, Fama certa e verace, messaggiera qua giù della sua morte, anzi de la sua pace e de la sua virtù, ch' in Ciel consorte la fa de gl' altri Divi: ella fra loro avrà perpetua vita, quant' esser dée gradita. Voi, voi non sète vivi, voi ch' alor non moriste impallidir veggendo il chiaro viso e morte ricoprir d' eterno gelo le sue purpuree rose e d' ombra eterna i duo lucenti lumi, gloria di questa etate. O tenebrosi fumi, qual più lucido raggio ne scopre in queste selve alto viaggio senza la bella e graziosa luce che vi fu scorta e duce? O dolore, o pietate, o miseria del mondo, come passa repente e come fugge virtù, grazia, bellezza e leggiadria! Ma già la Fama è stanca, a cui subbietto avanza e spirto manca; muta la Fama stessa omai diviene che fu tanto sonora. Ma se più non la loda, almen l' adora, e qui consacra l' ale e qui le trombe, e ben mille virtù d' un cor pudico tacita involve in un silenzio amico. AMINTA Tace la vaga Fama, ma viene al suo rimbombo ogni più scelto Iddio e più sublime, vengono anco i minori ad onorar questa notturna pompa co' suoi doni funebri. PANE Questa sì preziosa e bianca lana che già vestiva il mansueto agnello, vestita ancor ne' boschi avria Diana; tu sprezzasti orgogliosa il bianco vello, né quel di Frisso a' miei amorosi incendi fatto pietoso avrebbe il cor rubello. S' ardesti il donatore, il dono accendi, e rifiutato in vita, in morte il prendi. ESCULAPIO Quest' erbe e questi fiori, ch' hanno virtù di richiamare in vita, porgo a le fiamme con la man ardita, ma ella ritornar forse non vole, io troppo ardisco ed oso, e non mi rende accorto antica pena. Or, mentre spazia in luce più serena, non fulmini sdegnoso sovra me Giove, come irato suole, ma fulmine amoroso, s' io temer debbo sì cocenti ardori, fulmini dolcemente i nostri cuori. BACCO Mentre non arde ancor chiome sì belle l' odorifera fiamma e non circonda, io la corono di mia verde fronda, per coronarla poscia in Ciel di stelle. Degno è sol de le faci alme e divine e di celesti raggi il biondo crine, di cui faran le fiamme empie rapine. Se questo è d' oro, il fuoco a l' or perdona, e splenda in Ciel la chioma e la corona. CERERE A te le bionde spiche Cerere accendo, e tanto ora mi doglio, ch' in me rinovo il mio primo cordoglio. Esser potei di Proserpina in vece qui nel sereno giorno, mentr' ella alberga giù ne l' ombra oscura, ma cruda morte mi t' invola e fura, e saria il tuo ritorno come quel di mia figlia e d' Euridiche. Ahi Fati, ahi Parche a tant' onor nemiche! MERCURIO Messaggier del gran Giove io dono l' ali al rogo tuo per non volar già mai. Queste e l' officio tu prender potrai; mal grado de la morte e de' mortali, vinci l' Inferno e sue leggi fatali. Iride ceda, e s' a pietà si move, sia messaggiera tu del sommo Giove, prendi la verga, e ne' celesti regni spirti richiama che di lor sian degni. DIOSCURI Noi portiamo al tuo rogo, anima illustre, queste candide penne, come il candor ch' a tua beltà convenne, e se tu brami scintillar fra noi d' altra fiamma più bella, e rotar per gl' obliqui alti viaggi, vieni là su fra' duo cortesi Eroi, contenta di tua stella; partiamo il tempo, raddoppiamo i raggi, noi del tuo lume, e tu del nostro ornata. ERCOLE L' abito eletto e i preziosi fregi prendete, o fiamme, onde me stesso avolsi, dolci miei scorni, anzi miei dolci pregi. Se quel che volle Amore, ancor io volsi, abbial Corinna e voi. De' fatti egregi colga quel frutto in Ciel, ch' in Ciel io colsi. Simil è 'l rogo e 'l fine, anzi la meta, e splenda val di Tebro in guisa d' Èta. MARTE L' arme ch' uscir del foco, al foco ancora render dovrei, e gire inerme e umile, non potendo costei ritorre a morte, come ritolse Alcide alma gentile, Alcide che nel Ciel meco s' onora nato mortal, ma non di me più forte. Ma che? Prenda lo specchio e incenda or seco il dono de la Dea ch' Amor fè cieco. VENERE Ed io lassa, dolente e lacrimosa più che d' Adone estinto, dono il mio caro cinto, né mai sarò nel mio dolor vezzosa. Arda il mio nobil cinto, ardan con lei le mie lusinghe e i miei susurri insieme, cose gradite e care, ardan seco le grazie e i vezzi miei, e spento il foco che sospira e geme, sarò fredda in amare, se non raccende pur face amorosa del cener suo qualche favilla ascosa. GRAZIE Questo, questo fu il pomo ond' arse Troia al fine, e cadde sparsa in cenere e ruine. Arda, s' accese, arda in più giuste faci per te ch' avesti il vanto di grazia e d' onestate, e non sian guerre più, ma sante paci là su nel regno santo, fra l' anime beate; arda e vinca d' odor croco ed amomo. VIRTÙ Ciò che figlia del Sol piangendo instilla, ciò che lacrima mirra e nardo e 'ncenso, Corinna, or sia di nostra mano accenso nel rogo che per te splende e sfavilla. Così resta l' odore, alma tranquilla, di tua virtute, onde quetasti il senso. Lo sparga aura di fama e 'ntorno il porte, perché spiri immortal dopo la morte. DIANA Strali, faretra ed arco, armi, mie lucide armi, qual duro fato vuol ch' io mi disarmi? Erri securo ormai per l' alte selve timido cervo con ramose corna, vada secura omai la damma al fonte, corran senza timor l' antiche belve quando più imbruna il ciel e quand' aggiorna, ch' io non cingo di reti il bosco e 'l monte, e non l' attendo al varco; tu va nel foco o mio gradito incarco. APOLLO Sacro a le fiamme la corona anch' io che mi verdeggia all' onorata fronte, per dolor fatto tenebroso Dio. S' altra di raggi e di serena luce avrà nel cielo onde caddeo Fetonte, l' avrà su 'l carro, e ne fia scorta e duce. Gema fra tanto il mio vivace alloro, e 'n vece di sospiri a mille a mille, sparga nel foco pur le sue faville, mentr' io la piango e il mio dolente coro. MUSE E noi doniamo al foco anzi la tomba questo bel plettro eburno e questa lira, per cui tal fama spira che porta il nome a guisa di colomba; e se d' Orfeo la cetra in mezzo a l' Ebro solo Euridice mormorar s' udiva, agitandola il fiume e l' onde e i venti, risoni questa ne la fiamma viva del cipresso odorato e del ginebro, e faccia ardendo i suoi dolci lamenti: suoni Corinna in più dogliosi accenti, e Corinna risponda il vento e l' aura, mentre il foco ristaura, e se lira non basta, arda la tromba. VULCANO Che donar posso al fuoco, anzi a me stesso, perché donando al fuoco altrui non dono, se non questo monile e questa rete? Ardete voi, fiamme lucenti, ardete questa per cui mal vendicato io sono, benché Venere presi e Marte appresso, poich' a lei non s' avolse il crine adorno, arda la sua catena, arda il mio scorno. MINERVA Dono io candida tela a questo foco, anzi ben mille palme a questa fiamma, e mille gloriosi alti trofei; che posso più donar se quest' è poco in cui fulmina Giove e i monti infiamma? Qui le vittorie son de' nostri Dei, qui me vittoriosa ancor dipinsi contra i giganti il dì ch' Aracne i' vinsi. PLUTONE Queste più care gemme e questo lucid' or porto dal seno del tenebroso mio regno terreno, perché 'l rogo ne sia lucente e chiaro. Ecco io le verso e spargo sovra le fiamme in dolce seno apprese, ma son sdegnoso e largo di tutti altri tesori, alma cortese, se non de le tue spoglie incenerite, già povero Plutone, or ricco Dite. NETTUNO Dal mar questi coralli, e queste gemme porto ancor da l' onde, fiammeggin qui con le tue chiome bionde, ardano i miei tesori, poi che fiamma crudel, fiamma rapace, le tue vere bellezze arde e consuma, o d' immortali onori anima degna e di celeste pace, non men di lei ch' uscì di bianca spuma. GIUNONE E tu prendi, sublime ed alto rogo, e voi fiamme funeste, questo scettro reale, anzi celeste. Mentre more il suo fral, vive l' eterno: l' anima che se 'n riede, e fu de' sensi al mondo alta regina, se 'l porti omai là giù nel basso Inferno, ma non là dove siede ne le tenebre Pluto e Proserpina; regni in più lieta e più felice sede, libera e senza giogo, né turbi il nostro amore e 'l nostro luogo. GIOVE Questa tazza di fino e lucid' auro, onde nettare io bevo a la gran mensa, fece Vulcan prima ch' in cigno e 'n tauro io mi volgessi, e 'n pioggia d' or condensa. Con questa Ebe mi diè dolce restauro de le fatiche nella sete accensa, poi l' ebbe Ganimede, or tu l' avrai, a te, Corinna, tant' onor serbai. SATURNO Queste, onde si misura e si distingue il ratto trapassar d' ore veloci, dono a le fiamme io vecchio pigro e tardo, a cui potrebber con sonore voci di costei ragionar faconde lingue, che veloce sen gì qual tigre o pardo; bella cosa mortal passa e non dura, e 'l pianto a questa fiamma altri misura. CIBELE Io de' celesti Dei terrena madre piango Corinna. Ahi lutto amaro, ahi doglia! Piango le membra sue care e leggiadre che pasce il foco quasi arida foglia. Fuoco crudel, fiamme crudeli ed adre, ardete insieme quest' orrida spoglia; così Alcide volò fatto più bello, mentre arse del leone irsuto vello. AMORE E noi versiamo i fiori da le colme faretre ne l' alto rogo, e i più soavi odori. O pargoletti, miei cari seguaci, faci giungete a faci, sì che la fiamma illustri l' oscura notte e giunga in sino al cielo. Io di farfalla in guisa n' andrò volando intorno al chiaro foco, o pur, quasi Fenice, v' accenderò vermiglie ed auree piume, e con eterna vita lieto risorgerò dal vivo lume, io che d' antica etate e di novella, vecchio sono e fanciullo, son tormento e trastullo di questa etate e quella. AMINTA Cade il bianco ligustro e poi risorge, e di novo germoglia, e da le spine ancor purpurea rosa colta rinasce e spiega l' odorato suo grembo a' dolci raggi. Spargono i pini e i faggi le frondi a terra, e di lor verde spoglia poi rivestono i rami. Cade e risorge l' amorosa stella. Tu cadesti, Corinna, ahi duro caso, per non risorger mai, né più spero veder tra l' erbe e i fiori le tue vestigia impresse. Tu chiudesti, Corinna, i dolci lumi in sempiterno sonno, né gl' aprirai di novo in questa luce per far i miei contenti. Tu ponesti silenzio a' dolci accenti, e non sarà ch' io mai cosa veggia ed ascolti che mi conforti ad altro chì a trar guai. Tu moristi, Corinna, io vivo e spiro? Io vivo e tu sei morta? Ahi morte, ahi vita egualmente odiosa! Stelle, stelle crudeli, perché non mi celate il vostro lume, poi che 'l suo m' ascondeste? Perché non volgi o luna adietro il corso? Perché non copre intorno orrido nembo il tuo puro sereno? Perché il ciel non si tigne tutto di nere macchie e di sanguigne? Tenebre, e voi che le serene luci m' ingombrate repente, coprite il cielo e i suoi spietati lumi, e minaccino sol baleni e lampi d' arder il mondo e le celesti spere. Stiasi dolente, ascoso, il sol ne l' onde, tema natura di perpetua notte, tremi la terra, ed Aquilone ed Austro facciano insieme impetuosa guerra, crollando i boschi e le robuste piante svelte a terra spargendo, il mar si gonfi e con onde spumanti il cielo ingombri, volgano i fiumi incontro i fonti il corso. Voi, fère belve, in queste stanche membra saziate la fame e in questo sangue, perché io non viva un infelice esempio di fortuna e d' amore con perpetuo dolore. AMORE Folle, ah folle! Che pensi o che ragioni? Colei che piangi è viva e su nel Cielo attende il tuo ritorno. Ivi spera vederla, io sarò duce per vie sublimi. AMINTA Ahi mentitor fallace, tue promesse di fè come son vòte! Quest' è forse la prima onde schernito e deluso io rimagno? Lasso, molt' anni m' ingannasti in vita, e m' aggirasti d' uno in altro errore, d' un male in altro e d' uno in altro affanno; pur, mentre visse, m' avolgea contento ne l' amoroso laberinto errando. Or che lice sperar dopo la morte, se con la morte ha fine ogni speranza? AMORE Vaneggi per dolore e per disdegno, e 'l tuo sperar come il vedere è corto. PANE Tempra, Aminta, il dolore. Anch' io Siringa piansi e risonar de' miei dogliosi accenti feci sovente Menalo e Liceo. Pianse Alcide il fanciullo che gl' involar le Ninfe al chiaro fonte; Orfeo pianse Euridice, e pianse Apollo Dafne e Ciparisso; pianse Giove medesmo per Calisto e per Io, ed asciugò dopo il dolore il pianto; tu ti condanni a sempiterno lutto. AMINTA Sia come il danno eterno anco il dolore. MINERVA Folle! Troppo vaneggi e poco speri, né di Tirsi il cantar rammenti o quello che di Sileno udisti in verde speco. AMINTA O Dea, quel dì ch' Amore mi tolse il cor dal petto e poi mi disse: non ne far parola, mi tolse insieme il senno; qual meraviglia è s' io piango e vaneggio? APOLLO Tempra, Aminta, il dolor, ch' in questo monte, de la cui fama il mondo ancor rimbomba, e 'n questi verdi boschi e 'n queste valli, la tua Corinna avrà perpetuo onore. E tu con lei di gloriosa fama degno sarai, ché loderansi insieme la sua vera onestate e la tua fede, la sua beltate e la tua stirpe antica che vento di fortuna a pena crolla, ma non dibarba, Aminta, e non atterra, sì che non spieghi i gloriosi rami che ricoprono il Tebro e i sette colli con l' ombra antica e tutto il bel paese ove s' ascose già Saturno il veglio. Non fare, Aminta, a l' alta stirpe oltraggio col soverchio dolor; l' animo invitto mostra, come il mostrar gl' antichi Padri in ogni colpo di fortuna adversa. Vaticano a tua stirpe e gli altri sette piegan le chiome e l' Appenin s' inchina, e via più lunge Pindo, Olimpo, Atlante sostenitor de le dorate stelle, e par che dica: più famoso pondo non sostengo de l' Orse o più lucente, de l' Orse, altere imprese, insegne eccelse, vostri eterni trofei ch' in ciel traslati, quasi presagio fur del vostro merto. Ma voi potreste alzarle ancor più in alto, s' altro cielo sovran si volge intorno che per divina luce a voi s' asconda, voi, non di Licaon figli o nepoti, ma di Pane e di Giove invitta prole. Tempra, Aminta, il dolor, non dico il pianto, ma se 'l pianto amorzar può duolo ardente, or teco pianga Roma e i sette Monti. MUSE EDIZIONE DI RIFERIMENTO: "Opere - Torquato Tasso", a cura di B. Maier, Rizzoli, Milano, 1965 |
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